Dicembre 2017: quanti anni compie Zio Paperone? «70!», risponderà il disneyano di media cultura. Ineccepibile: la prima apparizione di Scrooge McDuck si ha nel dicembre 1947 in Il Natale di Paperino sul Monte Orso.
Ma il disneyano aficionado, il paperonista accanito, replicherebbe sornione che gli anni del vecchio papero sono molti di più: 150, essendo nato a Glasgow nel 1867. Quest’affermazione è già sufficiente a illuminare l’impatto di Paperon de’ Paperoni nella cultura di massa. In italiano il suo nome è addirittura passato ad indicare, per antonomasia, la figura archetipica del nababbo. Ma è negli Stati Uniti che la vita e il carattere di Paperone sono stati creati e definiti, con una cura filologica davvero rara in un fumetto destinato principalmente all’infanzia.
È stato Don Rosa (n. 1951, anni di attività: 1987-2006) a intraprendere e realizzare una colossale opera di sistematizzazione in un canone storicamente coerente degli indizi e riferimenti qua e là disseminati dal creatore di Uncle Scrooge, Carl Barks, prima del suo pensionamento nel 1966. Ma già Barks aveva abbozzato un albero genealogico delle famiglie “papere”, poi consegnato da Don Rosa a una condizione definitiva e organica. Questo impegno pluridecennale testimonia non soltanto l’opera individuale di due sceneggiatori, ma anche il valore simbolico del personaggio, i cui richiami alla cultura di massa, esplicitati ed immortalati da Don Rosa, erano già contenuti nella produzione di Barks.
Come noto, Scrooge McDuck era stato concepito come personaggio estemporaneo per comparire una tantum in una storia natalizia. La sua popolarità fu tale da porlo in breve tempo tra i massimi protagonisti del suo universo. Questa contraddizione è evidente nelle due figure che ne ispirarono a Barks la definizione: da un lato Ebenezer Scrooge, il gretto avaro del “Canto di Natale” di Dickens, a cui Paperone deve il suo nome originale; dall’altro, Andrew Carnegie, un povero scozzese che da operaio bambino nelle fabbriche di cotone divenne uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Se l’avarizia del primo personaggio è sopravvissuta soltanto in forme caricaturali e innocue (la palandrana acquistata di seconda mano nel 1902, le bustine di tè riutilizzate fino alla sparizione, eccetera) è stato invece l’intervento filantropico di Carnegie a definire i contorni dell’utilità sociale dell’enorme capitale a disposizione di Paperone. La stessa natura di questo capitale è paradigmatica: accanto alle immense partecipazioni azionarie, il vecchio papero ha accantonato “tre ettari cubici” di denaro liquido: ammesso che siano tutte monete da un dollaro d’argento, sarebbero circa 200 miliardi di dollari. «Questo non è tutto il mio denaro!», spiegò ai nipoti mostrandoglielo per la prima volta. «Ma questo che vedete è il denaro che ho guadagnato da me, da solo! Ogni moneta contenuta qui dentro significa qualcosa, per me! […] Questo è il denaro che non spendo e non spenderò mai!» (Don Rosa, Il papero più ricco del mondo, 1994).
Il potente appeal che Paperone continua a riscuotere (si veda la pagina Facebook “Ventenni che piangono leggendo la saga di Paperon de' Paperoni”) appare invero dovuto alla combinazione di tre fattori:
1. la vecchiaia, che lo rende un monumento vivente ai successi ottenuti con la saggezza e con la tenacia («Sarò più duro dei duri e più furbo dei furbi…e farò quadrare i miei conti! Mi sa che questo è l’inizio di qualcosa di grandioso!» dice a se stesso il Paperone lustrascarpe a dieci anni nella Glasgow del 1877);
2. la collocazione storica, che proietta il personaggio in profondità, facendolo aderire allo sviluppo della società invece di lasciarlo confinato, come solitamente accade al fumetto, in un universo che per quanto dettagliato resta fantastico;
3. l’umanità: il papero è solo la foggia esteriore; le azioni e i sentimenti di Paperone sono umanissimi, anche se dell’uomo mostrano quasi sempre la parte migliore. Tutti i paperi Disney ovviamente hanno comportamenti umani, pur non essendo antropomorfi, ma grazie a Don Rosa Scrooge McDuck ha violato due confini tabù per quei fumetti (e anche per gli uomini in carne e ossa!): la morte e il sesso. La morte, in una vignetta ad hoc in cui i nipoti anziani e i pronipoti adulti piangono davanti a una tomba “Scrooge McDuck 1867-1967”; il sesso, in una sequenza muta e fuori campo nell’ultima storia di Don Rosa, La prigioniera del fosso dell’Agonia Bianca (2006): è il giudice Roy Bean, una leggenda vivente del West, a dichiarare: «Alla luce di un’attenta valutazione (e di molti anni di esperienza) il verdetto di questa corte è che quanto sta accadendo in quella capanna non è un reato punibile con l’impiccagione a Langtry, Texas… o in qualsiasi altro posto! Grazie al cielo!».
