Taormina non è stata semplicemente un fallimento, guardando a quelli che erano gli obiettivi delle forze effettive di governo dell’unione, che sono il binomio governo tedesco e commissione europea (quest’ultima nella veste di struttura di servizio di tale governo). Taormina è stata molto di più: la registrazione di come la crisi politica e sociale dell’occidente, determinata dal peggioramento delle condizioni di vita, in un modo o nell’altro, dei due terzi della sua popolazione abbia scardinato gli elementi di tenuta e di cooperazione tra i suoi stati, nella duplice forma della crisi dei rapporti tra gli stati appartenenti all’Unione e, a seguito della vittoria di Trump, della crisi dei rapporti tra unione e Stati Uniti. Parimenti Taormina è stata la registrazione di quanto ciò esponga l’Unione alla pressione disfacente della tenaglia costituita a ovest e nel Mediterraneo dagli Stati Uniti e a est dalla Russia, già un po’ delineata dalla Brexit britannica e dai rapporti sempre più cooperativi di Ungheria, Romania, Bulgaria, Moldova, Cipro con la Russia. D’altro canto, non è la concorrenza, nell’ideologia corrente già dell’occidente, ora di esso meno gli stati uniti, il motore di ogni sviluppo, di quello dell’economia come della società?
Poiché, se l’economia è lasciata correre liberamente, ciò non può che portare benessere alle popolazioni? Perché dunque, nel momento in cui l’obiettivo del benessere è drammaticamente falsificato dagli accadimenti, la concorrenza non dovrebbe scatenarsi a fondo tra sistemi, che non sono semplicemente economici ma socio-politici, a nome della sopravvivenza, sia nella forma del dumping che in quella del protezionismo? Tanto più che il dumping è esattamente quanto l’establishment tedesco fa dalla nascita dell’euro: cioè una concorrenza spietata del suo sistema economico, profittando del proprio livello tecnologico superiore e ricorrendo alla deflazione salariale, agli altri sistemi, europei e non solo. degli stati uniti vedremo tra poco. Nell’Unione, ciò è continuamente avvenuto in forma distruttiva rispetto ai sistemi più industrializzati, cioè dell’Italia e della francia, parimenti è avvenuto con l’obiettivo generale della succursalizzazione del complesso delle altre economie trasformandole, a seconda delle loro caratteristiche di fondo, in subfornitrici all’industria tedesca (l’Italia soprattutto), in luoghi nei quali delocalizzare produzioni ad alta intensità di lavoro (l’est), o in Länder tedeschi di fatto (il nord).
Solo le illusioni rosee del mix di europeismo e di ideologia neoliberale e libero-scambista prima maniera potevano non capire ai tempi del trattato di Maastricht e immediatamente successivi (sto parlando di Ciampi, prodi, ecc.) che è questo che sarebbe con ogni probabilità accaduto, e quindi subire regolazioni e imposizioni che avrebbero portato l’Italia a perdere il 25% del suo potenziale industriale – un 25% costituito prima di tutto dalla sua industria meccanica e di base, sgangherando così il suo complessivo modello produttivo. Il governo tedesco, nella figura che meglio rappresenta da tempo l’establishment complessivo, Angela Merkel, e che non a caso sta tornando essere gratificata di un riconoscimento maggioritario nella sua popolazione, ha dunque evitato dopo taormina di perdere tempo e ha dichiarato che, primo, degli stati uniti non c’è da fidarsi, secondo, che l’europa dovrà autodeterminarsi operando dunque esclusivamente a nome delle proprie specifiche convenienze. A ora l’unico governo che le ha dato retta è quello francese.
