Martedì, 20 Giugno 2017 00:00

Una breve analisi del fenomeno En marche!

Una breve analisi del fenomeno En marche!

Persino un "disproporzionalista convinto" come D'Alimonte (parole sue) è convinto che il sistema elettorale francese vada rivisto, per un maggiore equilibrio tra "stabilità e diritto alla rappresentanza per le minoranze". Lo scrive sul Sole 24 Ore del 18 giugno 2017, alla vigilia del secondo turno delle legislative d'Oltralpe. 577 seggi, assegnati attraverso altrettante circoscrizioni uninominali maggioritarie. L'astensionismo storico (un record) si accompagna con un sistema completamente saltato, essendo En Marche! un movimento nato nel 2016 che raccoglie, anche in modo confuso, sostegni trasversali (si pensi alla parabola di Manuel Valls, "ridotto" a candidato presidenziale indipendente, dopo i trascorsi socialisti e l'incompatibilità con le regole dell'organizzazione di Macron, che pure accoglie senza imbarazzo ogni supporto). Lo spauracchio del Front National è scomparso dalle narrazioni giornalistiche occidentali, ma il fenomeno lepenista rischia di riproposi rafforzato, registrate le divisioni tra France Insoumise (movimento "podemonista" di Mélenchon) ed il tradizionale Partito Comunista Francese, mentre il Partito Socialista Francese lotta per non fare la fine dei cugini greci.


 Niccolò Bassanello

In circa un anno Macron ed il suo movimento hanno completato una scalata al potere in pieno stile bonapartista (potremmo anche dire populista), completata alle scorse legislative con una autentica inondazione “nuovista” degli scranni parlamentari. In un quadro di scarsissima affluenza, che pare abbia penalizzato soprattutto i lepenisti e la sinistra di France Insoumise, il movimento di Macron ha schiacciato Socialisti e Repubblicani e ha conquistato una maggioranza di ferro.

Proprio l'entità della vittoria di Macron ha fatto discutere. Cercando di mantenere una certa epoché, indispensabile se si vuole davvero comprendere una situazione di cui non si possiede una conoscenza specialistica, ancora una volta non bisogna cadere nelle semplificazioni o negli slogan degli ierofanti del proporzionale. Certamente il doppio turno francese è distorsivo: infatti il PCF è riuscito, con un misero 2,7% di consensi al primo e 1,2% (meno dello 0,6% dei consensi tra gli aventi diritto al voto) al secondo turno, addirittura ad aumentare la propria consistenza parlamentare eleggendo 10 deputati. Non bisogna dimenticarsi mai che un qualunque sistema elettorale è democratico in quanto basato sul suffragio libero e universale (e nel caso della Francia su questo non ci sono dubbi) e sulla applicazione uniforme di regole eque ed espressamente previste; e che il comportamento dell'elettore non prescinde in nessun caso dalla struttura istituzionale e legale nel cui quadro esercita il voto.

Bisogna, a mio parere, piuttosto interrogarsi sul ruolo dei singoli partiti nella democrazia francese e chiedersi come queste forze politiche abbiano affrontato la tornata elettorale. Il Ps è uscito a pezzi dalla presidenza Hollande, e di conseguenza ha subito due dure sconfitte di seguito, alle presidenziali e alle legislative. D'altra parte al governo i socialisti hanno dimostrato di aver rimosso anche le vestigia simboliche degli ideali socialdemocratici e di essersi convertiti completamente al consenso postideologico del riformismo di mercato, nonostante la tardiva leadership gauchiste di Hamon. I Repubblicani sono stati funestati dagli scandali già alle presidenziali; il partito di Fillon, che alle presidenziali si era presentato con un programma “thatcheriano” a base di tagli e privatizzazioni, a queste legislative ha incassato un risultato molto al di sotto delle apettative. Anche se il sistema elettorale fosse stato proporzionale e quindi a Ps e Repubblicani fossero toccati più seggi, che opposizione alle politiche di Macron avrebbero potuto fare due partiti che in gran parte ne condividono l'ideologia di fondo? Il problema sta tutto qui.

