Giovedì scorso presso la facoltà di scienze filosofiche dell’Università degli studi di Firenze è stata organizzata un’intensa giornata di studi in ricordo di Pietro Chiodi, a un centenario dalla nascita (1915). Per chi non conoscesse questa figura, egli fu un filosofo, traduttore e partigiano italiano. Ottenuta l’abilitazione magistrale si trasferì a Torino dove si laureò in pedagogia con Nicola Abbagnano e nello stesso anno ottenne la cattedra di storia e filosofia al liceo classico di Alba, dove strinse amicizia con il collega di italiano Leonardo Cocito (fervente comunista e antifascista e divenuto anch’egli partigiano) ed ebbe tra i suoi allievi Beppe Fenoglio. L’intima amicizia e la stima che quest’ultimo provava nei confronti del maestro – nonostante una rottura dovuta a idee politiche inizialmente diverse che li allontanò per un certo periodo fece sì che Chiodi comparisse come personaggio ne “il partigiano Johnny, alter ego dello stesso Fenoglio, sotto lo pseudonimo del professor Monti – almeno nella prima parte, dato che nella seconda viene ristabilito il vero nome Chiodi. Proprio in forza degli ideali socialisti (per quanto Chiodi non sia mai diventato comunista) e antifascisti e degli stretti rapporti con Cocito, Chiodi nel 1944 entrò a far parte della formazione partigiana Giustizia e Libertà. Durante quell’esperienza di lotta partigiana – descritta con cruda luidità e con un ritmo da cronaca incalzante in Banditi – fu catturato dalle SS e trasferito prima a Bolzano e poi a Innsbruck. Ottenuto il rilascio per problemi di salute riuscì a tornare a casa, pur continuando la lotta partigiana mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione garibaldino intitolato allo stesso Cocito, impiccato dai tedeschi, insieme a molti altri, a Carignano.
Per quanto riguarda la sua attività filosofica, si interessò particolarmente all’esistenzialismo, dedicando diverse opere a Martin Heidegger (il lessico heideggeriano è ancora quello forgiato da Chiodi nelle sue traduzioni). Altro punto focale della sua opera di filosofo e traduttore è Kant, traducendone la critica della ragion pura (nel 1967) e gli scritti morali, e dedicandogli un saggio dal titolo “La deduzione nell’opera di Kant”. Ulteriore attenzione riservò a Jean Paul Sartre, ben evidente nell’opera “Sartre e il marxismo”. Come abbiamo accennato, la sua unica opera narrativa fu il diario di guerra e lotta partigiana “Banditi”, definita, non solo per il valore storico ma anche per la brillantezza letteraria, da Davide Lajolo “il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana”. Purtroppo in questa sede non potremo occuparci di tutti gli interventi, che hanno visto relatori come Sergio Givone, Giuseppe Cambiano, Fabrizio Desideri, Stefano Poggi, Gabriele Pedullà e Andrea Mecacci, con la coordinazione di Gianluca Garelli che è stato anche uno dei principali organizzatori e promotori della giornata di studi. Ci concentreremo perciò su due interventi, uno, di Sergio Givone, che in qualche modo è anche una testimonianza diretta, e l’altro, di Andrea Mecacci, che forse ha fatto maggiormente emergere la figura di Chiodi come partigiano attraverso la lettura molto coinvolgente di alcuni passi di “Banditi”, tralasciando gli interventi che più specificatamente hanno direzionato lo sguardo sulla sua attività e opera filosofica, per quanto di grandissimo interesse. Molto toccante e sincera l’introduzione fatta da Sergio Givone, che ci ha raccontato la sua esperienza diretta, in quanto studente a Torino negli stessi anni in cui insegnava Chiodi. Givone, studente, insieme anche a Cambiano e a molti altri, nel 1964, ricorda che a quell’epoca il filosofo per eccellenza era Kant. Per andare avanti nel percorso di studi filosofici (anche per accedere ai tre esami base di morale, teoretica ed estetica) si doveva, volenti o nolenti, fare i conti con le opere del filosofo di Koenigsberg. Insieme a Kant il filosofo “attuale” di maggior rilievo era considerato Heidegger e anche con questo non si poteva non sbatterci la testa. Per l’appunto entrambi i filosofi erano proprio i cavalli di battaglia di Chiodi.
