La lotta partigiana e la filosofia, in fondo, dice Mecacci, hanno avuto per Chiodi lo stesso scopo: contribuire ad emancipare l’individuo e affermare per sempre il valore dell’umanità. Oltre al valore storico e di testimonianza vissuta e reale, un’altra grande qualità del diario è la sua totale mancanza di retorica. Gli eventi sono narrati con ritmo incalzante, come si trattasse di una cronaca e nonostante la loro crudezza non emerge mai un tentativo di ridondanza, di enfasi, di desiderio di impietosire. In quelle parole così dirette, nude e crude, in quelle frasi breve, scarne ma cariche di dolore, di rabbia, di paura, di indifferenza, c’è tutto e arrivano dritte al cuore senza futili rigirii retorici, senza evidenti lezioni di moralità. Arrivano dritte come frecce scagliate a velocità impazzita, come raffiche di mira e quando ti toccano ti pungono , ti feriscono, ti disarmano. Banditi commuove ma senza volontà di commiserazione. Non vuole fare piangere ma semmai reagire. Non può essere una lettura passiva quella del diario di Chiodi, ma attiva, che suscita un moto di ribellione interna, ti spalanca dentro quel no portato fino in fondo che pronuncia Johnny nel romanzo di Fenoglio. La ferocia dei nazi-fascisti, l’apatia della gente che accetta tutto con ignavia omertosa, la barbarie della guerra, la morte di persone care o sconosciute, la durezza dei campi di internamento, lo squallore e la prigionia nelle carceri, la miseria delle condizioni umane, la fame, il dolore, la stanchezza si alternano in un equilibrio perfetto con la solidarietà tra partigiani, l’amicizia fatta di gesti più che di parole con i compagni, la nostalgia di una vita perduta, del calore di casa, dell’amore della famiglia, delle colline lontane e soprattutto con la forza d’animo spinta all’estremo di Chiodi e dei suoi amici partigiani che li porta a non soccombere mai, a non mollare mai.
“Non si può vivere accettando qualcosa di simile. Non vivrei più degnamente accettando tutto questo”, pensa Chiodi quando è in preda a una fitta lancinante che lo porta a chiedersi come mai abbia scelto la lotta partigiana. E la fitta dolente resterà per sempre dentro di lui, così come il desiderio di dire basta, di rassegnarsi, di ritornare ai suoi lavori su Heidegger e all’amore della moglie Carla. C’è profonda umanità nelle pagine di Banditi, scandite dallo sguardo di Chiodi che scruta i volti dei compagni, delle SS, degli altri internati, degli altri prigionieri e legge i loro occhi, il loro sguardo che come specchio gli riflette la propria condizione: “Ho il volto contratto dall’umiliazione per il senso di pietà che vedo dipinto sul suo viso.”; “Sulla parete campeggiava una fotografia di Hitler con due occhi satanici. Guardai a lungo quei due occhi e misurai l’orrore della mia situazione.” Anche attraverso questo incontri di sguardi, questa lettura dei volti passa l’esistenzialismo filosofico di Chiodi. E tutto il diario ne è un evidente esempio, sebbene non sia un saggio filosofico, anche se la filosofia trapela un po’ovunque. Essa ricorre ad esempio nello scambio di battute tra Chiodi e Cocito che a un tratto chiede al primo:
“<Dimmi un po’, tu sei convinto che ci sia un’anima immortale?> […] Il pensiero mi corre al Fedone e gli dico: <Ti ricordi come finisce l’apologia di Socrate: Sono cose oscure a tutti eccetto che agli dei >”. Oppure diventa involontaria protagonista di una scena surreale e quasi esilarante, che mette in luce tutta la stupidità e l’ignoranza degli ufficiali tedeschi. Si tratta della scena di un interrogatorio a Pietro accusato di essere un pericoloso comunista e capo dei partigiani, da parte di un maresciallo della Gestapo, un ufficiale tedesco “con un viso freddo pieno di ferocia” e l’interprete italiano in divisa da SS, Max: “L’ufficiale delle ss si alzò di scatto e venendomi incontro minacciosamente urlò: < Sei ben informato di tutto […] Troveremo il modo di farti parlare> Tutti tacquero. Max riprese: <Conosci il tedesco?> <Lo so leggere ma non saprei parlarlo.> < Che libri leggi?> < Sto leggendo Heidegger.> Max si rivolse all’agente della Gestapo dicendo: < Dev’essere uno scrittore comunista. Vero?> L’altro guardò l’ufficiale italiano dicendo – Ja, ja –. Questi annuì col capo.”
