Tra i tanti elementi che potremmo definire – per usare un pietoso eufemismo – discutibili del referendum voluto da David Cameron e dalla sua banda di neocon per risolvere la frattura interna del partito Conservatore spicca sicuramente l'assenza di un qualunque criterio compensativo di maggioranza tra parti costituenti il Regno Unito, come per esempio una previsione che imponesse – ai fini di ratificare l'uscita dall'Unione Europea dell'UK – una preferenza a favore non solo dei votanti ma anche una maggioranza favorevole in almeno tre tra Scozia, Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. Il risultato, è ormai risaputo, ha visto Inghilterra e Galles votare per uscire dall'Unione Europea, pure con maggioranze tutt'altro che convincenti e con la defezione di peso della Capitale del Regno, Scozia e Irlanda del Nord confermare la preferenza per lo status quo (rispettivamente 62% e 55,78% per il remain).
Il disprezzo nutrito dalla classe politica conservatrice più fanaticamente pro-brexit nei confronti di ciò che sta al di là della Little England d'altro canto parla da sé, basti ricordare come Boris Johnson motivava il suo rifiuto di considerare una qualunque soluzione che sacrificasse temporaneamente qualcosa della brexit alla necessità di salvaguardare la pace, la società e l'economia dell'Irlanda del Nord: stiamo già sbagliando permettendo che sia la coda a muovere il cane. Come dire, ciò che conta è il popolo inglese, quelli che hanno sempre definito cosa dovesse significare la britishness, la maggioranza; gli altri si adeguino. Per dirla con un altro ipse dixit, tutti quelli come noi siamo noi, tutti gli altro sono loro.
Democrazia non può significare dominio incondizionato dei più sui meno, delle parti storicamente più popolose di uno Stato composito sulle parti storicamente meno popolose, della semplificazione estrema e artificiale sulla complessità del reale: altrimenti sarebbe nella sostanza virtualmente indistinguibile da una tirannia con elevato consenso popolare. La mediazione e la ricerca di una via condivisa dovrebbero essere i suoi elementi distintivi. Ma se il meccanismo istituzionale del referendum ha certamente lasciato a desiderare rimane da spiegare la convergenza che ha generato la complessiva maggioranza pro-brexit. Andrebbero considerati nell'analisi i processi di soggettivazione che hanno plasmato fasce situate di popolazione – impoverita o meno – che si fanno portatrici di un senso comune regressivo e che si identificano in pezzi di potere di matrice medio-alto borghese spostati all'estrema destra, che hanno a loro volta tutto l'interesse a far continuare una dinamica egemonica che ha trascinato nel gorgo anche pezzi di elettorato di sinistra.
Quest'ultima d'altronde non brilla. La leadership laburista sembra non voler aver nulla a che fare con un processo che considera l'ultima tappa della guerra fratricida tra tories; le vaghe allusioni ad un “people's deal” per una brexit “di sinistra” dai contenuti fumosi che Corbyn magicamente otterrebbe dalla UE una volta al governo non convincono nella loro evidente vuotezza rispetto ai temi sollevati dalla brexit. Il Labour rischia da un lato di non convincere su quello che volenti o nolenti è un tema di fase cruciale, e quindi semplicemente di non vincere, e d'altro canto, anche vincendo le elezioni, di trovarsi – passata la sbornia di slogan – con nulla di più in mano del poco che ha già in mano May.
Un secondo voto rappresenterebbe evidentemente una seconda demagogica scialuppa di salvataggio per una classe politica inadeguata. C'è il rischio che sia l'unica via praticabile oltre il naufragio.
In tempi in cui anche la borghesia teme per la fine del Qe e persino Draghi arriva ad ammettere il malfunzionamento della moneta unica per l'incompletezza dell'Unione, interrogarsi sulla Brexit appare quasi estemporaneo.
Eppure è necessario in quanto c'è da rispettare il pronunciamento di un popolo e da risolvere la questione della Gran Bretagna che per ovvie ragioni economiche non avrebbe mai accettato di condividere la moneta unica europea. Completare l'allontanamento della Gran Bretagna dall'Unione Europea si sta rivelando un'impresa, ma pur sempre sostenuta dalla maggioranza dei cittadini britannici.