Allo stesso tempo però in quegli anni c’era una grande attesa, una grande voglia di marxismo nell’aria, esigenza tangibile a cui però non rispondevano i docenti di allora – ad esempio, Abbagnano – tranne il nostro Pietro, sebbene le sue lezioni durarono poco, più o meno fino al ‘68. Costui si occupava molto anche di sociologia, pedagogia, di Lévi Strauss, delle scienze umane insomma, accompagnando i suoi insegnamenti con una sorta di valutazioni su docenti e studenti, ma senza che mancasse anche una certa attenzione al marxismo appunto.
“Il mio incontro con Chiodi”, prosegue il professore di Estetica “quello che mi ha fatto capire la grandezza dell’uomo è avvenuto qualche anno dopo rispetto alle sue lezioni, nel ’67. Io mi ero appena laureato e volevo scrivere un libro su Kant – un’idea della filosofia della storia a priori: prendendo atto della perenne oscillazione della ragione tra i due poli archetipici del razionalismo metafisico e l’empirismo scettico/scetticismo, mi chiedevo se la ragione potesse mediare questa aporia solo attraverso il trascendentalismo kantiano – Kant infatti si chiedeva: è possibile una storia della filosofia a priori? Chiunque risponderebbe che no, non è possibile dedurre la storia a priori, però la storia della filosofia sì, perché la storia della ragione può esser ricostruita, proprio nel suo oscillare dogmatismo e scetticismo fino all’adozione di un nuovo punto di vista, quello trascendentale. Questa era la mia questione. Chiodi con il suo garbo, la sua grazia mi ferma chiedendomi di cosa mi occupassi e io gli domandai se Kant potesse esser considerato come il punto di passaggio verso l’idealismo, verso quella storia della filosofia come la conosciamo noi, che ha tratto le sue radici soprattutto dall’analisi hegeliana? È possibile una storia e una filosofia della storia senza esperienza, lasciata in balia di uno schematismo a priori? E Chiodi risponde: ma sarebbe davvero possibile una storia a priori, senza esperienza? Kant in realtà ha parlato di schemi, certo, ma non ha mai negato il valore dell’esperienza. Kant ci ha insegnato cosa significhi orientarsi nel pensiero e ciò è possibile solo raggiungendo l’oriente, il che non vuol dire dedurre a priori il pensiero ma orientarsi, appunto, in esso.”
Ecco, il Kant che emergeva dalla risposta di Chiodi era il Kant più vero, quello che teneva fermo il punto di vista etico e morale, non solo il Kant dello schematismo. Il Kant della ragion pratica e non solo quello della ragion pura. “Vivi cercando l’orizzonte, vivi consapevolmente nella storia... Sapere aude”, sembrava dire la risposta kantiana di Chiodi alla mia domanda. Perciò Kant non sarebbe il preludio di Hegel, ma semmai un’autentica alternativa alla sua concezione di filosofia della storia, in quanto tiene insieme l’assunto teoretico ma anche quello pratico/etico, fondata sulla libertà dell’uomo, sulla sua capacità e infinita possibilità di orientarsi nel pensiero in mille modi diversi e non deducibili a priori né schematizzabili. Non è un caso che Fenoglio ne “il Partigiano Johnny”, metta in bocca, al personaggio del professor Monti, la seguente affermazione: “ la sola cosa che conta è la libertà”. Per quanto concerne il marxismo, Chiodi pensava che Marx andasse benissimo dal punto di vista del metodo ma non del sistema. Marx, che rovescia il sistema di Hegel a sua volta ne crea un altro ma rimane anch’egli vittima, secondo Chiodi, di quella perdita del “finitivismo” la perdita dell’essenziale punto di vista kantiano, che tiene fermo l’assunto etico e il rischio è una ricaduta nel totalitarismo. Anche sulla concezione della Resistenza, Chiodi per un certo verso si distacca da quella che ad esempio ne dava Primo Levi. La sua idea di resistenza è essenzialmente quella che emerge nel Partigiano Johnny, che si riassume bene in uno dei passi del libro:
“Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo. E tu, Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami, non è vero? Tu stesso ammetti d’aver avuto fortuna sino ad oggi ma la ma la fortuna si consuma, e sarà certamente consumata avanti il 31 gennaio. Perché dunque stare ancora in giro, in divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Sembrerebbe che tu lo voglia, che tu ti ci prepari a quel loro colpo di caccia ". Giunse compostamente le sue potenti mani. "Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro a posto [...]”
"Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir sì" "No che non lo è!" -gridò il mugnaio. "Lo è, lo è una maniera di dir di sì". Un vento polare dai rittani di sinistra spazzava la sua strada, obbligandolo a resistere con ogni sua forza per non essere rovesciato nel fosso a destra. Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. - Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!”
Ecco, la scelta di Johnny di essere come quel passero sull’ultimo albero, la sua scelta di continuare a dire “no”, nonostante la disperazione, nonostante la consapevolezza che “anche se non c’è più speranza sarà comunque una disperata speranza” a mantenere quell’imperativo categorico di dire no, alla barbarie del nazi-fascismo. Non la visione del marxismo ortodosso, né quella di Primo Levi, è la visione del no portato fino in fondo e fino all’ultimo, l’impegno a restare anche quando tutto intorno si consuma e si distrugge, l’impegno a rimanere sul ramo, anche dovesse essere l’ultimo ramo dell’ultimo albero rimasto in piedi. In questa concezione traspare fortemente l’elemento etico. È vero che anche in Levi questo elemento di eticità persiste ma a quel tempo veniva letto soprattutto in chiave di nichilismo fatale e senza eticità, in chiave di annientamento di ogni valore dentro l’orrore dei campi di concentramento. Nella visione di Chiodi invece, questo elemento etico che rimane nascosto in Levi, è evidente ed è stato pienamente raccolto e sviluppato dal suo allievo più caro nelle pagine del Partigiano Johhny. La presenza di Kant si avverte anche in diverse pagine del diario di lotta partigiana Banditi, soprattutto nella scena dell’impiccagione del collega e intimo amico Leonardo Cocito, che sfidò eticamente, guardandolo negli occhi, l’ufficiale che lo impiccava. “Ma cot’cordi?” , ovvero, “cosa credi di fare?”. Così si rivolge, in piemontese, Cocito, all’ufficiale che lo sta per ammazzare. Niente di più kantiano. Cocito è ben consapevole di quello che gli starà per fare l’ufficiale incaricato di ucciderlo, ma è come se pensasse e gli dicesse: “puoi anche ammazzarmi, puoi annientare il mio corpo, ma non puoi davvero farmi niente, non puoi, anche facendomi tutto il male possibile, strapparmi il mio imperativo categorico, la mia legge morale”. Che, aggiungerei, mi impone, anche mentre sto per morire, di dirti sempre e ancora “No”.
“Il prete ci fa un lungo discorso concludendo con l’invito a confessarci. Marco e Lino si confessano. Io e Cocito ci ritiriamo in un angolo assistendo in silenzio alla scena. Il prete si avvicina a noi invitandoci gentilmente. Ne segue uno scambio di parole in cui il prete ci fa capire che probabilmente è l’ultima volta che ci è offerta una simile possibilità. Alzo il capo e, fermando gli occhi sulle due S che gli ornano il risvolto, gli dico cortesemente ma in tono tale da non ammettere replica: < Pazienza > . Cocito lo guarda in volto con aria canzonatoria. Quando si allontana mi dice: < Se vado di là e Dio è in divisa da SS mi metto a fare il partigiano di Satana! > E poi ride d’un riso sonoro che ci fa trasalire tutti.”
Da “Banditi” di Pietro Chiodi