L'ammirazione nei confronti di cotanta meraviglia era tinta, ad onor del vero, dalla fisiologica dose di autocompiacimento che caratterizza chi sa d'avere svolto bene il proprio lavoro. Ad ogni modo, la superbia era un vizio capitale ancora tutto da inventare. Vittima del tedio che ogni domenica reca con sé, decise che sarebbe stato un peccato non immortalare le maestose e vergini fattezze della sua creazione. Attinse a piene mani da un giacimento di metallo, riciclò della plastica fino ad ottenerne celluloide e fu così – a noi piace immaginare – che venne alla luce la prima macchina fotografica che la storia ricordi. In preda all'entusiasmo dei fanciulli, retaggio di un'infanzia che mai nessuno aveva potuto raccontargli, esaurì le trentasei pose del divin rullino con gran foga. Giunto a questo punto non gli rimaneva altro da fare se non correre in camera oscura, per poter finalmente constatare quanto fosse fotogenico quel mondo, a suo dire, tanto perfetto. Com'è facile intuire, architettare l'universo da cima a fondo non è roba da pivellini; ma più che la stanchezza, nostro Signore accusava l'oltraggio di dover fare a meno della luce, appena qualche giorno dopo averla creata. Con non poca amarezza ma in un impeto d'amor proprio, decise che avrebbe delegato a terzi l'operazione di sviluppo e stampa. Si guardò in giro, adocchiò Adamo intento a corteggiare Eva e distolse lo sguardo con sdegno. Forgiare un uomo era un po' come cucinare una crêpe: il primo tentativo risulta inevitabilmente il peggiore. Decise di riprovarci, diede fondo a tutte le poche energie rimaste e, checché ne racconti la Bibbia, da quest'ultimo sforzo ebbe origine Michael Kenna.
Michael quel rullino lo sviluppò e diventò il padre di una branca sui generis dell'arte fotografica, che spazia da esposizioni lunghe decine di ore ad ammalianti immagini notturne. Si viene “catapultati in una natura primordiale, incontaminata, incorrotta, mai modificata dall'intervento umano – il perenne che s'erge nel suo antico splendore e che si fa tempo presente, come lo fu nel passato e lo sarà nel futuro”, secondo le felici parole di Sandro Parmiggiani. L'influenza che lo stile di Kenna ha esercitato conduce – per meriti ottenuti sul campo e mai per pura idolatria – a parlarne con la religiosità acritica che si riserva ai vangeli.
Classe 1953, nato nei pressi di Liverpool e diplomato al London College of Printing, fin da giovane nutre la passione per la pittura, dalla quale di discostò ritenendo che fosse più semplice guadagnarsi da vivere con la fotografia. Nel 1977 si trasferisce a San Francisco dove incontra Ruth Bernhard, della quale diviene assistente e stampatore per otto anni. I lavori che realizza in questo periodo faranno in modo che si disveli davanti ai suoi occhi l'osmosi fotografica tra lo scatto ed il lavoro in camera oscura. Una compenetrazione che può avere luogo soltanto attraverso il coinvolgimento totale del fotografo, dal momento dello scatto alla stampa finale. In questo contesto, sul finire degli anni '70, Kenna attua delle scelte stilistiche che diverranno delle costanti: la pellicola in bianco e nero, il paesaggio, l'assenza di personaggi, l'eliminazione dall'immagine di ogni contesto storico o aneddotico. Un minimalismo che sfocia nella riduzione estrema dei segni caratteristici del mondo contemporaneo. Pur vivendo negli Stati Uniti, negli '80 realizza le sue migliori opere in Gran Bretagna, esplorando terre già elette a paradisi terrestri da diverse generazioni di pittori inglesi. Sempre in Inghilterra vede la luce quello che potremmo denominare il suo primo “reportage paesaggistico”, avente come soggetto le ciminiere della centrale elettrica di Ratcliffe. Altra meta prescelta è la Francia. Nei soggiorni parigini si lascia catturare dalla bellezza dei lungosenna, dedicando particolare attenzione ai ponti che si stagliano lungo il fiume. A calamitare il suo interesse, nei dintorni della capitale francese, sono i castelli e parchi dove l'arte si fonde con la natura: Versailles, Sceaux, Vaux-le-Vicomte, il fascino misterioso del Désert de Retz. Da questi scatti si evince la preferenza per i monumenti storici incastonati in scenari quasi campestri. Lungo i viali bordati di tasso, nei boschetti propizi ai baci furtivi, ripercorre le orme di uno dei fotografi da lui più stimati: l'introverso Eugène Atget. Con alcuni di questi luoghi instaurerà uno rapporto duraturo, come nel caso di Mont-Saint-Michel, Venezia e Hokkaidō. Agli albori del ventunesimo secolo vanta già diverse pubblicazioni, alcune delle quali vale la pena di menzionare: “Night Work”, “Easter Island”, “A Twenty Year Retrospective”, senza dimenticare “Impossible to Forget”. Tramite quest'ultimo progetto si confronta con la dolorosa memoria dei campi di concentramento e di sterminio nazisti; stessa memoria che prova a perpetuare con la tecnica espressiva che più gli si confà. Il fili rossi che legano tra di loro le immagini di Auschwitz, Dachau e Buchenwald sono quelli del ricordo e dell'oblio, assi portanti dell'intera opera del fotografo inglese.