Le difficoltà sono crescenti e il costo per i cittadini senz'altro non sarà irrilevante, anche se la nuova politica statunitense gioverà senz'altro alla definitiva disconnessione della Gran Bretagna dall'Unione. Come sempre il vero ostacolo arriverà alla prova dei fatti: se la Brexit reggerà al rapporto costi benefici, se la Brexit permetterà di agganciarsi a una nuova crescita globale che sembra latitare del tutto, allora risulterà vincente agli occhi dell'opinione pubblica mondiale.
Se quest'ultimo caso non dovesse avverarsi però dare la colpa alla Brexit potrebbe non essere del tutto razionale, in quanto la grande depressione economica non si è mai spenta e tira già aria di nuova recessione. Ma in caso di Brexit di certo l'Unione guadagnerà in termini di coerenza, ciò che aveva decisamente perso accettando di condividere le politiche economiche e non solo con un Paese monetariamente esterno. Gli anglosassoni invece ristabiliranno la loro unione che nasce ben prima del processo forzoso di Unione europea.
L'impero anglosassone ricorderà agli europei la loro piccolezza riportandoli con i piedi per terra e sarà un bene per tutti abbandonare i sogni di gloria da grande impero.
Dmitrij Palagi
La Brexit e Trump hanno avuto un impatto notevole nel diffuso mondo progressista: non lo stesso dell'11 settembre 2001, ma sicuramente capace di affondare in una sinistra decisamente disorientata. Si è tentato di spiegare in termini psichiatrici i motivi per cui alcune società hanno smentito le rassicuranti certezze di una parte di intellettuali, mentre alcune voci si sono alzate spacciando irrazionalità per libertà di pensiero.
Messo da parte l'irrilevante universo di chi si sente migliore della realtà in cui vive, resta un processo interessante rispetto all'incapacità della classe politica europea. Le difficoltà sono evidenti. Per citarne solo tre: la questione irlandese, le diverse posizioni nel Labour, i temi sociali con cui la propaganda cancella le discussioni di merito.
Corbyn al momento gode di una posizione di vantaggio: denunciare le inadempienze e le incompetenze del governo per ridare centralità al Parlamento è tra i diritti dell'opposizione.
La controparte continentale appare unita nel tutelare qualcosa di non troppo evidente all'opinione pubblica. Si tratta di un dibattito che appassiona i cinque minuti in cui la cittadinanza può riempirsi la bocca di categorie come "sovranità" o "libertà", salvo poi essere tutto travolto dal caffè che si fredda.
Nel frattempo un'altra occasione per le sinistre di formare delle proposte sensate, a pochi mesi dalle europee, sta per svanire.
Nella lunga storia della CEE e della UE forse nessun Paese come il Regno Unito ne è stato destinatario di privilegi e vantaggi.
In primo luogo, come la Danimarca e la Svezia esso strappò alcune clausole di opt-out, in particolare su Schengen e sull’unione monetaria. In secondo luogo, a differenza dei due regni scandinavi Londra ha esercitato a lungo un ruolo di destabilizzazione della UE senza, sul momento, doverne pagare le conseguenze: talvolta direttamente, ad esempio partecipando all’aggressione all’Iraq, talvolta indirettamente sostenendo da dietro le quinte i nazionalismi dell’Est. In terzo luogo, l’esecutivo Cameron rinegoziò appositamente i termini della partecipazione alla UE minacciando di fatto l’uscita in caso di mancato accordo.
Che il popolo britannico abbia scelto di votare per l’uscita da un organismo così generoso di prebende, per imbarcarsi in un percorso incerto, costellato di rischi e senza alleati, appartiene al vasto campo dell’autolesionismo.