Il problema, tuttavia, è che l’establishment tedesco ha sempre confuso, da quando esiste l’euro, le proprie convenienze con quelle europee. Inizialmente poteva essere l’effetto dell’ideologia neoliberale e libero-scambista; poi, va da sé, vista l’assenza di resistenze da parte degli altri paesi maggiori dell’unione e usando il controllo crescente della burocrazia di quest’ultima, l’effetto dell’obiettivo della trasformazione dell’unione, o di gran parte di essa, in una sorta di Germania economica allargata, in grado, per la dimensione industriale, finanziaria, territoriale, demografica, di portarsi a quel livello di grande potenza mondiale che le sconfitte militari del novecento e la divisione nel 1945 in due stati avevano distrutto. Si tratta perciò adesso di vedere se l’establishment tedesco capirà che in tempi di crisi il ricorso alla forza propria economica e al potere burocratico europeo non basta a tenere le cose (anzi ciò è da tempo evidente, si guardi al rifiuto generalizzato a ospitare altrove i migranti giunti in Italia e in Grecia), e occorrerebbe, invece, tentare un’egemonia sulle popolazioni (un’egemonia dunque reale, da non confondersi con accordicchi ed elemosine a favore di questo o quel governo).
Ci sono deboli cenni in questo senso, tra i quali l’idea di rapidamente rifare i trattati fondativi dell’unione. certamente non avrebbe senso (ma non si sa mai) l’apertura di un processo di discussioni tra stati e dentro alle istituzioni dell’unione di “riforma dei trattati” e dei loro sottoprodotti, cioè diverse migliaia di regolamenti e procedure, se non altro perché ciò richiederebbe diversi anni (solo la Brexit ne richiede due, dovendosi la gran Bretagna districare, a meno che rompa bruscamente ogni rapporto con l’unione, rispetto al almeno un paio di migliaia di regole, disposizioni, direttive, modi di calcolare questo e quello, ecc. ecc.). Trovo, aggiungo, bislacco e incompetente il solo fatto di menzionarla, la “riforma dei trattati”. Che cosa occorrerebbe, invece: semplicemente, sospensioni delle regolazioni in tema di quelle politiche fondamentali di bilancio e di investimento pubblici che hanno recato e continuano a recare danno estremo a molte economie e popolazioni e che ne hanno determinato ovunque (anche in Germania) l’impoverimento. Come: per esempio consegnando il 60% del debito pubblico dei vari stati alla gestione diretta della banca centrale europea, consentendo il più libero ricorso all’investimenti pubblico e scorporando dalla “spesa” pubblica (quindi da deficit e debito) gli investimenti pubblici in attività produttive, formazione, infrastrutture e servizi; e consegnando così alla banca centrale poteri, che essa in parte non ha, analoghi a quelli della fed statunitense. a ciò potrebbe essere unita, molto utilmente, la sospensione dei poteri affidati alla commissione europea (e al livello alto dei suoi burocrati: i direttori dei suoi dipartimenti e delle sue agenzie esecutive – un complesso, opaco e micidiale, di ben 53 strutture – sono tutti di rigorosa fede tedesca e neoliberale, quando non anche cittadini tedeschi, e contano in genere molto più degli stessi commissari da cui “dipendono”, a larga maggioranza incompetenti), e la sua sostituzione, provvisoriamente, con delegati del consiglio europeo. Nel frattempo si potrebbe utilmente discutere, cosa che non riuscirebbe a essere breve, tuttavia, della consegna di poteri congrui, in parte negati, al parlamento europeo, di come giungere a un governo europeo su base parlamentare e di quali potrebbero esserne le competenze (dunque quelle relative alle questioni di effettivo significato europeo che la somma delle decisioni degli stati membri non sia in grado di affrontare in modo coerente e adeguato, dunque ripristinando il principio di mera sussidiarietà delle funzioni dell’unione, presente nei trattati fondativi ma poi annullato dalla centralizzazione formale di tutti i poteri nella commissione europea).
Sarà l’establishment tedesco disposto a fare passi di tale qualità e portata, questi o altri più o meno analoghi che siano? sino a ieri risultava il più totale rifiuto tedesco: a nome dei già menzionati obiettivi di grande Germania, così come a nome delle convenienze elettorali dei suoi partiti fondamentali. ora la socialdemocrazia (la SPD) ha avviato qualche ripensamento in materia; e gli stessi partiti democristiani potrebbero provarci senza danni elettorali. La Brexit ha introdotto nei ragionamenti delle popolazioni europee, da anni crescentemente impegnate nel voto a dispetto a contrasto delle forze tradizionali di governo, anche la paura che per questa strada si possa concorrere al disfacimento dell’unione e alla fine dell’euro: e in Germania ciò ha appunto premiato Angela Merkel, e le ha quindi consegnato una superiore capacità di manovra politica. Naturalmente le decisioni dell’establishment tedesco saranno in qualche misura determinate anche da fatti e comportamenti politici riguardanti altri paesi dell’Unione.