Ovviamente il discorso è diverso nel caso di France Insoumise e PCF, ma non meno grave. Un partito che vuole competere nelle istituzioni, che dice di rappresentare la stragrande maggioranza della popolazione, e che alla prova dei fatti non riesce nemmeno a portare i propri elettori alle urne è un partito dal futuro quantomeno incerto.


Alex Marsaglia

L'impressione è che le legislative francesi dicano qualcosa di più, qualcosa che va oltre la natura distorsiva di un sistema elettorale di una Repubblica semi-presidenziale. Per carità questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti e dovrebbe sdegnare qualsiasi sincero liberale che un partito controlli il 70% dei seggi col 16% dei consensi. Ma, come detto, c'è qualcosa di più.

Questo qualcosa lo si può serenamente rilevare, se non ci si vuol bendare gli occhi per far finta di non vedere, da un'analisi delle forze politiche più penalizzate dall'astensionismo. Il Front National si è infatti polverizzato e ridotto a terza forza parlamentare non appena il voto è tornato a interessare questioni di secondo ordine. È brutto dirlo, ai liberali potrà non piacere, ma il parlamento eletto in concomitanza con il Presidente in un sistema semi-presidenziale diventa una questione chiaramente secondaria. Parlo ai più sinceri democratici liberali che si indignano per la scarsa coscienza civica delle persone e la loro apatia: tessere le lodi di un sistema che lascia a forze di estrema destra l'unica e ultima capacità di rappresentare le ragioni di un popolo è l'unica cosa peggiore del fascismo.

Questi dati sull'astensionismo, se letti attentamente, ci dicono quanta presa sulla popolazione abbia una forza politica come il Front National. Nel frattempo l'erosione delle istituzioni che garantivano rappresentanza e partecipazione in questa fase postdemocratica declinante sembra riportarci all'Ottocento in cui i parlamenti non venivano eletti dalla totalità della popolazione. Allora per legge era esclusa metà della popolazione, oggi metà della popolazione si autoesclude per scelta politica. A voi le conclusioni sul futuro che i nuovi socialdemocratici di La Republique En Marche stanno preparando.


Dmitrij Palagi

Le orde del popolo minacciano le istituzioni della democrazia rappresentativa europea. Macron riesce a incanalare l'insofferenza verso i partiti tradizionali e salva Parigi, culla di quella rivoluzione borghese tanto cara agli intellettuali della nuova sinistra post-comunista.

Il problema è che il popolo non esiste e non c'è sistema elettorale con il quale si possa risolvere il problema dello svuotamento del politico di fronte all'opinione comune. Tanto è forte il successo di France Insumise che le divisioni a sinistra non mancano, con un PCF che vanta l'aumento dei suoi eletti e pubblicamente (comprensibilmente) rimuove il distacco rispetto al movimento di un ex socialista amato dalla sinistra autoproclamatasi rivoluzionaria (perché indisponibile a dialogare con i socialisti).

Dopo oltre un decennio in cui siamo stati abituati a vedere governi di larghe intese, perché non accettare direttamente un rappresentate che della trasversalità centrodestra-centrosinistra fa un elemento di rinnovamento, rispetto ad un teatro di cui a fatica si coglie ?

Il profilo sociale dei nuovi eletti di En Marche! merita di essere approfondito, così come il tema dell'astensione dovrebbe riguardare chi vuole ragionare di un cambiamento radicato nella società. Il voto francese descrive però il vuoto di ciò che si propone alternativo a questa Unione Europea. Strumentalmente le forze di governo chiedono quali siano le proposte alternative. Per ora nessuno all'interno del continente ha convinto e il riconoscimento di Varoufakis dovrebbe suonare come campanello d'allarme per tutta la sinistra (?) europea, fuori dal PSE.

