Peccato che, pochi giorni dopo tali parole di saggezza del Santo Padre all’Ilva di Cornigliano, la dirigenza dei gruppi industriali che si preparano a gestire l’Ilva tra cui a AmInvestco Italy (al cui interno troviamo giganti del calibro di ArcelorMittal, Marcegaglia e Intesa Sanpaolo) e AcciaItalia si siano apprestati ad attuare giganteschi piani di ristrutturazione industriale con riduzioni d’organico di diverse migliaia d’esuberi. Questo, ovviamente, nonostante gli affari dell’Ilva, sia in termini di produzione che di fatturato, siano buoni, anzi ottimi. La riorganizzazione dei processi produttivi è una costante che attraversa qualsiasi multinazionale voglia tenere il passo della competizione mondiale che, come sappiamo, viene fatta sui costi della manodopera. Laddove non si spostano i siti produttivi si procede all’eliminazione diretta dei posti di lavoro. Non è una novità e persino la Chiesa riesce a condannare tale spietato processo, tant’è che il Papa ha lanciato il suo monito anche verso coloro che «tolgono il posto o sfruttano la gente con lavoro indegno». Il problema però sta nel portare fino in fondo tale critica, doverosa e opportuna, al modo di produzione capitalistico.
La Chiesa cattolica rivendica l’importante affermazione della preferenza del lavoro al reddito al fine di salvaguardare la dignità dell’uomo richiamandosi al francescanesimo, contrapponendosi così al tentativo del M5S di porsi alla testa di un movimento neofrancescano per la pace sociale. Le scintille tra chi, da politico, alla Perugia-Assisi rivendica la necessità di un reddito minimo per evitare rush violenti e chi, da religioso al vertice delle gerarchie ecclesiastiche, rivendica la centralità di un lavoro che però scompare pone un problema non da poco. Un approccio così diverso al disagio sociale rivela una contraddizione intrinseca agli stessi gruppi dirigenti del capitalismo. Spostare l’asse del governo sociale dal lavoro al reddito diventa una mossa destabilizzante non da poco che i conservatori non possono accettare facilmente, di qui la posizione delle gerarchie ecclesiastiche. Viceversa, la posizione di chi si propone di affrontare il problema da una prospettiva progressista, ma unicamente dal lato del reddito rivela la rassegnazione sull’impossibilità di costruire nuovi posti di lavoro.
Nel frattempo, il tema centrale resta però il lavoro degradato, i working poor e tutte le forme di sottoccupazione che si diffondono in un contesto di povertà crescente in cui si investe sempre meno sulla qualità del lavoro e sul valore aggiunto che esso genera. Il dibattito su come fermare tale degrado dovrebbe essere al centro di una buona praxis politica e invece ci si avvita in sterili dibattiti su chi abbia la precedenza tra reddito e lavoro. Merita di essere citato un gigante teorico del neocapitalismo come Hyman Minsky che ha individuato correttamente il punto dirimente nell’intervento rivolto a sovvertire i meccanismi che generano la sconfitta degli ultimi. L’obiettivo centrale che una buona politica dovrebbe porsi è quindi la modifica del mercato del lavoro, con la determinazione di un livello di garanzie e salari sotto il quale non si possa scendere e il controllo degli investimenti e della natura delle produzioni per finalità utili.
La disincentivazione degli investimenti e dei consumi militari è fondamentale perché significa aver individuato qual è il motore della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: la produzione e il consumo di strumenti di morte. Calmierare la funzione esercitata dall’esercito industriale di riserva mosso dalla povertà è l’unica via d’uscita non-violenta e poiché «il meccanismo di mercato non può raggiungere e mantenere il pieno impiego», «affinché il capitalismo possa avere successo sono necessarie istituzioni che integrino l’occupazione privata attraverso un’offerta illimitata di lavoro» (H.P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse, 2014, p. 258). Chiunque nutra ancora qualche ambizione o speranza a salvare questo sistema dovrebbe ispirarsi a soluzioni anti-cicliche come questa, cioè soluzioni in grado di porsi realmente in contrasto al circolo vizioso innescato dal capitale che schiaccia il lavoro. Secondo Minsky porre un soggetto istituzionale, come lo Stato, quale datore di lavoro di ultima istanza, è l’unica arma in grado di costringere il mercato del lavoro a distribuire la ricchezza prodotta. Si può cambiare le regole sociali e partire dalla creazione di lavoro solo redistribuendo la ricchezza prodotta. Questo potrebbe essere un utile suggerimento che le due parti protagoniste del più recente dibattito sul reddito di cittadinanza dovrebbero raccogliere al fine di rendere più convincenti le proprie argomentazioni.