Infatti, nonostante la tregua in Siria e i tentativi molto maldestri di riportare l'ordine politico in Libia, i rapporti economici che arrivano sembrano non far presagire nulla di buono. In particolare un articolo comparso sul The Guardian a firma di Jason Hickel (vedi qui), si occupa, dati alla mano, di demolire a dovere quanto resta delle teorie liberali degli stadi di sviluppo (W.W.Rostow) e della convergenza (Clark Kerr). Queste teorie nate negli anni '60 analizzavano l'evoluzione economico-sociale delle società sottosviluppate tentando di sistematizzare tale evoluzione in stadi, come fa esplicitamente la teoria di Rostow, oppure preannunciando una necessaria convergenza verso i canoni della modernità occidentale. Come aveva già notato criticamente P. A. Baran in particolare in merito alla teoria degli stadi, “questo tipo di spiegazione è deformato e mutilato dal fatto che Rostow si rifiuta di accogliere nella sua analisi il movente del profitto”1. Gli stadi rostoviani, così come la convergenza di Clark sembrerebbero semplicemente un tentativo di idealizzare l'ordine occidentale, perdendosi in una pesante carica ideologica. Simili teorie vennero giustamente stroncate dai marxisti già in quegli anni (sempre Baran definì le previsioni di Rostow “sociologia da caffè”) ma oggi, di fronte alla polarizzazione del mondo globalizzato, tali teorie dimostrano tutta la loro caducità.
Se a gennaio, nei giorni di Davos, l'Oxfam rivelava che 62 persone possiedono la metà della ricchezza mondiale (leggi qui), Hickel, invece, utilizzando il database del Maddison Project (leggi qui) compie un'analisi comparata ancora più interessante. Dall'analisi emerge come le diseguaglianze misurate tra aggregati nazionali abbiano subito una vera e propria impennata non solo con l'avvento del neoliberismo, ma già a partire dal 1960. In altre parole, finito lo stimolo della produzione bellica del dopoguerra e avviata la decolonizzazione, basata sull'apertura delle ex colonie ai mercati occidentali, il divario con i paesi occidentali sarebbe addirittura triplicato per i paesi della periferia del mondo, crescendo del 206% nell'America Latina, del 207% nell'Africa Sub-Sahariana e del 196% nel Sud-est asiatico. Una prima considerazione ci dice quindi che non basta fermarsi alle generalizzazioni del concetto di globalizzazione neoliberale per capire il reale impoverimento crescente della gran parte della popolazione mondiale (vedi tassi demografici delle aree interessate). Ben più utili risulterebbero i concetti di imperialismo, di scambio ineguale e di neocolonialismo praticati sistematicamente dal polo più ricco del pianeta con l'intenzione di estrarre ulteriore plusvalore dalle risorse territoriali e umane di chi si trova nella posizione di aggredito da una voracità di mercato finora sconosciuta. L'indebitamento indotto è poi un meccanismo sul quale occorrerebbe soffermarsi con maggior cura di quanto non si possa fare in queste poche righe, poiché in ultima istanza risulta essere la principale leva tramite cui le popolazioni di questi paesi vengono costrette a scoprire una sempre più bassa soglia di povertà.
Difficilmente si potrà raccontar loro la favola dell'“aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità”, a meno che davvero non ci sia ancora qualcuno convinto dell'esistenza di alcune popolazioni subumane … e vedendo il trattamento riservato ai profughi in Europa e l'arroganza con cui i rappresentanti statunitensi si presentano a Hiroshima dopo oltre settant'anni dall'annientamento nucleare di un villaggio di pescatori, chi scrive non si sente assolutamente di escluderlo. Forse solo così, cioè con una giustificazione puramente ideologica, si può accettare in silenzio (non ho sentito gli alti lai di Papa Francesco in merito allo sfruttamento del suo Sud America) un tale livello di degrado dell'umanità.
1 P.A. Baran, Un manifesto non comunista, in Saggi marxisti, Einaudi, 1976, p. 57