Nonostante molti difetti (uno su tutti: l'autore parla di “razze” invece che di “nazioni”, anche se lo fa in una misura non razzista, quanto piuttosto semplicistica, poco scientifica e un po' stereotipata) l'opera appare illuminante nel descrivere la nascita, l'evoluzione e i meccanismi che determinano una folla, la quale viene intesa come un'entità di vario tipo: non solo il raggruppamento di persone in una piazza piena, bensì un insieme di persone che può anche non essere fisicamente riunita, ma che è accomunata da certi interessi di casta, ceto, classe, razza, mentalità (“dal punto di vista psicologico in determinate circostanze un agglomerato di uomini possiede caratteristiche ben diverse da quelle dei singoli individui che lo compongono. La personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità si orientano nella medesima direzione. Si forma così un'anima collettiva, senza dubbio transitoria, ma con caratteristiche molto precise. […] in certe ore della storia una mezza dozzina d'uomini possono costituire una folla psicologica, mentre centinaia di individui riuniti accidentalmente potranno anche non costituirla”).
La scrittura di Le Bon non nasconde un profondo aristocraticismo antidemocratico, eppure mostra elementi di dubbio interesse, tanto da essere stato letto con attenzione da personaggi come Lenin, Hitler, Stalin e Mussolini.
Proviamo a leggerne alcuni passaggi: “poco inclini al ragionamento, le folle si dimostrano, al contrario, adattissime all'azione. […] La psicologia delle folle dimostra come queste ultime, per la loro natura impulsiva, siano assai poco influenzate dalle leggi e dalle istituzioni, e come nello stesso tempo siano incapaci di avere un'opinione qualsiasi al di fuori di quelle suggerite da altri. Non si lascerebbero mai guidare da un'astratta e teorica imparzialità. Si lasciano invece sedurre dalle impressioni che qualcuno è riuscito a far sorgere nel loro spirito. Se un legislatore, ad esempio, vuole imporre una nuova tassa, dovrà forse scegliere quella che è teoricamente più giusta? Nient'affatto. La più ingiusta risulterà praticamente la migliore per le folle purchè sia la meno appariscente e – a prima vista – la meno gravosa. Ecco perchè un'imposta indiretta, anche se esorbitante, sarà sempre accettata dalla folla. Dato che viene prelevata quotidianamente su generi di consumo nella misura di frazioni di centesimo, non incide sulle abitudini e fa poca impressione. Sostituitela con un'imposta proporzionale sui salari o sui redditi, da pagarsi in un solo versamento, sia pure dieci volte meno gravoso dell'altro e solleverà unanimi proteste.”
Bandita la razionalità nella folla subentrano fattori inconsci come il sentimento: “l'individuo in folla acquista, per il solo fatto del numero, un sentimento di potenza invincibile. Ciò gli permette di cedere ad istinti che, se fosse rimasto solo, avrebbe senz'altro repressi. Vi cederà tanto più volentieri in quanto – la folla essendo anonima e dunque irresponsabile – il senso di responsabilità, che raffrena sempre gli individui, scompare del tutto”. L'individuo che fa parte di una folla “non è più consapevole di quel che fa. In lui, come nell'ipnotizzato, talune facoltà possono essere spinte a un grado di estrema esaltazione mentre altre sono distrutte. L'influenza di una suggestione lo indurrà con irresistibile impeto a compiere certi atti. E l'impeto risulterà ancor più irresistibile nelle folle piuttosto che nel soggetto ipnotizzato, giacchè la suggestione, essendo identica per tutti gli individui, aumenta enormemente poiché viene reciprocamente esercitata”.
Questa assenza di razionalità espone la folla ai discorsi più assurdi e irreali:
“vagando costantemente ai limiti dell'incoscienza, subendo tutte le suggestioni, animata dalla violenza dei sentimenti tipici di chi non può fare appello a influenze razionali, sprovvista di spirito critico, la folla rivela tutta la sua straordinaria credulità. Per essa non esiste l'inverosimile”.
Nella trappola non cadono solo gli stolti, ma anche i più colti “dal momento che fanno parte di una folla, l'ignorante e il sapiente diventano in egual modo incapaci di discernimento”.
E' in questo contesto che possono far breccia le coscienze più forti, quei leader dotati del necessario prestigio che la folla pretende di riconoscere per dare la sua approvazione: “la moltitudine dà sempre ascolto all'uomo dotato di forte volontà. Gli individui riuniti in folla perdono la volontà e quindi si rivolgono per istinto verso chi ne possiede una. […] creare la fede – si tratti di fede religiosa, politica o sociale, di fede in un'opera, in una persona, in un'idea – ecco soprattutto il compito dei grandi capi”.
Il distacco dalla realtà materiale si completa assorbendo ogni tipo di velleità idealistico-religiosa, accolte con una foga di intolleranza e di fanatismo:
“Nelle folle la simpatia diventa presto adorazione, e l'antipatia si trasforma subito in odio. […] le folle acquistano sempre una forma sociale, come un sentimento religioso... Questo sentimento ha caratteristiche molto semplici: adorazione di un essere ritenuto superiore, timore del potere che viene attribuito ad esso, sottomissione cieca ai suoi ordini, impossibilità di discutere i suoi dogmi, desiderio di diffonderli, tendenza a considerare nemici tutti coloro che rifiutano di ammetterli. Si rivolga a un dio invisibile, a un idolo di pietra, a un eroe o a un'idea politica, tale sentimento rimane pur sempre di natura religiosa. […] Le credenze politiche, divine e sociali si diffondono alla sola condizione di rivestire una forma religiosa che le ponga al riparo della discussione”.