In ogni caso il percorso incerto costellato di rischi e senza alleati ora è intrapreso e il popolo britannico non ne vede ancora l’uscita. Per far cadere il governo è sufficiente che venga meno la fiducia di sette deputati: contro il piano May si sono schierati la destra unionista dell’Ulster (dieci deputati) e 117 parlamentari conservatori. Corbyn non ha posto tempo in mezzo e ha chiesto al governo di calendarizzare la discussione di una mozione di sfiducia, affermando – a ragione – che un eventuale rifiuto, del tutto lecito dal punto di vista procedurale, significherebbe che l’esecutivo non conta più sulla maggioranza ai Comuni.
Quali scenari si aprono?
Il “No Deal” a fine marzo 2019, con il Regno Unito completamente tagliato fuori dall’economia europea e, prevedibilmente, il crollo della lira sterlina, una nuova pulsione separatista scozzese probabilmente inarrestabile, la riapertura della sanguinosa questione del confine irlandese.
Oppure si potrebbe essere in tempo per indire nuove elezioni e formare un nuovo gabinetto prima della fine di marzo. Ma che maggioranza avrebbe questo governo?
Se i Tories riportassero nuovamente la maggioranza (relativa o assoluta, non cambia), si riproporrebbe la spaccatura interna del partito tra falchi e colombe.
Se invece fosse il Labour a prevalere, anche a prescindere dalle non poche diversità di vedute sulla UE dentro il partito, sarebbe probabilmente costretto a chiedere l’appoggio parlamentare dei nazionalisti scozzesi o dei liberaldemocratici, con le pesanti contropartite politiche che ciò comporterebbe (riapertura della questione indipendentista o nuovo referendum sulla partecipazione alla UE).
Ma, non possedendo la sfera di cristallo, resta solo da aspettare e vedere per cogliere appieno le magnifiche sorti e progressive del sovranismo plebiscitario – o “di democrazia diretta”…
A pochi giorni dalla fine dell'anno, le situazione sulla Brexit risulta sempre più confusa. Le spaccature sono molteplici, fra forze politiche ma anche all'interno degli stessi conservatori.
Quello che fino a qualche giorno fa pareva un accordo sulla Brexit in gradi di mettere d'accordo tutti ("il miglior accordo possibile"), appare ora agli occhi di molti britannici (e soprattutto di uno sparuto ma decisivo numero di parlamentari conservatori) come inaccettabile, sopratutto per il famigerato cavillo rappresentato dal cosiddetto backstop (vedi qua) che di fatto rischia di obbligare il Regno Uniti a rimanere nell'Unione.
Ma quali sono le alternative a questo accordo? A bene vedere poche e in ogni caso poco praticabili o poco convenienti. La hard Brexit, un'uscita senza un accordo con l'UE, sarebbe nociva, soprattutto economicamente, sia per Londra che per Bruxelles. Trovare un nuovo accordo, con una UE poco incline a rivedere le sue posizioni e dopo mesi di negoziati su quello attuale, pare un percorso veramente impervio, mentre si fa sempre più strada un'alternativa che appare persino peggiore delle altre: quella di un secondo referendum.
Si tratta di una opzione che avrebbe il supporto non solo dell'opposizione e delle varie realtà politiche e sociali favorevoli al Remain, ma anche di alcune fazioni interne alla maggioranza, dato che in teoria permetterebbe di guadagnare tempo e di rafforzare la posizione negoziale della May in caso di nuovo successo del "Leave" oppure di risolvere il problema alla radice (in caso di una affermazione del "Remain"). Si tratta però di un calcolo molto rischioso. Una seconda affermazione dei favorevoli alla Brexit non rappresenterebbe necessariamente un'arma in più per Theresa May, quanto più che altro potrebbe costituire un' ulteriore pressione per andare a uno scontro frontale con la UE, con poche probabilità di successo. D'altro canto una vittoria del "remain" potrebbe non essere accettata dai sostenitori del "leave", che già sentono i loro diritti democratici traditi, e rischierebbe di accentuare le fratture sociali già fortemente presenti nel Regno Unito. Da un punto di vista più generale, un secondo referendum sarebbe la prova plastica del definitivo svuotamento del potere democratico nelle società neoliberali. Votare finché non vince la posizione che le elite prediligono non è esattamente il più nobile dei principi ma è, ancora una volta, un pensiero che sta attraendo una buona parte della sinistra britannica e non solo.