Quanto vuoto c'è per permettere questa ascesa di Macron?


Jacopo Vannucchi

Il secondo turno ha visto l’elettorato francese mitigare l’ampiezza parlamentare inizialmente preventivata per En Marche!: la maggioranza presidenziale, accreditata dalle ultime simulazioni di fino all’80% dei seggi, ne ha riportato il 60%. A beneficiare di questo parziale riequilibrio sono stati soprattutto il centrodestra e le forze di sinistra radicale, ovvero le più penalizzate dall’astensione nel primo turno. Questa correzione di rotta al ballottaggio non è nuova alla storia politica francese – già nel 2007 la destra ottenne 109 seggi su 110 assegnati al primo turno ma superò di poco gli avversari al secondo.

Nonostante l’ampiezza del mandato parlamentare LREM e MoDem contano solo su un terzo dell’elettorato mobilitato, ovvero circa un sesto dei cittadini elettori. Questa discrepanza pone oggettivamente la questione dell’espressione della volontà popolare, non soltanto per quanto si registra nelle elezioni ma anche per come si svilupperà eventualmente l’opposizione alle politiche di Macron: sarà in grado di trovare adeguata rappresentanza parlamentare o potrà esprimersi solo nella rabbia di strada?

A questo proposito, in attesa di vagliare il comportamento di centrodestra e centrosinistra, che il Presidente ha cercato di cooptare parzialmente nell’esecutivo, si segnala rispetto alle presidenziali la smobilitazione di tutti gli elettorati ad eccezione di quello socialista (e, ovviamente, dei macroniani). Il fenomeno è particolarmente vistoso per le frange radicali, Fn e LFI-Pcf.

Il Fronte nazionale è andato incontro ad un vero e proprio arenamento: stabile al risultato di cinque anni fa (anzi qualcosa in meno, -0,4%), conquista otto rappresentanti, un decimo esatto degli ottanta prefissati come obiettivo prima del ballottaggio presidenziale.

Per quanto riguarda La France insoumise e il Pcf, l’effetto distorsivo dell’uninominale (rispettivamente 17 seggi e 10) maschera l’ampia disparità di consenso, con il movimento di Mélenchon che ottiene quattro volte i consensi dei comunisti. Il Pcf, che seppe distinguere tra il voto tattico a Macron per sbarrare la strada a Le Pen e l’opposizione netta alle politiche dell’ex Ministro dell’Economia, è stato dunque ampiamente surclassato dalla demagogia come accaduto nella vicina Spagna al Pce per mano di Podemos.
Per il Presidente sarà quindi vitale, viste la pericolosità latente della disillusione verso il voto (oltre la metà degli elettori ha disertato le urne) e l’incertezza dell’umore popolare, tener fede al proposito, espresso nel discorso della vittoria il 7 maggio, di recidere le radici sociali del consenso agli “estremisti”.


Alessandro Zabban

I trionfi elettorali di Macron e del suo partito En Marche! fanno della Francia un esempio paradigmatico di quanto ambiguo e problematico sia diventato il concetto di populismo. Nato per descrivere alcune esperienze politiche dell'America Latina, oggi il concetto risulta del tutto stravolto nel suo significato originario perché tende ad essere utilizzato e piegato alle esigenze propagandistiche più disparate e a colorarsi di connotati sempre più dispregiativi.

Esiste nel mondo un sacrosanto malcontento generalizzato per le logiche di funzionamento del sistema economico globale. Chiamare questo malcontento populismo senza distinzioni e analisi nasconde l'intenzione di delegittimare ogni forma di opposizione al neoliberismo. Leggere i movimenti antagonisti e i partiti di alternativa radicale come populisti diventa così uno strumento funzionale alla dominazione delle classi abbienti. Il populismo è piuttosto il prodotto di una sfera politica colonizzata dall'economicismo e che tende a mostrarsi nei panni consumistici di una esibizione sfarzosa e spettacolare ma che in realtà tende a ridursi a una serie di fredde e ciniche tecniche amministrative per la gestione delle transazioni di mercato. Riflesso di una società più individualizzata e narcisistica, alienata e senza riferimenti stabili, il populismo è la politica della fine della storia, ovvero il modo di funzionamento della politica nell'epoca del trionfo del neoliberismo transnazionale.