E quali sono i mezzi con cui i capi agiscono? Sono tre: “l'affermazione, la ripetizione e il contagio. […] quanto più l'affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità. […] ciò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto di essere accettato come verità dimostrata. […] quando un'affermazione è stata ripetuta a sufficienza, e sempre allo stesso modo, si forma ciò che viene chiamata una corrente di opinione e interviene il potente meccanismo del contagio”.
A questo punto interviene “la virtù misteriosa del prestigio […], una sorta di fascino che un individuo, un'opera o una dottrina esercitano su di noi. Un fascino che paralizza tutte le nostre facoltà critiche e ci colma di stupore e di rispetto. […] la caratteristica del prestigio è quella di impedirci di vedere le cose quali sono, di paralizzare i nostri giudizi. Le folle sempre, e gli individui molto spesso, hanno bisogno di opinioni già fatte. Il successo delle opinioni è indipendente dalla parte di verità o di errore che contengono; poggia unicamente sul loro prestigio”.
E come si aquista il prestigio?
“Molti fattori possono contribuire a formare il prestigio. Uno dei più importanti è stato sempre il successo. L'uomo che ha successo, l'idea che si impone, cessano, per questo solo fatto, di essere contestati. L'insuccesso, viceversa, distrugge sempre il prestigio. La moltitudine è portata a considerare infatti l'eroe decaduto come uno dei suoi, e si vendica per essersi inchinata davanti a una superiorità che più non riconosce. […] Il prestigio rovinato dall'insuccesso scompare di colpo. Può essere logorato anche dalla discussione, ma in modo più lento. Anche in questo caso tuttavia l'effetto è sicuro. Il prestigio messo in discussione non è più prestigio. Gli dèi e gli uomini che hanno saputo conservare più a lungo il prestigio non hanno mai tollerato la discussione. Per farsi ammirare dalle folle, bisogna sempre tenerle a distanza”.
Ma oltre ad evitare i luoghi di confronto i capi si contraddistinguono anche per le modalità con cui espongono i loro messaggi, per la potenza con cui riescono a esporre le proprie parole. Soprattutto hanno ben chiaro che “la potenza di una parola non dipende dal suo significato, ma dall'immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere. […] La ragione e gli argomenti logici non riuscirebbero a lottare contro certe parole e certe formule”. Le parole vanno a braccetto con le illusioni: “i popoli hanno sempre subito l'influenza delle illusioni, e in onore di chi creò le illusioni hanno innalzato il maggior numero di templi, di statue, di altari. […] la filosofia non ha potuto offrire ai popoli un ideale capace di sedurli. Poiché però le illusioni sono necessarie ai popoli, questi vanno per istinto incontro ai rètori che gliele offrono, così come un insetto va incontro alla luce. […] Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Davanti alle evidenze sgradevoli, si ritraggono, preferendo deificare l'errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle diventa facilmente il loro padrone; chi tenta di disilluderle è sempre la loro vittima”.
Infine troviamo una spiegazione del perchè un discorso bello, calibrato, ragionato e giusto (la linea “giusta” di Bordiga, collegandoci idealmente all'inizio) non sempre cattura l'attenzione:
“gli oratori che sanno impressionare le folle fanno appello ai sentimenti e mai al raziocinio. Le leggi della logica razionale non hanno alcun effetto sulle folle. Per conquistarle bisogna prima di tutto rendersi esattamente conto dei sentimenti da cui sono animate, fingere di condividerli e poi tentare di modificarli suscitando suggestive immagini grazie a rudimentali associazioni di idee”.
Tutto il contrario di quanto fanno gli spiriti logici che, “avvezzi a ragionamenti ben concatenati e alquanto stringati, non sanno rinunciarvi quando si rivolgono alle folle, e poi restano sempre sorpresi per lo scarso effetto dei loro argomenti”.
Il radicale pessimismo antropologico di Le Bon può apparire oggi sconcertante, in un'epoca in cui il maggiore partito progressista del Paese fa scegliere il proprio candidato premier al popolo più indistinto.
Lenin sarebbe inorridito, ricordando la funzione fondamentale del partito, incarnante la Ragione (o quel che Gramsci avrebbe definito il moderno Principe), nell'indicare la direzione strategica al proletariato, che non poteva e non doveva essere lasciato da solo in balìa dei suoi istinti.
Engels, più modestamente, avrebbe ricordato che ogni differenza quantitativa dipende da una variazione qualitativa, e viceversa. Il che vuol dire che un partito del 3% con la ragione dalla propria non sarà per forza destinato a migliorare il proprio consenso. Esso migliorerà qualitativamente (diventando più attrattivo, aumentando quindi iscritti e radicamento sul territorio) se riuscirà ad ottenere progressivamente un miglioramento quantitativo. Sembra un gatto che si morde la coda, eppure la soluzione sembra a portata di mano: per ottenere il miglioramento qualitativo anche i metodi truffaldini descritti da Le Bon possono e debbono essere utili. In fondo in un paese come l'Italia nell'ultimo lustro sono tantissimi gli esempi di partiti e politici che sono emersi usando queste tecniche. Al lettore che è arrivato con attenzione fino alla fine dell'articolo saranno venuti in mente così tanti esempi che non è nemmeno necessario nominarli...