Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.
Giugno, nell'alterato calendario di chi lavora a scuola, è il mese della fine delle lezioni. Ed è, in tutte le scuole, il mese degli ultimi collegi e delle ultime attività didattiche. Code e bilanci di un anno passato si ascoltano tra le chiacchiere nei corridoi e caffè ipotetici ai distributori.
Uno studioso dell'organizzazione, Karl Weick, definiva la scuola nei termini di un campo di calcio privo di regolarità formale. Un posto dove insistono vari modelli organizzativi e professionali indipendenti e deconnessi tutti tesi al soddisfacimento di un bisogno culturale - sia esso primario, formativo o specializzante.
Che il principale bersaglio dell'adesione alle politiche bancarie alla fine fossero i settori statali – che già avevano sofferto un sostanzioso dimagrimento per tutti gli anni novanta, accusati ingiustamente di essere la linfa dell'imperante corruzione – questo lo si era capito fin da Maastricht.
Forse parlare di scuola all'indomani di una sconfitta elettorale può causare un certo disinteresse. Eppure questo crocevia sociale qualcosa ci racconta su come una strada alternativa sia possibile, fra le altre, nella ricostruzione di un fronte costituzionale ampio e di una sinistra di cambiamento.
Ogni settore del mondo del lavoro è ammorbato dal precariato. Gli argomenti che tentano di spiegarne l'esigenza chiamano in causa l'inevitabilità del capitalismo e il primato del profitto. Superati per il settore dell'economia privata, essi appaiono del tutto inconsistenti quando si parla di servizi pubblici. E se si parla di scuola, essi riassumono errori politici e sintesi antistoriche che, soprattutto negli ultimi venti anni – quelli del rampantismo neoliberista – hanno ridicolizzato la vita, lo studio, la socializzazione di migliaia di persone.
I Decreti Delegati avevano disegnato l'ossatura di una scuola democratica, la cui forma di governo era essenzialmente simile a quella repubblicana: il consiglio d'istituto era l'organo deliberativo per le politiche scolastiche; il collegio docenti per quelle didattiche e il preside eseguiva. Una formula nel tempo logorata dall'esaltazione dell'autonomia scolastica di stile manageriale che tuttavia non ne aveva minato l'esistenza.
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