Nella Francia contemporanea, si sono meritati l'etichetta di populisti tanto i militanti e simpatizzanti del Front National (FN) della Le Pen che anche quelli della France Insoumise (FI) di Melenchon. Se però consideriamo gli elementi fondamentali che a detta di molti esperti caratterizzano un movimento populista, vale a dire il rapporto diretto fra leader ed elettore, l'avversione per il sistema politico visto come distante e corrotto e l'autocollocamento al di fuori della tradizionale distinzione fra destra e sinistra, arriviamo facilmente alla conclusione che En Marche! sia decisamente più populista tanto del FN che della FI. Non solo rappresenta al massimo grado l'idealtipo del partito personalistico e liquido, senza militanti e organizzazione, in diretta concorrenza con gli "obsoleti", "corrotti" e "vetusti" partiti tradizionali, ma si caratterizza anche per una ideologia volutamente vaga e ambigua che richiama parole d'ordine di destra e slogan della sinistra, senza però volersene realmente impossessare: è tutto un gioco di suggestioni ideologiche flessibili e cangianti, aggiustabili a seconda del contesto (il modello postfordista del just in time applicato alla politica).

Se si vuole parlare di populismo occorrerebbe avere la precauzione di considerare il fatto che questo è tanto più temibile quanto più è agito dalle classi dominanti celando la sua vera natura. Alle elezioni francesi non ha vinto la politica in quanto tale, ha vinto chi vorrebbe la politica ridotta a scienza dell'amministrazione travestita da show: elegante, affettata, innocua. Siccome è l'intera sovrastruttura politica populista, riflesso degli attuali rapporti di produzione, ha poco senso etichettare un singolo partito o movimento come populista. Non fa che rendere più confuse le cose per il vantaggio dei soliti. Le categorie novecentesche saranno anche superate e dire che il Front National è fascista potrebbe non essere del tutto esatto, ma è senz'altro più preciso che etichettarlo sotto la categoria di populismo.

Immagine liberamente ripresa da images2.corriereobjects.it.

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Venerdì, 16 Giugno 2017 00:00

Venti che soffiano in Europa

Soffiano in italia e in altri paesi d’europa venti e venticelli nuovi e importanti

La tornata elettorale dei giorni scorsi in molti paesi europei indica alcune tendenze e apre al tempo stesso molti interrogativi. Il contesto politico italiano e, per quel che si è visto, i contesti politici di Francia e Regno Unito stanno subendo modificazioni rilevanti, e ciò sta accadendo anche in Italia, benché in forma più ridotta e più confusa. Cosa si
può tentare di ipotizzare. A me pare che siano in campo più modificazioni degli umori dell’elettorato popolare.

In Italia una tendenza sembra essere quella dell’esaurimento della crescita del voto alle formazioni ululanti della destra fascistoide e del parallelo declino del voto al Movimento5Stelle. La crescita, per un certo tempo impetuosa, del consenso popolare a queste formazioni risultava creata dal loro recupero dei titoli dei temi che assillano o indignano le classi popolari, e l’intendimento che essa si proponeva era la punizione delle formazioni tradizionali di governo, data l’assiduità delle loro politiche antisociali, per di più estremamente brutali nella crisi sistemica di questi anni. Lo stesso è valso a lungo in Francia. In queste settimane, tuttavia, Marine Le Pen è stata stoppata alle elezioni presidenziali e poi fortemente ridimensionata al primo turno delle elezioni parlamentari, non avendo saputo unire alla denuncia del disagio sociale della maggioranza dei francesi un programma che avesse il senso dell’utilità. E lo stesso è poi accaduto al primo turno delle elezioni amministrative italiane, alle quali il Movimento5Stelle è stato travolto a causa del flop delle sue esperienze amministrative, del primitivismo e delle urla dei suoi esponenti, delle buffonate di Grillo.

