Sto parlando di due confederazioni, CES e CSI che nascono, l’una, la CES, dalla volontà dei sindacati europei di lavorare insieme oltre le federazioni mondiali di appartenenza e l’altra, la CSI, dalla fusione della CISL internazionale con l’internazionale dei sindacati cristiani. Dunque confederazioni culturalmente e ideologicamente dentro l’alveo del riformismo sociale e della coesione interclassisita nella loro stragrande maggioranza dei casi.
Ovviamente, non mi riferisco ad una coerenza di comportamenti di tutte le confederazioni nazionali e di un analoga capacità di iniziativa e di mobilitazione, ma piuttosto alla copertura che il movimento sindacale ha offerto in tutto il mondo e segnatamente negli Stati uniti d’America e in Europa alla galassia dei movimenti e delle associazioni ambientaliste, di cittadinanza attiva, ecc. che si sono mobilitate contro il TTIP.
Alla base una valutazione comune che è emersa in due sedi sindacali distinte: le federazioni internazionali dei sindacati dell’agroalimentare che hanno avvertito immediatamente le conseguenze dell’accordo sulle condizioni di lavoro, di mercato e di qualità delle produzioni in àmbito agricolo e della industria di trasformazione e nei Dipartimenti internazionali delle Confederazioni. Per capire di cosa parlo, riferendomi alla CGIL, parlo della FLAI e dei Dipartimenti Ambiente e Internazionale che hanno agito d’intesa e congiuntamente con i loro omologhi al di qua e al di là dell’Oceano. Un ruolo importante lo ha avuto il sindacato americano, l’AFL-CIO.
Un altro elemento assai importante è il rapporto delle federazioni dell’agroindustria della CSI con i movimenti cooperativi dei contadini dei paesi di quello che una volta chiamavamo terzo mondo.
Ma il luogo che ha favorito questo incontro e la diffusione di una ostilità di massa su scala mondiale nel movimento sindacale verso la globalizzazione liberista e il tentativo di anteporre il dominio incontrastato del capitale e delle multinazionali agli interessi dei lavoratori, alla salvaguardia delle produzioni e dell’ambiente, dei diritti di cittadinanza alla salute, al benessere delle persone, all’istruzione, attraverso trattati che subordinerebbero le politiche e le scelte degli Stati, di ogni singolo Stato, è stato il Forum sociale mondiale.
Il primo FSM si svolse dal 25 al 30 gennaio 2001 a Porto Alegre in Brasile; se scorriamo l’elenco dei presenti e promotori troveremo tanti e tanti sindacati, ma – per esempio – dall’Italia le sole delegazioni della corrente di sinistra sindacale di allora “Alternativa sindacale” e della FIOM. In quasi tutti i sindacati europei prevaleva allora un giudizio benigno sulla liberalizzazione dei mercati e sulle virtù della globalizzazione.
L’anno dopo a Genova, la CGIL marcò pesantemente la differenza con una propria iniziativa distinta.
Per la CGIL il punto di svolta è stato il Forum sociale di Firenze del 2002: da quel momento lentamente passo dopo passo il sindacato italiano si schiera contro la globalizzazione liberista e si apre ad un confronto fecondo con le istanze dei movimenti su scala planetaria, europea e nazionale.
La partecipazione convinta della CGIL e di sempre un maggior numero di categorie – alla FLAI si è aggiunta la FILCAMS, che è il sindacato che organizza i lavoratori della distribuzione – alla mobilitazione contro il TTIP ha contribuito ad un sempre più chiaro posizionamento dei sindacati europei e internazionali ed è uno strumento di pressione non indifferente sui governi, rafforzando l’ostilità di una sempre più vasta opinione pubblica.
Ciò detto, niente va dato per scontato. Avevamo come sindacati salutato con favore la battuta d’arresto della CETA per poi ritrovarci con l’approvazione di questo trattato che è analogo per impostazione al TTIP.
Né è una garanzia il fatto che la nuova amministrazione americana dovrebbe avere un approccio protezionistico: il TTIP imporrebbe a tutto il mondo il modo in cui le multinazionali statunitensi producono senza garanzia alcuna rispetto alla manipolazione genetica, uso di sostanze cancerogene, ecc. Quel che sarebbe a rischio sarebbero le barriere doganali, non il principio di omologazione sulla base degli interessi capitalistici…