Ecco che Heidegger diventa un sovversivo comunista! Ma l’ilarità che il grottesco dialogo suscita, è quella di un riso amaro. le pagine di Banditi sono dure, le parole cadono e pesano sul cuore come pietre, anche se non manca la delicatezza, al tenerezza, soprattutto negli scambi tra Pietro e gli amici partigiani, soprattutto con Cocito, il fervente comunista che non cede mai, neanche per un secondo, che guarda in faccia la morte senza temerla. Anche Chiodi non molla mai, ma la sua sofferenza diventa sempre più acuta, così grande che quasi essa si auto cancella, si anestetizza facendo un arido deserto di sentimenti e sensazioni (“Mi sentivo fuori di me, senza cuore né carne per provare dolore.”), lasciando spazio a un gelo che ghiaccia qualsiasi percezione sensibile o emotiva, a un freddo scivolamento verso una morte lenta, non fisica ma interiore:
“Vorrei piangere ma non posso. Inorridisco di me stesso, ma non provo dolore. Chiudo gli occhi e sento dentro di me che è tutto finito ed io più di tutto. Anch’io sono con loro. Chissà dove. Ora mi capisco pienamente. Ora capisco perché non provavo dolore dopo le scene di orrore di Bolzano e davanti a quella donna sul treno. Stavo morendo, a poco a poco. Loro mi uccidevano.”, questo sente Pietro quando pensa che “Cocito è morto, che Piero è morto, che Gino è morto, che gli occhi umidi e buoni del colonnello De Zardo sono spenti.”
Eppure non c’è mai autocommiserazione, né autocompiacimento ma lucida consapevolezza, impegno in una lotta che non lascia alternative, che impone di reagire, se non si vuole accettare di vivere una vita non più degna di esser chiamata tale. Mecacci dice che la lettura di Banditi non è semplice, leggerlo è come stare su una zattera: “su qualcosa che ti ha portato in salvo dal naufragio, ma che in ogni momento ti ricorda tutto ciò che hai irrimediabilmente perduto in quel naufragio”. Il diario inizia nel ’39, con una scena in cui Chiodi è a caccia sulle montagne dell’alto bresciano e incontra l’amico Leone – con cui per altro si concluderà il libro, quasi fosse un nostos, un racconto circolare che narra le peripezie dell’eroe e si conclude con il suo ritorno a casa, come una sorta di odissea – e poi una volta a casa trova la lettera che gli comunica l’assegnazione della cattedra in storia e filosofia al Liceo di Alba:
“15 settembre 1939. Ho cacciato tutto il giorno tra il Padrio e il Mortirolo. A mezzogiorno ho trovato Leone con due fagiani. Abbiamo mangiato assieme. Voglio bene a Leone e leggo nei suoi grandi occhi scuri che è contento di vedermi. Eravamo vicini di banco a scuola. Parla poco e quasi impacciato. […] Prima di lasciarmi mi guarda fissamente e poi abbassando il capo dice: < Cosa ne pensi di questa guerra? Ieri ho ricevuto la cartolina >. Più impacciato di lui gli rispondo: < Non pensarci, vedrai che ne resteremo fuori >”
Ci vorrà un evento traumatico cui Chiodi assisterà, per far sì che questi prenda pienamente coscienza del fatto che non può, non è ammissibile restare a guardare senza fare niente, senza reagire.
Il ritmo e lo stile sono veloci. Si respira un’atmosfera simile a quella del film Tutti a casa di Luigi Comenicini con Alberto Sordi che a un certo punto esclama: “No, no, non si può star sempre a guardare!”. Il vero “No non si può restare a guardare” per Chiodi avviene il primo giugno del ’44, quando appunto assisterà alla scena che porterà a piena maturazione la scelta di iniziare la lotta partigiana:
“Stamani passando innanzi alla caserma ho assistito a una scena impressionante. Una ventina di militi caricavano su un camion quattro giovani legati mani e piedi. Ho sentito uno gridare: < No, sono innocente! > Un’ora dopo ho rivisto i militi che cantavano in un caffè. Si è sparsa fulminea la voce che i quattro giovani sono stati massacrati al Mussotto sul luogo in cui, giorni fa era stata uccisa una SS. Non posso trattenermi dall’infilare la bicicletta e recarmi al Mussotto. A cento metri dalla cantoniera, sul bordo della strada, una gran pozza di sangue. Un vecchio cantoniere mi descrive, piangendo come un bambino, la orribile scena. Allontanandosi mi dice: < È meglio morire che sopportare questo. >”
Nel ’44 quindi Chiodi diventa partigiano. Un’altra scena molto cruda si verifica nella cella in cui è recluso e in cui l’autore riflette sulla sua decisione, che lo ha strappato via dalla sua vita familiare e dalla sua passione per lo studio e l’insegnamento. Passione che infatti ricompare spesso nelle pagine di Banditi, dato che molto frequenti sono i parallelismi tra i fatti di guerra e quelli sui banchi di scuola:
“Ho incontrato il padre di Aimo col viso disfatto dalla disperazione. Un tempo veniva al Liceo per sapere come andava Sergio. Non ho parola. Cerco di ingannarlo. Mi guarda con due occhi che non dimenticherò mai più”; “Oggi ho avuto una terribile notizia. Danilo è caduto in combattimento. Non posso credere che i suoi grandi occhi pieni di vita si siano spenti per sempre! Lo rivedo nel suo banco al Liceo [… ]”; “Non mi ero accorto che il Liceo fosse così splendente e pieno di luce. Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere verso di Lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio.”