È un po’ quello che succede in pubblicità: la dichiarazione che il tuo detersivo lava più bianco del bianco mentre gli altri detersivi lasciano macchie e patacche può risultare lì per lì credibile: ma poi quando ti accorgi non una volta ma continuamente che quel detersivo apre buchi nelle mutande cambi marca. È questa stessa, inoltre, la cosa in precedenza avvenuta a danno del PD di Matteo Renzi, inciampato, dopo averne fatte di ogni, in quel referendum costituzionale che doveva avviare un millennio di governo. Sicché quel che mi pare di ravvisare è, prima di tutto, una nuova tornata del peregrinare della parte disorientata dell’elettorato popolare, sia italiano che di altri paesi europei.

Ascrivo invece il flop dei conservatori di Theresa May alle elezioni parlamentari del Regno Unito a un altro tipo di tendenza popolare, anch’essa montante da relativamente poco tempo: la paura di un disastroso salto nel buio, ovvero la paura che la Brexit porti a forti danni economici e sociali, vale a dire, tramite la caduta del valore relativo della sterlina e conseguenti processi inflativi, alla caduta del valore di pensioni e risparmi, a ulteriori peggioramenti della condizione lavorativa popolare e delle prestazioni, già malmesse, del welfare, a ritorni della crisi e della perdita di posti di lavoro, ecc. Lo stesso fenomeno, inoltre, ha cominciato a operare anche altrove, senz’altro in Francia e in Italia. Anche questo dunque è da trarre dai recenti risultati elettorali in questi paesi: la paura del salto nel buio. Infine è probabilmente questa la ragione del ritorno di credibilità, che era apparsa declinante, di Angela Merkel in Germania. Quando si tratta soprattutto di votare a dispetto per la Le Pen, Matteo Salvini, Grillo, Frauke Petry non ci si pensa, nel senso a questo tipo di voto è presupposto che di sconquassi gravi comunque non ce ne saranno, tutto continuerà, certo male, ma come prima. Ma proprio il tentativo di Brexit della May ha indotto altrove in Europa la paura del salto nel buio. E lo ha indotto nello stesso Regno Unito: dato il programma sociale lacrime e sangue che la May ha accompagnato alla Brexit, dato il cattivo andamento dell’economia, che sta constatando la delocalizzazione in Irlanda e negli Stati Uniti di banche, fondi di investimento, sedi centrali di multinazionali, dato infine il rischio della secessione della Scozia (e del suo petrolio). Voto a dispetto e paura del salto nel buio costituiscono in certa misura un’antitesi: il carattere anche emotivo delle scelte elettorali può però far sì che coesistano nel medesimo individuo, e che a seconda delle circostanze prevalga in egli un tipo o l’altro di scelta. Insomma come diceva Mao “il disordine è grande sotto il cielo”, dunque “la situazione è eccellente”.

Io in verità non sono molto sicuro che oggi sia questa la situazione: però non è neanche il caso di esagerare in pessimismo. Ciò che la situazione sarà dipende dall’enorme quantità di cose di tutti i tipi che avverranno nella vita nella sua interezza delle popolazioni europee: e dentro all’enormità delle cose qualche elemento suscettibile, non dico di rendere eccellente la situazione, ma di migliorarla sensibilmente,e, come avrebbe detto Napoleone Bonaparte, poi vi vedrà, è venuto montando. Ecco infatti un ulteriore dato dei mutamenti degli umori popolari: il ritorno del loro sguardo a ciò che avviene nella sinistra politica, essendo essa non più portatrice tutta quanta e a larghissima maggioranza di politiche antisociali, oppure, più recentemente, dalla propria decomposizione e dalla propria semiestinzione, ma anche da ignificativi ritorni a sinistra, cioè al  proprio mestiere precedente di rappresentanza delle richieste popolari e di attivazione di mobilitazioni e di lotte er l’affermazione istituzionale di queste richieste.

