Come dire, a quanto pare questo Cohen era talmente famoso che gli facevano le cover. Una di esse ha persino fatto parte della colonna sonora di Shrek.
La visione di Leonard Cohen come poeta romantico e di alti ideali era già molto diffusa quando il poeta in questione era ancora in vita, ma probabilmente dava meno fastidio perché c’era sempre la speranza – meglio, la certezza – che il grande poeta degli alti ideali potesse sconfessare questa immagine con l’ennesima canzone improntata ad un cupo, vigoroso e fondato pessimismo e colma di disturbanti immagini di sesso non convenzionale. Nemmeno la scarsa conoscenza dell’inglese della maggior parte degli italiani, e le traduzioni sistematicamente edulcorate che hanno circolato, potevano realmente annullare il portato sovversivo di quelle canzoni.
Quella stessa immagine post mortem è per contro profondamente disturbante, perché adesso Cohen non ha più la possibilità di replicare – dal momento in cui si è ricongiunto ai suoi padri per i quotidiani e i rotocalchi è diventato storia di ieri, modificabile a piacere per renderla più innocua e accettabile. Ma se davvero Leonard Cohen è stato il grande poeta di cui si parla, se davvero la sua influenza sulla cultura mondiale è stata così rilevante, non possiamo accontentarci di questa versione. E dobbiamo sottolineare che Cohen è stata una figura culturalmente fondamentale non nonostante, ma proprio per la sua intrinseca scomodità.
Nei suoi sessant’anni di carriera artistica Cohen è stato sì un poeta dell’amore e degli alti ideali, ma con uno sguardo fortemente critico e disilluso. Le relazioni amorose sono tratteggiate nella sua poetica sottolineando anche gli aspetti più squallidi o problematici, il potere che la relazione e il sesso danno ad una persona sull’altra, la dipendenza sentimentale e la gelosia morbosa.
Allo stesso modo, l’adesione ad alti ideali non preclude il dubbio, l’incertezza e talora la disperazione. Non è un caso che tra i temi ricorrenti nelle sue canzoni siano preminenti il sesso, spesso non convenzionale, la morte nelle più varie forme, la religione, tratteggiata con un arguto sguardo che spazia dall’ebraismo all’agnosticismo attingendo però spesso ad un immaginario cristiano, la guerra e la sopraffazione; e se il messaggio finale spesso lascia trasparire possibilità di speranza, questa speranza non è a buon mercato e dipende da sforzi che tendenzialmente le persone non sono intenzionate a compiere.
Cohen si presenta quindi in primo luogo come un poeta della relazione e della sua ineluttabilità. Che si parli di relazione con la persona amata, con il resto dell’umanità, con Dio, l’essere umano non può rinunciarvi, nonostante i risvolti sgradevoli, faticosi, spesso distruttivi. Questa ineluttabilità della relazione, e della sofferenza in essa intrinseca, pervade le canzoni di Cohen: si pensi per esempio ad Anthem, del 1992 (“ogni cuore/ giungerà all’amore/ ma come un rifugiato”) o alla strofa conclusiva di Hallelujah, del 1984 (“Ho fatto del mio meglio, non era granché/ non riuscivo a sentire, così ho provato a toccare/ e ho detto la verità, non sono venuto per ingannarti/ ed anche se tutto è andato male/ io starò davanti al Signore del Canto/ con nulla sulle mie labbra se non “alleluia”).
In una grande finzione di magnifiche sorti e progressive, in cui il primo requisito perché qualcosa sia desiderabile è che sia facile, la nostra cultura sistematicamente rimuove la fatica intrinseca alla vita e alla relazione. Il tema centrale della poetica di Cohen, ciò che fa da filo conduttore per la sua smisurata opera letteraria e musicale, è rappresentato proprio da questo grande rimosso, tematizzato con crudezza e precisione, e con espressioni di dolorosa bellezza. E nonostante i continui tentativi di edulcorare, sbiancare e rendere più accettabile l’abbacinante oscurità delle poesie di Cohen, rimane intatta la loro forza polemica e consolatoria per un’umanità che al tempo stesso crede troppo e troppo poco in se stessa (“datemi di nuovo il muro di Berlino/ datemi Stalin e San Paolo/ datemi Cristo e datemi Hiroshima […] ho visto il futuro, fratello, ed è assassinio” – The Future, 1992).
Noi non abbiamo perso un innocuo, tenero e gradevole cantore dell’amore. L’ultimo grande poeta è stato un vecchio perverso ebreo tabagista canadese. La sua mancanza sarà immensa, ma la sua arte lo è ancora di più.
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