Insomma, vola spesso il ricordo ai suoi ragazzi, ai lavori lasciati a mezzo, alla filosofia. Anche nella scena sopra introdotta, quando Chiodi è rinchiuso nella cella con i compagni e amici, si fa accenno a un’opera che il professore ha dovuto lasciare incompiuta:
“Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini. Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impegnato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti e più forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto.” Poi però ecco che riaffiora un altro pensiero, più forte, più irresistibile e più potente della nostalgia per un’agiata esistenza non più possibile, finita per sempre: “Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: < è meglio morire che sopportare questo >. Sì, è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa si simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve. Una strana pace mi invade l’animo a questo pensiero. Ripeto dentro di me: < Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere>”. Ecco, il punto di massima consapevolezza da parte di Chiodi, di impegno irremovibile e inevitabile dinnanzi all’orrore perpetrato dal nazi-fascismo. Da qui inizia l’odissea coatta di Pietro che verrà sballottato dal campo di internamento di Bolzano e poi a Innsbruck. Nei campi episodi di raccapricciante durezza si profileranno davanti agli occhi di un Pietro Chiodi sempre più debole, disfatto, affamato: “Giornata di terrore. Appena alzati stamane è corsa subito la voce. All’alba i tedeschi sono entrati con una lunga lista al blocco E, ed hanno incominciato a leggere dei numeri. Ad uno ad uno sono stati chiamati tutti gli italiani del blocco, ventitre in tutto. Li hanno portati via seminudi dicendo loro che andavano al bagno. […] Nel bagno non sono rimasti che il capitano inglese ed un tenente del Maquis. Il terrore è dipinto sul volto di tutti. […] Il maggiore americano ha il volto duro e non parla. Mi sono avvicinato a lui e gli ho detto: < Maggiore, se un giorno ritornerà fra i suoi non si dimentichi di ciò che ha visto qui oggi >. Mi ha stretto la mano senza parlare. Gli scendevano le lacrime. Il recinto del blocco E è vuoto come una tomba. In un angolo c’è una palla di gomma.”
Dopo un periodo di straziante agonia e sempre maggior debolezza nel campo di Innsbruck, grazie soprattutto all’aiuto del Lagerführer, a Chiodi viene rilasciato un permesso per tornare a casa, a causa dei suoi problemi di salute. Dopo lunghe peripezie Pietro arriva finalmente a casa, con i passi all’altezza del cuore, il ritmo forsennato dei suoi battiti, sempre più veloci; con l’urgenza emozionata di raggiungerla il prima possibile e l’angoscia lancinante di scoprire che non ci sia più nessuno ad attenderlo, che tutto sia andato in rovina. Anche il linguaggio si fa rapido, frenetico. Le parole sono schegge, come accompagnassero i passi svelti di Pietro conservando e riproducendo la sua stessa tensione, come se assecondassero con lo stesso incalzare, le palpitazioni e il respiro dell’uomo, il suo anelito irresistibile ad arrivare dai suoi, e poi il terrore agghiacciante che la realtà possa frustrare quell’ansia disperata di rivedere casa:
“Continuo a camminare quasi senza fatica. Da una collina all’altra, da un bosco all’altro. Si leva la luna e continuo a camminare. […] Non si ode alcun rumore. […] Mi sembra che tutto appartenga ad un mondo che non c’è più. Affretto il passo. Ancora poco. Dietro la prima svolta ci dev’essere la casa. Cammino lentamente. Non ci sarà più. L’avranno bruciata. Cammino ancora un po’. Ecco il ponte. I pini. La casa. È intatta. È illuminata. […] La porta si spalanca. Entro barcollando. Vedo Carla e poi più nulla”.
