Le negoziazioni per il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) iniziarono a maggio 2009. Nel 2014 si giunse ad un testo condiviso che doveva essere approvato da tutti i governi dei membri UE oltre che dal Canada stesso. Sebbene tutti i governi europei fossero concordi, l'esecutivo belga non poteva firmarlo senza avere l'avallo dei parlamenti delle tre comunità in cui è articolato il suo assetto federale. Quello della Vallonia intendeva respingerlo, e pareva proprio che l'approvazione saltasse; invece sotto le forti pressioni di governi e Commissione è stato trovato un compromesso, slittando solo di qualche giorno. Adesso dovrà essere ratificato da tutte le assemblee legislative nazionali oltre che dall'europarlamento.
Esistono numerosissimi free trade agreements (“accordi di libero mercato”) nel mondo. Nonostante coinvolgano Stati e nazioni diversissime (di tutti i continenti) possiedono alcuni caratteri pienamente riconoscibili e costanti:
- sono documenti legali tecnici e molto difficili da capire, lunghissimi e con un gergo legale involuto;
- impianto giuridico legato al diritto commerciale di marca anglosassone, facenti riferimenti ai testi base dell'Organizzazione Mondiale del Commercio;
- fisolofia liberista, tesa ad incrementare il commercio e gli scambi come motori di progresso e benessere;
- inclusione negli impegni di abbassare il ruolo dello Stato, tanto in merito ai dazi di dogana che nelle sue funzioni regolative (chiamate “barriere non tariffarie”), fino ad includere il vastissimo settore dei servizi;
- negoziati lunghi e opachi, portati avanti dai governi ma molto aperti alle aziende e ai lobbisti;
- meccanismi di risoluzione delle controversie con prerogative capaci di subordinare i Parlamenti sovrani.
I primi due grandi esempi fondanti di questo tipo di accordi sono il NAFTA (fra USA, Canada e Messico) e il WTO (Organizzazione mondiale del Commercio); quest'ultima, di ampiezza planetaria, ha visto inserire nelle sue competenze accanto alle merci i servizi, norme regolamentari e proprietà intellettuale, trasformando delle negoziazioni anonimamente tecniche in questioni politiche cruciali capaci di infiammare le piazze2.
È un passaggio fondamentale da una regolamentazione di qualcosa che già di per sé è merce (manufatti, oggettistica, ecc.) a una selva di settori che prima non era trattata in quanto tale. Per esempio secondo uno dei testi basi dell'Organizzazione mondiale del Commercio, il termine «servizi» comprende qualunque servizio fornito in qualsivoglia settore, eccezione fatta per i servizi forniti nell’esercizio dei poteri governativi; l’espressione «un servizio fornito nell’esercizio dei poteri governativi» indica un servizio che non viene fornito su base commerciale, né in concorrenza con uno o più fornitori di servizi (GATS art. 1).
Nonostante le ottimistiche previsioni di crescita economica, benessere, posti di lavoro ecc. pressoché dovunque si verifichi l'impatto effettuale di tali trattati si può verificare:
- crescita del PIL e degli scambi inferiore alle aspettative; perdita di posti di lavoro, deindustrializzazione;
- peggioramento delle condizioni di lavoro, deterioramento dell'ambiente e della salute pubblica;
- privatizzazioni di massa.
C'è qualcosa che distingue gli accordi di libero mercato dalle altre forme di neoliberismo indotte da una egemonia corporativa della società come negli USA di Reagan o simili: il suo agire svuotando la democrazia dall'interno, precisamente nei meccanismi della sovranità democratico-costituzionale. Con questi trattati gli Stati - o meglio i governi – si vincolano al rispetto di impegni che di fatto limitano le scelte dei partiti che in teoria, vincendo le elezioni, potrebbero avere una agenda differente. Non a caso a metà anni Novanta si inizia a parlare di pensiero unico.
