È in apparenza paradossale che le maggiori riserve sulla legittimità del voto siano venute dalla Ue, che ha in essere con la Turchia un accordo sul contenimento dei migranti; dalla Germania, in cui oltre quattrocentomila cittadini turchi hanno votato Sì; dalla Francia, il cui attivismo neocoloniale in Medio Oriente l’ha resa un bersaglio per il terrorismo islamista a lungo tollerato da Ankara. Simili posizioni, in realtà, più che indicare una precisa posizione politica appaiono un educato tributo alle procedure democratiche occidentali e, semmai, una pressione sulla Turchia per strappare migliori condizioni nei rapporti bilaterali.
La Turchia e l’Unione Europea hanno un legame più solido di quello che traspare dai dispacci dei media mainstream. Com’è noto a chi segue con attenzione le vicende migratorie, l’Unione Europea mantiene da ormai oltre un anno un accordo economico con la Turchia (condannato persino da Amnesty International) responsabile di aver condotto all’incarcerazione chi fugge dalla guerra in Siria.
I soldi di noi europei lavano la coscienza dei politici che oggi si indignano per l’incarcerazione di Gabriele Del Grande. Forse Alfano si è mai indignato prima, quando nel marzo 2016 veniva erogata dall’UE la prima tranche di 3 miliardi per la costruzione di questi campi? Pare proprio di no. Qualcuno ricorda forse come Angela Merkel si guadagnò la copertina del Time nel 2015? Sarebbe bene dare una ripassata alla storia degli ultimi anni di relazioni tra Ue e Turchia prima di mettersi a fare la paternale al regime di Erdogan. Tusk e Juncker hanno firmato l’accordo ben contenti di arginare il fenomeno migratorio, lavandosene le mani delle conseguenze in termini di diritti umani.
Questa cosa che i diritti umani valgono solo quando sono “i nostri” (occidentali, europei, bianchi) a veder lesi i propri dovrebbe finire perché è alquanto ipocrita e frutto della mentalità colonialista. Allo stesso modo, che l’Occidente si metta a disquisire di quale sia la forma di governo più adatta per la Turchia proprio mentre scivola verso l’autoritarismo, è solo l’altra faccia delle politiche di esportazione della democrazia che abbiamo conosciuto fin troppo bene nella loro forma più violenta e barbara negli ultimi anni e che temo continueranno ad operare.
A dire che tanto alla fine sono tutti capitalisti si rischia di apparire semplicistici. Il senso di una simile affermazione potrebbe invece indicare la necessità di tenere conto della complessità di ogni processo reale contemporaneo, intriso di globalità e inserito in un contesto interconnesso.
La Turchia, attraversata da pulsioni revansciste, in cui si muovono faglie laiche e di matrice religiosa eterogenee, è tra le poche entità nazionali sopravvissute alla destabilizzazione del Medio Oriente.
Erdogan è personalità scomoda alle narrazioni liberali democratiche, ma rimane un alleato NATO capace di giocare sulle contraddizioni occidentali e un utile nemico dell'Iran.
C'è tanta ipocrisia tra la diplomazia internazionale, rispetto agli ultimi esecutivi turchi. Niente embarghi, nessuna misura di contrasto alle politiche di Istanbul, persino Israele utilizza toni blandi.
Apparentemente ridimensionato sullo scacchiere internazionale, Erdogan esce parzialmente rafforzato dopo queste consultazioni. L'infelice uscita di Pierluigi Castagnetti («Se anche Erdogan, che è Erdogan e i mezzi di Erdogan, vince per un pelo, vuol dire che i referendum costituzionali non si possono più vincere») ci aiuta a capire cosa non dobbiamo fare. I referendum sono strumenti polarizzanti e maggioritari, espressione di meccanismi dove il contenuto democratico è chiaramente messo in discussione da una pratica di espressione diretta e priva di ogni possibile intermediazione. Qui finiscono le possibili analogie tra la Turchia e qualsiasi altro paese in cui si tengano delle consultazioni secondo questo metodo. Il problema non sono i veri o presunti brogli, né l'atteggiamento più o meno complice di Erdogan verso l'ISIS.
Il problema è credere di volta in volta che il premier turco sia "servo degli USA", "amico di Putin", "oppressore dei curdi", "difensore della dignità del popolo turco". La Turchia non è abbastanza per entrare nell'Unione Europea, ma è sufficientemente affidabile per firmarci degli accordi (finanziati) con la stessa comunità del vecchio continente. Non si può tollerare a parole l'atteggiamento di Istanbul verso l'ISIS o la causa curda, ma di fatto è bene lasciar perdere.
L'ipocrisia verso la denuncia dei brogli è la misura di una politica internazionale disarmata di fronte ai pesanti interessi che muovono le classi dirigenti. Non è che siano tutti governanti al servizio di un complotto del capitale, ma fanno tutti parte di una classe politica impotente, priva di visioni capaci di andare oltre il sopravvivere all'interno del proprio paese. Erdogan ha provato più volte a giocare un ruolo nell'aria mediorientale (basta pensare all'Egitto), senza grande successo. Oggi non è più così pericoloso, ma rimane sapientemente ancorato a fragili equilibri da cui evidentemente nessuno sa come uscire.
Dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio la Turchia ha visto la scure del governo abbattersi sulla magistratura, la stampa, le Forze armate, il corpo docente e gli avversari politici, dietro lo scudo di uno stato di emergenza in vigore ormai da nove mesi e puntualmente rinnovato, il 19 aprile, per un altro trimestre. La riforma non soltanto prevede la transizione al sistema presidenziale, ma mira inoltre ad assicurare al Presidente il controllo sul proprio partito, e quindi sulla maggioranza parlamentare, e a neutralizzare l’influenza dell’esercito. Che in un clima simile, con il curdo Partito Democratico del Popolo in condizioni semi-clandestine e con un’evidente parzialità dell’esecutivo nell’influenzare il voto, Erdoğan abbia ottenuto per il Sì solo il 51% dà prova della vitalità dell’opposizione turca, che è riuscita a coinvolgere nella campagna anche settori dei partiti del Sì (l’Akp di Erdoğan e l’estrema destra nazionalista del Mhp).
La volontà internazionale di congelare l’equilibrio del Paese, che gioca con la Nato da una parte e con il terrorismo dall’altra, avrà probabilmente la meglio sulle possibilità di sommovimenti contro un regime che, comunque, ha dato prova di grande disinvoltura diplomatica (si pensi alla saga dei rapporti con Mosca).
Se è ancora presto per definire quali saranno gli sbocchi ultimi della partita che si gioca tra il Mediterraneo e il Golfo c’è però già una lezione di cui i democratici occidentali dovrebbero far tesoro. Erdoğan e l’Akp non sono nati come funghi; hanno invece attecchito nella Turchia rurale che ha più o meno passivamente osteggiato il secolarismo kemalista. In politica da quarant’anni, Erdoğan ha militato in partiti islamisti che venivano regolarmente sciolti dall’esercito perché il loro programma era incompatibile con la laicità dello Stato. Già sindaco di Istanbul, nel 1998 fu condannato al carcere per istigazione alla violenza e all’odio religioso. Dopo la vittoria elettorale del 2002 il mancato intervento per quindici anni dell’esercito nella vita del Paese ha permesso all’Akp di consolidare il proprio potere, smantellare la legislazione laica, effettuare tre riforme costituzionali – le prime due all’epoca accolte con favore dalla Ue in quanto volte a sventare l’intervento militare nella vita politica.
Da questa parabola si può trarre una conclusione: solo la forza della legge può impedire ai partiti eversivi di aprirsi la strada verso l’oppressione e il potere. Non si può consentire cittadinanza democratica alle forze antidemocratiche, perché la competizione non sarebbe equa. Certo è necessario garantire che la repressione legale non sia solo un’altra forma di riduzione della democrazia: il criterio a questo proposito è quello della mobilitazione popolare, che, come mostrato a piazza Taksim, anche dopo il 15 luglio, va in direzione del rifiuto del regime di Erdoğan.
Se il criterio per diventare nemici dell'occidente fosse realmente legato al rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche, la Turchia sarebbe nella lista nera da un bel pezzo. La deriva autoritaria del sultano Erdogan è del resto sotto gli occhi di tutti già da qualche anno e ha subito un'accelerazione vistosa dopo il fallito golpe dello scorso luglio e grazie alla vittoria, seppur risicata, al referendum di settimana scorsa che gli permetterà di restare alla guida delle Turchia di fatto a vita.
L'impianto democratico e laico che da Ataturk in poi si era mantenuto con una certa stabilità facendo della Turchia un modello da esportazione, è stato smantellato in pochi anni da Erdogan che fra arresti sistematici di attivisti, membri dell'opposizione, giornalisti e la feroce repressione nel Kurdistan turco che continua ancora oggi nel silenzio generale dell'opinione pubblica, sta rivoluzionando l'intero assetto statale. Se la libertà e la democrazia sono i criteri per valutare un governo, non si capisce perché le potenze occidentali dovrebbero prendersela tanto con Putin o con Assad quando nel loro seno targato NATO stanno allevando una serpe di queste proporzioni.
Ovviamente la maggior indulgenza nei confronti della Turchia non può essere ricercata nel suo grado di rispetto dei diritti democratici e delle libertà politiche e civili, ma per il suo ruolo strategico che al di là dell'appartenenza alla NATO, lo impone come un alleato decisivo, per quanto scomodo, per le potenze occidentali e le loro mire imperialiste. Ankara mostra infatti gli stessi obiettivi strategici americani in Siria, ovvero quelli di disfarsi di Assad ad ogni costo ed è cosa nota il suo supporto, quantomeno indiretto, alle milizie di Daesh. Evidentemente Erdogan sarà anche un oscurantista, ma, nell'ottica americana, sa più che altro essere illuminato dai giusti propositi nello scenario mediorientale. Se a questo aggiungiamo il vergognoso accordo sui migranti fra Ankara e Bruxelles, che obbliga milioni i profughi siriani a vivere in condizioni paragonabili a quelle dei campi di concentramento, abbiamo un quadro già piuttosto delineato del perché la Turchia non è uno stato canaglia e Erdogan un feroce dittatore da abbattere a ogni costo.