Il successo di France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e quello nel Regno Unito del Labour di Jeremy Corbyn hanno parlato chiaro in questo senso, e a suo tempo aveva parlato chiaro la vittoria in Grecia della Syriza di Alexis Tsipras. Hanno inoltre parlato chiaro fatti come il disfacimento di partiti i cui gruppi dirigenti si erano venduti, quali il PASOK greco, il Partito laburista olandese, il Partito socialista francese, a cui inoltre hanno corrisposto corposi successi delle sinistre dei relativi paesi. Una lezione analoga è  venuta dagli Stati Uniti, nella forma della straordinaria ascesa nel Partito democratico del socialista Bernie Sanders. È di eccellente augurio, ancora, il voto quasi plebiscitario a Corbyn dei giovani e del lavoro intellettuale, quello di giovani e di donne a Sanders, ecc.

Si può realisticamente tentare di percorrere questa strada di rifacimento della sinistra anche in Italia? A seguito ell’entrata in campo di Articolo 1? Punto Rosso pensa che la risposta sia sì. Ma alla condizione, per così dire, che vi crescano più rapidamente alcune convinzioni e alcune pratiche. Si tratta di questo: che occorre, primo, operare all’unità d’azione quanto meno in sede elettorale tra le forze attuali più dinamiche della sinistra (Sinistra Italiana, Possibile, ecc.); secondo, passare finalmente a una struttura organizzata capace di operare sia a livello locale che su larga scala, disponendo di sedi, democrazia, capacità di rapporto con popolazioni, luoghi di lavoro, luoghi di studio, collettività di movimento, ecc.; terzo, porre fine a quella curiosa attitudine della sola sinistra italiana nel mondo che è l’attenzione ossessiva verso ciò che avviene in un “centro” politico, sociale, culturale più fantomatico, nel modo altisonante in cui si autorappresenta, ed è rappresentato dai media liberali, che reale. A Milano, per esempio, dove risiedo, è ben piccola cosa, oltre che incerta e confusa sul terreno dei contenuti sociali e degli orientamenti politici; non so altrove in Italia. Non che debbano essere ignorati o snobbati quanti tengano a porsi politicamente al “centro”: anzi si tratta da parte di Articolo 1, a nostro avviso, di cooperare con essi nel modo più stretto e leale. Si tratta anche per questa via di portare le classi popolari a unire saldamente alle proprie richieste storiche di emancipazione sociale le richieste di movimento, altrettanto urgenti, in tema di diritti civili, migranti, ambiente. Ma ciò che soprattutto servirà alla ricostruzione di una sinistra politica italiana credibile a livello di classi popolari, radicata in esse, da esse sempre più votata, è di risultare chiarissima e inequivoca sul terreno di un programma e di intenzioni di classe; è di risultare definitivamente emancipata rispetto all’ossessivo vaniloquio massmediatico liberal e “centrista”; è di risultare capace di costruire un’egemonia solida di popolo nei confronti delle quote democratiche e civili delle classi medie. Se non sarà così, avremo sprecato l’ennesima occasione.

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Venerdì, 02 Giugno 2017 00:00

Bivio Europeo

Bivio europeo

Se un merito al governo della Germania va riconosciuto, è che essa (il suo establishment politico, industriale e finanziario) un’idea di ciò che debba essere l’Unione europea se l’è formata da tempo, inoltre essa quest’idea la pratichi con grande determinazione. altrove si arranca sempre più confusamente. peggio ancora, altrove si rimuovono le ragioni fondamentali di una crisi molto grave e orientata al disfacimento, e con Il disfacimento a un mare di immensi e ingestibili guai per le popolazioni.