Queste ultime parole “e poi più nulla” contengono tutto: la gioia inesprimibile, la spossatezza, la sensazione di potersi finalmente abbandonare, dopo una lotta inesausta in faccia alla morte, a una pace infinita tra le braccia dell’amata moglie e poter finalmente, dopo tanto tempo, chiudere gli occhi. Gli occhi però li riaprirà di lì a poco Pietro, perché lontano dall’abbandonare la lotta partigiana e, assume nome di battaglia Valerio e si mette al comando militare del battaglione intitolato a Leonardo Cocito, e andrà a combattere sulle Langhe:
“Ero sdraiato a terra e sentivo il cuore battermi forte.[…] Cocito era morto, Marco era morto, Piero era morto, non restavo che io, tutto era nelle mie mani. Una calma gelida si impadroniva di me”.
Siamo nel 1945. Il 30 aprile Chiodi fa visita al carcere delle Nuove, dove prima i reclusi erano, come lui, i partigiani e ora i tedeschi. Ci va con Lena, sorella di Marco, l’amico ucciso, come tanti altri dai nazi-fascisti. L’episodio è molto duro:
“Lena mi osservò fissamente per un attimo e poi mi disse: <Lui dov’era?> Le indicai il muro dove Marco era rimasto colle mani in alto e poi la porta della cella dietro la quale l’avevo visto scomparire per sempre. Lena mi guardava contratta dal dolore. Continuavo a spiegarle: < Qui c’era Cocito, là Gino, più giù Piero, io ero qui > Mi misi contro il muro mani in alto. Ricordavo benissimo. Nel muro c’era una crepa dall’alto in basso. Era di nuovo lì, innanzi a me. Per ore l’avevo studiata minuziosamente. Ora inorridivo rivedendola nei minimi particolari. […] Io non trovavo la forza di abbassare le braccia. Mi pareva che Li avrei uccisi, abbassandole. No, quei mesi non erano riempiti dalla mia salvezza, dalle mie lacrime, dalla mia vittoria, dalla libertà, erano riempiti dalla loro morte. La differenza fra allora e adesso era questa: che allora Noi c’eravamo ed ora Noi non c’eravamo più.”
Come ha detto Mecacci l’immagine della zattera rende bene in questo caso: si fa naufragio. Si tocca riva. Ci si salva. Si respira l’aria di casa con i suoi affetti alcuni ancora intatti. Si tocca e si ottiene la libertà ottenuta col sangue e la lotta ma alla fine la si ottiene. Eppure durante il naufragio troppi pezzi sono andati irrimediabilmente perduti. Troppa morte ha lasciato con sé questa vittoria. Troppi sono stati inghiottiti dalla furia delle onde.
Il diario, come un’odissea circolare, si conclude con l’evocazione dello stesso personaggio dell’inizio, l’amico Leone:
“20 maggio. Stamane sono giunto a Como in viaggio per casa mia. Da otto mesi non so più nulla della mia famiglia. Approfitto di un paio d’ore di attesa per recarmi dal dottor Gianni Stefanini, mio compaesano, che abita a Como. Mi assicura che i miei stanno tutti bene, benché il paese sia stato continuamente in mezzo alla bufera. Andandomene gli chiedo: < E Leone? > Mi risponde: <È stato uno dei primi e dei più audaci. Ma un giorno…> Lo interrompo e, scendendo le scale, gli dico: <Lo sapevo.>”
Resta una sensazione esatta e colpevole nel rileggere Banditi, conclude Mecacci. Così come resta anche l’imperativo categorico di dover ricordare. Sempre. Ricordare quella forza indomita che nessun partigiano, ferito, umiliato, ucciso ha mai abbandonato. Come lo era lottare, anche ricordare è un dovere. Non per commemorare, non per celebrare, ma per mantenere saldo anche dentro di noi quella fermezza assoluta, quella scelta che dovrebbe essere obbligata, come lo fu per Chiodi, di non poter vivere, né prima, né ora né mai, accettando un mondo in cui l’orrore e la ferocia umana siano permessi, senza far nulla per ribellarvisi, per dire No fino in fondo. Anche fossimo “l’ultimo passero rimasto sull’ultimo ramo dell’ultimo albero.” (Fenoglio)
“Dichiarazione. Di Boetti Teresio di Giuseppe, […] comandante di distaccamento del GMO […]: < Ero in prigione al reparto tedesco delle Nuove nella stessa cella del prof. Cocito […]. Il giorno seguente alla mia liberazione il prof. Cocito fu impiccato. […] Ad ogni momento e specie alla sera prima di dormire ci teneva discorsi di politica spiegandoci le teorie comuniste che egli fervidamente professava..Poiché erano avvenute partenze per la Germania e lui non era partito era certo di dover essere fucilato come ostaggio alla prima operazione partigiana in Torino. Pure, nel momento di lasciarmi mi disse, e non potrò mai dimenticarmi queste parole: ti raccomando di non abbandonare la lotta. Agisci senza preoccupazioni. Se dovrò uscire uscirò, se dovrò morire si compia la mia sorte. Ma l’importante è che non molliate mai!”