La cifra fondamentale di Paperone come capitalista emerge in rilievo nelle differenze con i suoi principali avversari, entrambi creati da Barks: Cuordipietra Famedoro (Flintheart Glomgold in originale) e John D. Rockerduck. Il primo è un boero sudafricano che come Paperone è partito dal nulla, ma che diversamente dallo scozzese ha scelto la via della disonestà, dell’inganno, della mancanza di qualsiasi scrupolo: nelle storie americane egli è l’eterno secondo papero più ricco del mondo; significativamente, nella sua storia di esordio (Carl Barks, Paperino e il torneo monetario, 1956), Paperone risulta più ricco di lui solo per qualche centimetro di spago: quello a cui ha legato la Numero Uno, la prima moneta guadagnata col proprio lavoro di lustrascarpe, a testimonianza di un’accumulazione non immune dalla responsabilità sociale. Rockerduck, molto più noto in Italia che altrove, non ha neanche guadagnato la propria fortuna, costruita invece dal padre durante la corsa all’oro in California del 1849 (un piccolo antesignano di Paperone, arricchitosi definitivamente con la corsa all’oro del Klondike nel 1897). Nonostante il nome suoni come un esplicito richiamo a Rockefeller, questi è in realtà come Carnegie un alter ego di Paperone essendo giunto alla ricchezza da origini umili. Rockefeller e McDuck sono stati entrambi, nei loro mondi, gli uomini/paperi più ricchi (la fortuna del primo arrivò a toccare l’1% del Pil degli Stati Uniti) ed entrambi sono stati dei monopolisti il cui potere sociale è stato temuto e combattuto: «I tre pericoli sui quali ho maggiormente insistito nella mia campagna elettorale», dichiara Theodore Roosevelt apprendendo dell’arrivo di Scrooge a Duckburg nel 1902, «i grandi affari, le interferenze straniere e le minacce militari alle nostre coste, sono diventati uno solo!» (Don Rosa, L’invasore di Forte Paperopoli, 1994).
Paperone, però, non è solo un anziano capitalista con alle spalle una vita avventurosa. Al contrario, tutte le avventure in cui lo vediamo con occhiali, bastone e basette lo coinvolgono ad un’età tra gli 80 e i 100 anni – prestando fede, s’intende, al rigore cronologico di Don Rosa che ha sempre ambientato le proprie storie negli anni Cinquanta. «Mi sento come se avessi ancora 20 anni buoni di lavoro davanti! E le più grandi avventure ancora da vivere!», spiega ai suoi nipoti la sera del 25 dicembre 1947 (Il papero più ricco del mondo). A differenza di Charles Foster Kane di Quarto potere, al cui cinegiornale di apertura si richiama il cinegiornale a fumetti di quella storia, Paperone non muore in solitudine, ritirato dal mondo e condannato a non raccogliere davvero i dividendi umani del proprio denaro guadagnato a prezzo di una vita di sacrifici e rinunce. Egli resta fino alla fine un avventuriero nel senso più nobile del termine e, nonostante gli eterni tentativi di salvare la propria apparenza di taccagno, non esita ad esporsi personalmente per difendere la collettività di Paperopoli che lui stesso con i suoi investimenti ha trasformato dal villaggio di contadini del 1902 in una grande metropoli industriale: si vedano Zio Paperone in qualcosa di veramente speciale (1997) o Sua Maestà de’ Paperoni (1989).
L’amore per Doretta Doremì, a cui Don Rosa ha dedicato ben cinque storie, oltre ai riferimenti onnipresenti nelle altre, è il risvolto privato di una personalità ricchissima di esperienze e capace di farle tutte fruttare.
Nel settembre 1917 Lenin scrisse: «il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico» (La catastrofe imminente e come lottare contro di essa), mentre il giovane Marx aveva già definito il denaro, in quanto mediatore universale, «il potere alienato dell’umanità» (Manoscritti economico-filosofici del 1844). La figura sociale di Zio Paperone cresce esattamente, nell’irrealtà, come risolutrice di queste antinomie incomponibili: egli è quanto di più vicino a un monopolio capitalistico privato messo al servizio di tutto il popolo, quanto di più vicino a una riappropriazione di noi stessi per tramite del denaro stesso. Si tratta di un’antica promessa del capitalismo classico, oggi resa inattuale dall’abnorme sviluppo finanziario dell’ultimo trentennio, ma evidentemente ancora in grado di risvegliare emozioni e attenzioni.
P.S.
Nel 2001 Topolino organizzò elezioni per posta cartacea, in concomitanza con le elezioni politiche del 13 maggio. Gareggiavano 12 liste, ognuna guidata da un personaggio Disney. La preferenza di chi scrive andò a Zio Paperone a capo del “Partito dei Ricchi”; la lista arrivò quarta con il 6%. Ad affermarsi nettamente furono con il 35% “Amaca Selvaggia” di Paperino, che chiedeva l’abolizione dei debiti per i cittadini onesti e scansafatiche, e con il 31% “Campeggi 4 Stelle” di Qui, Quo e Qua, che prevedeva il regalo ad ogni ragazzo di consolle per videogiochi, connessione Internet e piscina coperta. Ricorda qualcosa?
Mentre si viaggia a passo spedito verso un’ammucchiata parlamentare in grado di costituire un nuovo governo di larghe intese che si appresterà a calare la scure dell’austerità, il dibattito sull’assenza di lavoro e le crescenti difficoltà economiche continua. Se il M5S si affanna e tenta di promuovere una blanda forma di reddito di cittadinanza, il Papa stesso non manca di dire la sua, ricordando come vi sia «necessità non di un reddito per tutti, ma di un lavoro per tutti».
Mentre in una Grecia circondata da muri, al molo di Chios, i militanti di Alba Dorata tentano di annegare i profughi, evidentemente ancora non contenti delle deportazioni organizzate dall'Unione Europea ed effettuate da un'agenzia creata appositamente per “gestire le frontiere esterne” come Frontex (per il video vedi qui), i problemi alla base dei movimenti migratori non sembrano certo arrestarsi, bensì acuirsi.
Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre
Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?
La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.
Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.
In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.
Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.
L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.
Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.
L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.
Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.
Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.
Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.
Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).