L'apice di tutto ciò è l'inclusione di meccanismi di arbitrato per le controversie investitore-Stato (ISDS): in forza delle quali un investitore straniero (cioè un'azienda multinazionale) se ritiene che i suoi interessi siano pregiudicati da qualche “ingiusta” legge nazionale, può trascinare il paese in questione davanti a tribunali privati che possono obbligarlo a pagare un indennizzo, così scoraggiando una legislazione lesiva dei profitti delle corporation particolarmente forti. Stati democratici obbligati da corti private a cedere a fronte di interessi privatistici. Di fronte lesioni così evidenti della sovranità popolare si può parlare ancora di democrazia?
È una sorta di governo invisibile, un po' l'opposto dei vecchi modelli dittatoriali: anziché un centro di controllo pesante e repressivo, si ha un potere che dalla prudente lontananza di paludati sedi tecnocratiche domina la società attraverso meccanismi anonimi, impersonali e tecnici. Difficili da combattere perché difficili da capire e contribuendo da una parte al distacco delle persone dalla vita politica (ridotta a pura amministrazione), dall'altro alla ricerca di più facili capri espiatori e scorciatoie demagogiche.
Sul piano politico operativo i risultati concreti dei trattati di libero mercato comportano la deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazioni in numerosi settori; costituiscono una continuità con i malfamati aggiustamenti strutturali richiesti dalle organizzazioni finanziarie internazionali (Fondo monetario, Banca Mondiale) sui paesi indebitati negli anni Ottanta. Mentre nella fase aurorale del neoliberismo (Cile 1973, Argentina 1976 ecc.) tale asseto veniva imposto con le armi e la tortura degli oppositori, nella decade successiva il debito estero fungeva da guinzaglio per evitare che gli Stati soggetti non “facessero scherzi”. La fase degli accordi di libero mercato si fonda invece su un'egemonia politica e intellettuale secondo la quale un paese “serio”, “moderno”, obbediente sulla dottrina economica più “accreditata e accademicamente garantita” non può che essere favorevole all'agenda corporativa, permettendo e facilitando l'entrata nella trappola mercatista.
In maniera crescente il peso di questi trattati di free market incide sulla vita pubblica delle “vecchie” potenze industriali colonizzatrici, USA e UE; il neoliberismo torna da dove è nato, da arma da puntare contro la periferia si rovescia sulle stesse società più ricche, rese ostaggio dei loro settori dominanti. Si va oltre l'ambito del diritto commerciale, che è solo lo strumento di un disegno di una nuova forma politica: la dislocazione della sovranità in sedi non democratiche, a fronte delle quali il processo elettorale risulta impotente. La strada è già tracciata.
È così che nella fase attuale si incrociano diverse dinamiche: la finanziarizzazione dell'economia che agisce attraverso processi di privatizzazione crescenti e la precarizzazione del lavoro; la necessità di trovare nuovi mercati che, con la crescita delle potenze emergenti forti (si pensi alla Cina e alla Russia) più difficilmente riescono ad realizzare un arrembaggio coloniale e devono cannibalizzare i mercati del welfare domestici (cioè sanità, pensioni, educazione); e non ultima, la tendenza alla creazione di aree geoeconomiche in reciproca competizione tendenzialmente chiuse e inclini al protezionismo. Gli accordi maggiori attualmente in piazza sono: Il TTIP (fra UE e USA, attualmente in stallo); TPP (USA con altri 11 paesi del Pacifico), TISA (accordo di 50 paesi direttamente inerente i servizi).
La strada dei poteri dominanti non è però del tutto spianata, sia per la congenita concorrenza dei vari settori che promuovono gli accordi, sia per le opposizioni sociali che essi generano. Dovunque i movimenti sono riusciti a comunicare ai cittadini cosa succedeva, tali accordi sono stati circondati da una ostilità crescente, fino ad inceppare gli organismi che l'élite dominante supponeva fossero ben oliati. La “strategia del vampiro” (porre le cose in piena luce, traendole dall'oscurità dei maneggi tecnocratici per annientarle) funziona.
1 The Trans-Pacific Partnership clause everyone should oppose, 25 febbraio 2015.
2 Si pensi a Seattle 1999.