Lo scorso 18 novembre, davanti all'Ard Fheis del partito, il quasi settantenne Gerry Adams ha annunciato il suo ritiro da presidente dello Sinn Fein, posizione da lui ricoperta per più di trent'anni. Nel breve discorso, che tra le altre cose descrive la brexit come «la più grave minaccia al popolo irlandese da generazioni» e critica duramente il governo dell'Eire e il primo ministro Varadkar accusandolo di thatcherismo, Adams ha parlato della necessità di trasformare la «cultura di resistenza» forgiata nei duri anni dei Troubles in una «cultura di cambiamento» in grado di accompagnare la crescita del partito, tanto nel Nord quanto nel Sud dell'Irlanda.
di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo
Identità irlandese: dalle origini ad oggi
«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi
«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger
Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.
Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.
L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.
Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.
Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.
Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.
Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.
Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.
Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.
L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).
Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.
Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.
Notizia battuta da molte delle maggiori testate italiane quella dell'arresto del Presidente dello Sinn Fein, il partito indipendentista irlandese. Ma niente, assolutamente niente, di approfondito.
Gerry Adams è stato arrestato la sera del 30 aprile e trattenuto nel commissariato di Antrim con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di Jean McConville, avvenuto nel 1972. La donna, all'epoca della scomparsa, aveva 37 anni e dieci figli, tutti avuti da un cattolico sposato anni prima. Lei, di famiglia protestante, fu uccisa dall'IRA con l'accusa di essere una spia che passava informazioni alla RUC, la Royal Ulster Constalbury, la violenta polizia che manteneva l'ordina in Irlanda del Nord. Adams, come aveva già fatto quando le accuse gli erano state rivolte in precedenza, anche prima di entrare nel commissariato ha ribadito la propria innocenza.
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