Quando ci si appresta ad analizzare la produzione di un artista, magari avendo dapprima visitato una mostra retrospettiva che ne riassume il lavoro, bisognerebbe essere obiettivi. Prendersi del tempo, lasciare che l'onda dell'estasi visiva s'infranga sulle rive dell'oggettivo e che ritorni indietro, come risacca tenue e posata, nel quieto mare dell'imparzialità. Così il nostro critico d'arte, giornalista o burattinaio di parole dovrebbe ricacciare in un angolo entusiasmo, adrenalina e quant'altro di riconducibile al sentimento, per evitare di distorcere la percezione dello spettatore nei confronti dell'oggetto in esame. Lo scrivente, convinto che l'equidistanza del “buon” giornalismo sia una chimera per nulla auspicabile, prega i gentili lettori di perdonargli fin d'ora l'incapacità di dissertare con lucido distacco, caratteristico delle istruzioni per l'uso. In compenso garantisce loro l'onestà intellettuale di chi rimette al pubblico il diritto di verificare, parola per parola, afflato per afflato, che quanto scritto aderisca alla pura realtà dei fatti. L'unica forma di oggettività che ci piace menzionare, semmai, è quella “nuova” e “tedesca” dei coniugi Becher, pionieri in bianco e nero della fotografia industriale nella Germania post-bellica.
E il settimo giorno Dio creò la reflex. Proprio così, il Creatore dev'esser stato il capostipite dei famigerati “fotografi della domenica”. Proviamo per un attimo, con un blasfemo quanto calzante esercizio di revisionismo storico, a sovvertire ciò che da sempre tramanda la bibliografia ufficiale. Immaginiamo il nostro vecchio dalla folta barba bianca e dallo sguardo bonario, degnatosi di raggiungerci dalle sue “lontananze stellate”, per dirla con Majakovskij. Ritrovatosi al cospetto della primordiale bellezza che la Terra sfoggiava a pochi giorni dalla sua genesi, non poté fare altro che fermarsi ad ammirarla.
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