Nell’esporre una concezione di politica di difesa rigidamente fondata sulla confrontation, Mattis ha educatamente fatto presente di sentirsi di troppo in quanto è diritto del Presidente avere un Segretario della Difesa allineato sulle sue posizioni.
In questi due anni il Senato è già stato teatro di una guerra di trincea tra i partiti sulle nomine presidenziali, tanto nel gabinetto quanto nella magistratura.
Una lotta sulla Difesa si preannuncia ancora più divisiva, se si considerano: la rilevanza dell’argomento per la politica USA; i sospetti di collusione con la Russia che si allungano sempre più sull’inquilino della Casa Bianca; una passata, seppure interrotta, tradizione di consenso bipartisan attorno al Pentagono – Robert Gates, ma anche Mattis fu confermato con 98 sì e 1 no.
Quelli che ritengono che il neoisolazionismo di Trump sia fantascienza probabilmente sono nuovamente rimasti delusi dalla decisione di dimettersi di Mattis.
Giovedì sera il generale dei marines si è presentato da Trump con la lettera di dimissioni in mano. La sua era ormai una voce inascoltata da tempo, cioè da quando tutti i più ciechi sostenitori della guerra dalla Corea del Nord fino alla Siria sono stati emarginati.
Il completo ritiro dell’esercito americano dalla Siria ha spiazzato i più feroci guerrafondai americani che non possono accettare la cessione di aree di influenza a nemici fidati quali l'Iran e la Russia.
Come se non bastasse quello stesso giorno Trump ha annunciato la decisione di ritirare metà del contingente militare statunitense dall’Afghanistan, dopo quasi vent’anni di guerra.
Risolvere la crisi coreana e ritirare gran parte delle truppe dall'occupazione mediorientale è molto più di quanto annunciato dal Premio Nobel per la Pace che sedeva prima di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti, peccato l'abbia fatto l'orrido Trump.
Non sarà poi sfuggito ai più attenti il discorso di fine anno di Putin che ha elogiato Trump per la decisione siriana, dopo aver ribadito che la minaccia dell'olocausto nucleare è oggi più concreta che mai.
Insomma, per fortuna i due leader scavalcano l'Unione Europea e se la intendono tra loro, perché se dovessimo seguire gli istinti predatori della NATO ormai egemonizzata dall'UE a tal punto da spingere gli Stati Uniti in un'orbita sempre più lontana dall'organizzazione, probabilmente saremo già arrivati al punto di non ritorno.
Dmitrij Palagi
Il Medio Oriente è quel pezzo di mondo in cui si riflettono molte vergogne dell'occidente. La politica di Trump si conferma essere decisamente meno interventista di quella dei suoi recenti predecessori.
A differenza dell'immediato passato manca anche molta retorica progressista sull'esportazione della democrazia (osteggiata ai tempi di Bush jr. e premiata con un premio Nobel della pace nel caso di Obama).
Rischia di uscire devastata dalle novità l'esperienza del Rojava. A uscire vincitori da questa fase appaiono Russia e Turchia, a confermare un'ipotesi di maggiore multiporalismo.
Se è vero che gli Stati Uniti si sono avviati a una fase di significativo ridimensionamento sulla sfera internazionale, nel XXI secolo, occorre provare ad aggiornare comunque le categorie interpretative, ricordando come la sinistra di classe, da Marx in poi, abbia sempre avuto a cuore la libertà dei popoli, che non vive nell'interesse di un pugno di nazioni, ma nell'autodeterminazione e nella libertà delle persone.
Putin, Erdogan e Assad non si sono mai collocati nel solco della tradizione comunista. Dimenticarlo sarebbe una leggerezza per chi aspirerebbe a giocare un ruolo storico, oggi sempre più connesso alla sfera globale, non riducibile su scala nazionale (se mai lo è stata).
Le dimissioni di Mattis confermano una novità nella politica a stelle e strisce: il fenomeno di Trump non può essere liquidato come deviazione da un progresso storico che riprenderà il suo corso dopo questa brutta parentesi. I liberali e i riformisti si sono già illusi abbastanza negli ultimi decenni.
L’identikit militare del generale Mattis appare quello di un tipico personaggio da film (si veda il colonnello Mathieu ne La battaglia di Algeri). Soprannominato “Cane Pazzo” dai suoi soldati, il generale unisce al gusto di una vita militare rude e spartana quello per le letture colte e l’educazione dei modi.
Il suo stesso stato di celibe appare come la dichiarazione di un uomo che ha scelto di sposare l’esercito.
In guerra si è reso responsabile di azioni militari spregiudicate, tra cui il massacro di Mukaradeeb, e individuando al Qaeda come nemico principale ha sostenuto la necessità di allearsi con altri gruppi terroristici rivali.
Con un curriculum simile non stupisce la quasi unanimità del Senato alla sua conferma, il giorno stesso dell’inaugurazione di Trump – una conferma che necessitò anche di un passaggio in entrambe le Camere per una deroga al National Security Act del 1947, che impone un intervallo minimo di sette anni tra incarichi nell’esercito e incarichi governativi.
Strenuo sostenitore dell’alleanza con la monarchia saudita, nemico giurato di Nord Corea, Russia e Siria, con il declino politico e poi fisico di John McCain sembrava divenuto il nuovo punto di riferimento delle Forze armate, le quali notoriamente non rispondono al Presidente se non formalmente.
Mattis ora è divenuto l’ottavo ministro dell’amministrazione Trump a lasciare, dopo i colleghi Young (Agricoltura), Kelly (Sicurezza nazionale), Price (Salute), Shulkin (Affari dei veterani), Tillerson (Esteri), Sessions (Giustizia), Zinke (Demanio territoriale).
Di tutti gli abbandoni questo è probabilmente quello più pesante, perché più di ogni altro discende non tanto da idiosincrasie personali quanto da una nettissima contrapposizione politica.
Mattis ha sbattuto la porta in polemica con il ritiro dalla Siria, ma il suo successore intenderà seguire le tentazioni russofile di Trump? Sembra in realtà che ancora una volta verrà scelto un nome gradito all’esercito e, quindi, la risposta a tale domanda è no.
I principali candidati sembrano appartenere tutti alla schiera più agguerrita dei falchi: i generali Keane e Petraeus, i senatori Cotton e Graham (maggiori informazioni qui).
Resta da sperare che l’opposizione democratica si manifesti incisivamente al Senato, evitando di ricomporre un largo fronte imperialista di cui il mondo non ha bisogno.
Giovedì 13 dicembre tutti i senatori dell’asinello, più due gruppi di repubblicani (i centristi e gli isolazionisti) hanno composto una maggioranza e approvato mozioni di condanna del regime saudita e per il disimpegno USA dalla guerra in Yemen.
Questa determinazione potrebbe auspicabilmente essere replicata nelle audizioni del prossimo candidato.