Pubblicato in Internazionale

Erdogan ed UE: una relazione imbarazzante ma stabile

L’approvazione referendaria, seppur con stretto margine, della riforma costituzionale voluta da Erdoğan segna una ulteriore tappa nel processo involutivo del regime turco e nel tentativo di stabilizzazione autoritaria. Le congratulazioni provenute a Erdoğan dalle potenze mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina) e dagli attori regionali, non solo sunniti (pensiamo all’Iran), tradiscono l’interesse di Realpolitik al rafforzamento di equilibri che garantiscano la pace, sia pure armata, nell’area.

Pubblicato in A Dieci Mani

Il decreto Minniti e la questione della sicurezza

Con le “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e le “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale” torna al centro del dibattito l'ambito del diritto per quanto concerne la repressione dell'illegalità. Mentre le "città ribelli" (i sindaci alternativi al centrosinistra del Partito Democratico) hanno lanciato mobilitazioni lo scorso sabato in tutta Italia, Orlando (il candidato ufficiale della "sinistra" interna alle primarie della forza di Governo) e gli ultimi fuoriusciti ex DS difendono la bontà della legislazione.

Le categorie sociali più deboli accendono sempre gli animi di chi è meno debole, incrociando le pulsioni giustiziaste e confondendo spesso i temi in discussione (in un periodo dove anche la "legittima difesa" occupa larga parte del dibattito televisivo nazionale). Su questo le nostre otto mani.

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Bombardamento statunitense in Siria: monito o premessa?

Dopo mesi di combattimenti in cui la fortuna bellica stava gradualmente iniziando a sorridere ad Assad e al suo alleato russo a danno dei ribelli sia "moderati" che islamisti, nella notte fra il 6 e il 7 Aprile gli Stati Uniti hanno lanciato il primo attacco deliberato contro obiettivi militari del governo siriano, rimescolando nuovamente le carte di una crisi regionale sempre più allarmate.

Il pretesto, un bombardamento che si presume condotto dall'aviazione governativa nella provincia di Idlib con armi chimiche e che ha causato la morte di almeno 86 persone, ma le cui dinamiche e responsabilità sono ancora tutte da verificare, ha portato l'amministrazione Trump a spingersi su posizioni interventiste incassando l'immediata approvazione di Ankara e di molti leader europei. Molto dura invece la Russia che parla di violazione illegittima della sovranità nazionale.

Resta da capire se si tratti solo di un attacco dimostrativo oppure se Trump abbia veramente l'intenzione di aprire un fronte militare in una zona delicatissima del pianeta, in un paese martoriato e diviso in cui si scontrano gli interessi geopolitici delle principali potenze mondiali. 

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Lunedì, 03 Aprile 2017 00:00

Il dissenso in Europa tra No Tav e Navalny

Il dissenso in Europa tra No Tav e Navalny

L'Unione Europea è intrappolata nella più grande crisi di sempre, con interi popoli in rivolta per le condizioni in cui sono costretti a vivere, ma nell'ultima settimana il problema principale è diventato la Russia.

Nella fattispecie si parla di manifestazioni contro la corruzione dilagante. A una prima indagine si scopre però che i promotori di tali manifestazioni sono: un blogger che promuve la cultura post-sovietica e nazionalista più becera e risponde al nome di Navalny e Mikhail Khodorkovsky uno degli oligarchi più potenti della Russia delle grandi privatizzazioni inaugurate da Boris Eltsin nonché fondatore della Open Russia Foundation con lo scopo esplicito di cambiare il "regime" russo. Insomma, non sembra certo una libera scelta del popolo russo quella che abbiamo visto, quanto una forma indotta e forse persino eterodiretta di manifestazione politica del dissenso. Questa settimana ci occuperemo quindi della questione della gestione del dissenso in Europa

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Crisi in Corea del Nord: opinioni a confronto

L’intensificazione del programma nucleare militare nordcoreano ha causato un rapido aumento della tensione nell’area. Tale tensione si somma a quella già esistente tra Cina e Stati Uniti, al revanscismo del governo di Tokyo, alle crisi politiche in Corea del Sud e nello stesso Giappone e all’incertezza circa la nuova (?) politica estera di Washington nel prospettare uno scenario di instabilità intorno alla penisola. Dopo un primo improvviso sbilanciamento in favore della “opzione militare” la diplomazia statunitense starebbe valutando una più vasta gamma di alternative, forse anche soffrendo un “buyer’s remorse” sulla scelta di denunziare l’accordo sul nucleare iraniano, scelta che ha rafforzato le posizioni estremiste di Kamenei.