Analizzando con sguardo attento lo stile di Kenna si può notare il richiamo alla tradizione pittorialista, movimento internazionale sorto nella seconda metà dell'Ottocento con l'obiettivo di affrancare la fotografia dal senso comune che le era soventemente attribuito: mera e meccanica captazione e riproduzione del reale. I pittorialisti, per dirla con le parole di Julia Margaret Cameron, desideravano al contrario “nobilitare la Fotografia e assicurarle il carattere e la qualità di una grande Arte, combinando insieme il reale e l'ideale e nulla sacrificando della Verità, pur con tutta la possibile devozione alla Poesia e alla Bellezza”. Il lodevole uso del chiaroscuro di Kenna nutre affinità con quello delle opere di Rembrandt, da considerare un antesignano della fotografia, almeno per quel che concerne l'ossessiva ricercatezza di una luminosità quasi mistica. Se da un canto deve molto al pittorialismo – specialmente in tema di composizione, con un'attenzione spasmodica rivolta ad enfatizzare gli angoli visuali – d'altro canto è abile nel prenderne le distanze, alla ricerca di una personalissima dimensione. A tal proposito Ferdinando Scianna aggiunge: “Michael Kenna mi sembra contraddire una costante di una certa fotografia di paesaggio nordeuropea degli anni '50 e '60. I fotografi nati e cresciuti in paesi dove la luce si declina all'interno di variazioni di grigio, a volte tenui, a volte tempestose, quando si confrontano con paesaggi di luoghi bagnati da luci più drammatiche, mediterranee o tropicali, per dire, sembrano trasformare la loro visione rivelando il desiderio di esplorare altre possibilità espressive della fotografia rispetto a quelle sperimentate nelle terre della loro origine. Non così Michael Kenna. La cosa anzi che più impressiona nell'indagare il suo vastissimo lavoro di fotografo paesaggista è la straordinaria unitarietà del clima luminoso delle sue fotografie. […] Quello che è assolutamente inconfondibile nelle fotografie di Kenna è la materia, la luce, il clima psicologico. [...] Atmosfere brumose, incerte, malinconiche, mai solari, anche in luoghi, paesi e soggetti, che normalmente si bagnano in luci accecanti e micidiali. Tutto questo accompagnato da una struttura formale impeccabile, sapiente, raffinata, ormai padroneggiata alla perfezione”.
Per riuscire a metabolizzare il messaggio della fotografia di Kenna occorre osservare con il desiderio di vedere; con la bramosia di chi è pronto ad accogliere dentro di sé la rivelazione di un mondo che, nonostante le laceranti contraddizioni che quotidianamente ostenta, permane uno tesoro d'immane bellezza e malinconia. Bisogna ammirare questi paesaggi lasciandosi condurre in una sorta di “viaggio sentimentale”, alla scoperta non soltanto delle estrinsecazioni esteriori della natura ma anche della condizione umana. Mollare gli ormeggi e farsi cullare dalla sensazione di solitudine.