Certamente qualcosa potrebbe contare l’ipotetica capacità di paesi importanti dell’unione di argomentare vigorosamente la necessità di una svolta, altrimenti la loro partecipazione all’Unione non reggerà. Certamente qualcosa potrebbe contare il rischio che a un certo momento, perché no, i paesi mediterranei dell’unione si avvicinino agli stati uniti e tendano a smarcarsi, in un modo o nell’altro, dall’Unione. Certamente qualcosa potrebbe contare il rischio che la situazione italiana salti per aria, e che perché ciò non accada occorrerebbe che sia allentata la pressione micidiale che subisce dal lato della Commissione (l’Italia è in questo momento il fattore numero uno di dissoluzione dell’unione, data la forza politica del Movimento5stelle). E soprattutto qualcosa potrebbe contare il ragionamento sulle difficoltà che con ogni probabilità verrà a parte significativa dell’export tedesco da parte della presidenza Trump.
Siamo così tornati al momento iniziale di quest’articolo. tra le ragioni, probabilmente quella decisiva, delle dichiarazioni polemiche di Angela Merkel nei confronti degli stati uniti c’è l’attacco preliminare operato da Trump alla Germania. attenzione a non considerare quest’attacco un’esternazione casuale: in esso in realtà si riflette una logica politica di fondo, da egli peraltro dichiarata a partire dalla sua campagna elettorale: l’intenzione di porre termine alle esportazioni in regime sostanzialmente di dumping cinesi e tedesche, il cui danno all’industria e più in generale all’economia statunitense è reale ed è consistente. non dimentichiamo che cina e Germania sono i due paesi maggiori esportatori del pianeta, che la Germania da un paio d’anni ha conquistato il primo posto, che le sue esportazioni sono produzioni industriali ad alto contenuto tecnologico che colpiscono duramente molti settori; e non dimentichiamo che il 20%, quanto meno, dell’export tedesco vane gli Stati Uniti, mentre questi ultimi sono invece deboli esportatori, dispongono di un’economia assai più “nazionale” rispetto a quelle europee, e come tale suscettibile di proteggersi senza soverchi danni (ho scritto “proteggersi”: termine il cui significato non è da confondere, come fanno politici media neoliberali, con “protezionismo”: di “protezione” ma non di “protezionismo er esempio l’Italia avrebbe un certo bisogno).
Ciò a rigore dovrebbe comportare una politica nell’unione di forte rilancio della “domanda aggregata”, cioè fatta sia di investimenti pubblici che di incrementi delle retribuzioni e di creazione anche da parte pubblica, se non soprattutto, di posti di lavoro. sino a ieri queste erano eresie. Sino a ieri tra gli strumenti della colonizzazione economica tedesca dell’unione c’era la deflazione salariale (7 milioni di lavoratori a mini-jobs). ora non a caso il prudentissimo (in questa materia, altrove sia benedetto) mario draghi ha cominciato a sottolineare come la ripresa economica europea non è adeguatamente sostenuta proprio dal lato delle retribuzioni, che dunque occorrerebbe ovunque aumentare; e persino il cerbero Schäuble ha fatto dichiarazioni che a ciò“aprono”. Insomma vedremo. Bisognerà monitorare con cura gli accadimenti. A sinistra, cercare di agire sulla base di ragionamenti meno vaghi di quanto non sia avvenuto sino a ora. ho tentato anche per questo di essere molto concreto in sede di richieste immediate da rifacimento dell’unione. ma bisogna anche attrezzarsi a sinistra, concettualmente e psicologicamente, alla possibilità che la crisi dell’unione ulteriormente si approfondisca, e la sua tenuta venga meno. occorre perciò, in poche parole, mettersi davvero a correre in sede di costruzione di una sinistra utile e capace di essere riconosciuta come tale da parte popolare.