Mentre Pyongyang continua a raffinare la propria tecnologia nucleare, il contesto circostante appare criticamente frantumato e incapace di trovare una linea comune per affrontare il problema. L’unica condizione in grado di fermare l’escalation del riarmo – copiose sanzioni cinesi contro il piccolo e agguerrito vicino – sembra davvero remota: a meno di forti contropartite, è da escludere che Pechino risolva i problemi di Trump e consegni la penisola al governo del Sud, magari rischiando di farne una Libia sui generis.

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Lunedì, 20 Marzo 2017 00:00

L'Unione Europea e i suoi sessant'anni

L'Unione Europea e i suoi sessant'anni

La liberà unità politica dell'Europa" sarebbe l'obiettivo celebrato il 25 marzo 2017, a sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma. Circola anche un video dai sapori epici (guarda qui) per una data effettivamente rilevante su diversi piani, a partire da quello simbolico. Il sistema di informazione e larga parte della comunicazione istituzionale si concentra sulle prospettive di pace garantite dalla dimensione sovranazionale a seguito del secondo dopoguerra, mentre paiono ignorati i venti di intolleranza e conflitto che scuotono non poche nazioni del "vecchio continente".

Per la stessa data, a Roma, si profilano manifestazioni di protesta, con più piazze e diverse piattaforme. Le destre sovraniste, drogate dai risultati elettorali di Trump e dai sondaggi della Le Pen, saranno sicuramente riprese dai telegiornali nazionali. Le sinistre si ritroveranno forse divise, tra chi chiede "La nostra Europa (Un'altra Europa)" e chi pensa giusto qualificare la manifestazione con la richiesta di uscita dall'Euro.

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La socialdemocrazia europea nel secondo dopoguerra: dal compromesso sociale su base keynesiana all’accodamento al neoliberismo

Agli esordi di quella che si chiamerà Unione Europea ci sono operazioni, che rispondono primariamente a esigenze di ricostruzione delle economie europee occidentali, devastate dalla guerra, quali la Comunità del Carbone e dell’Acciaio del 1951 e il Piano Marshall del 1947, cioè gli aiuti statunitensi, poi evoluto, l’anno successivo, nell’OECE. Anzi tra i precedenti in assoluto va posto l’accordo italo-belga del 1946, che scambiò 50 mila lavoratori italiani disoccupati, da impiegare nelle miniere di carbone e nella siderurgia del Belgio, con rifornimenti belgi di carbone all’industria e alle abitazioni italiane, e che sfociò nella tragedia di Marcinelle dell’agosto del 1956, 262 morti in miniera, a seguito di un incendio. Con quelle operazioni si trattò, dal punto di vista delle borghesie dei paesi europei occidentali, delle loro parti politiche e degli Stati Uniti, non solo di aiutare popolazioni disperate, alla fame, senza casa, ma anche di evitare che queste condizioni, la disoccupazione, inoltre, come in Italia, l’odio nei confronti di chi la guerra l’aveva voluta e ne aveva approfittato, evolvessero in simpatie di massa anche politiche nei confronti dell’Unione Sovietica, eroica vincitrice al prezzo di 25 milioni di morti della guerra al nazismo, più che nei confronti dei pur prestigiosi e munifici Stati Uniti. Dal lato dell’URSS giocava infatti anche la dominante partecipazione comunista e operaia in quasi tutta Europa alla Resistenza.

Pubblicato in Sinistre

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