“Ad un tratto nel vuoto della finestra si profilò a mezza vita la figura di un ufficiale tedesco. Era piccolo e con un viso freddo pieno di ferocia. Dopo avermi osservato a lungo mi disse: - Come ti chiami? – Chiodi Pietro. – Che mestiere facevi? – Il professore. – Quanti anni hai? – Ventinove. –“
da “Banditi” di Pietro Chiodi
L’altro intervento della giornata di studi in memoria di Pietro Chiodi su cui vorrei soffermarmi è stato quello di Andrea Mecacci, professore di Estetica presso l’Università degli Studi di Firenze, che ha concentrato il suo discorso su Banditi, il diario dell’esperienza partigiana vissuta da Chiodi. Il libro fa capire chi era quest’uomo, fa comprendere come senza l’esperienza raccontata in queste pagine probabilmente non sarebbe stato possibile neanche il suo magistero, che è innanzitutto un “magistero umano, nel più alto senso del termine”.
“Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini. Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impeganato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani e forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? […] Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: <È meglio morire che sopportare questo >. Sì è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve. Una strana pace mi invade l’animo a questo pensiero. Ripeto dentro di me: < Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere ”
da “Banditi” di Pietro Chiodi
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