Alessandro Pascale

Alessandro Pascale

Nato nel 1985, laureato in Scienze Storiche, lavoratore precario e aspirante professore di Storia e Filosofia con certificazione TFA già ottenuta. Tesi e tesine svolte su "Berlinguer e il compromesso storico", "Popular Music politica. Un'analisi storico-sociale sul contesto italiano", "Stalin e l'URSS (1922-1953)", valutate sempre con il massimo dei voti. Dal 2008 faccio militanza nel PRC tra Valle d'Aosta e Lombardia. Convinto che il 90% delle risposte del presente si trovino nello studio attento e ponderato del "nostro" passato.

E' ormai un dato assodato che in Italia il problema principale è la classe politica: corrotta, inadeguata, impopolare, vecchia. Probabilmente mangia-bambini, drogata, cannibale, pedofila e qualunque altra cosa infamante che vi possa venire in mente.
Scherzi a parte il dato di fondo c'è ed è inequivocabile: esiste un problema di rappresentanza e di inadeguatezza politica, morale e ideologica dell'attuale ceto dirigente al potere. Ciò sta letteralmente distruggendo la democrazia liberale in Italia, degenerando lo sconforto, il pessimismo e il senso di impotenza presso sterminate masse rifugiatisi nel qualunquismo populista o nell'indifferenza apolitica. Questa è la sconfortante analisi reale della società italiana e dei suoi umori.

Tutto ciò però non è un fatto inedito, anzi, sembra costituire una costante nella storia italiana, e non solo repubblicana. Gli stessi fenomeni venivano segnalati già durante l'Italia “liberale” monarchica, poi attraverso i privilegi del regime fascista e successivamente con il monopolio dirigenziale dei governi democristiani, fino quindi alla famosa stagione di Tangentopoli che non fece altro che scoperchiare problemi presenti da decenni ma impediti dal fattore K.

I liberali tendono a dare la colpa ad un carattere storico “genetico” di noi italiani, che per tradizione saremmo arraffatori ed egoisti. Gramsci però la pensava diversamente, e denunciava a spron battuto come la corruzione morale e culturale di una società (e della sua élite dirigenziale) non potesse che aumentare all'interno di una struttura economica degradante quale quella capitalistica.

Domenica, 09 Dicembre 2012 00:00

La psicologia delle folle

Una volta un giovane si è avvicinato al segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, esprimendo preoccupazione per lo stato del partito che i sondaggi davano ad un risicato 3%.

“È vero, siamo bassi, ma il nostro è un 3% di gente che ragiona, con la testa sulle spalle. Siamo pochi ma solidi nella mente e nello spirito”. Questa grosso modo la risposta che ricevette. Quel giovane, pur rinfrancato dalle rassicurazioni del suo segretario, continuava a chiedersi perchè il suo partito di riferimento, nonostante dicesse cose giuste e avesse una linea politica ancor più giusta, non riuscisse a crescere nel gradimento popolare.

La storia del movimento operaio ci insegna che purtroppo non basta avere la linea giusta per veder crescere i propri consensi. Questa era la convinzione errata di Bordiga, fondatore del PCd'I. Gramsci, in un primo tempo d'accordo, ebbe modo di riflettere molto in carcere su questa apparentemente inesplicabile contraddizione.

Erano altri tempi, e senz'altro non si era ancora entrati nella “modernità liquida” che ha fatto vendere milioni di copie a Bauman. Eppure quei tempi nascondono spesso strumenti di lettura della società che ancora oggi appaiono sorprendentemente attuali. E' questo il caso di Psicologia delle Folle, opera uscita nel 1895 che rese famoso lo psicologo-sociologo-antropologo francese Gustave Le Bon, meritandogli elogi e attestati di stima da parte di gente come Freud, Schumpeter, Adorno e Merton.

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