Lunedì, 31 Ottobre 2016 00:00

Democrazia o mercato: dilemma europeo

Democrazia o mercato: dilemma europeo (a dieci mani)

Non è un periodo fortunato per i trattati transnazionali del commercio. Il TTIP (tra Unione Europea e Stati Uniti d’America) ha visto naufragare il confronto tra le parti per l’opposizione di molti governi nazionali, probabilmente in seguito alle pressioni delle opinioni pubbliche di molti paesi (tra cui quelle di Francia e Germania). Le trattative per il CETA (tra UE e Canada) parevano essere ormai concluse, ma l’opposizione della Vallonia ostacola la firma del Belgio (tutti e 28 gli stati membri dell’UE devono ratificare gli accordi). Sul Sole 24 Ore sono usciti articoli (qui e qui) che esplicitamente affrontano il tema della democrazia come ostacolo al progresso economico (la Brexit è il richiamo più immediato, ma anche i referendum della Grecia non sono così distanti nel tempo).

Pubblicato in A Dieci Mani
Giovedì, 27 Ottobre 2016 00:00

Accumulazione di capitale e il nuovo da capire

Pubblichiamo qui di seguito uno scambio avvenuto tra Mauro Lenzi e Paolo Favilli sulle colonne de Il manifesto convinti che possa essere da stimolo per una riflessione più generale.

L’articolo di venerdì 21 ottobre di Paolo Favilli pubblicato sul manifesto (La sinistra e l'inedita questione sociale dei nostri tempi), purtroppo alla fine, introduce la necessità di un approccio al dibattito che consideri che “Oggi la ‘questione sociale’ si manifesta anche con tratti che “...nella…” storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo (sottolineatura mia) è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di ‘accumulazione flessibile’. Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno.”

Mi pare un approccio promettente. Purtroppo, ripeto, arriva alla fine dell’articolo e la necessità di sintesi mi ha penalizzato in una comprensione più ampia: che si intende per "accumulazione flessibile"? Ho la sensazione che Favilli dia un significato importante a questo termine, addirittura dirimente. Probabilmente nella pubblicistica il concetto è da tempo e ripetutamente chiarito e esplicitato ma, per mia ignoranza, non ne sono edotto. È possibile da parte di Favilli fare un altro pezzo di approfondimento in grado, secondo me, di aprire ulteriori spazi al dibattito? Appunto, altro rispetto ai ‘balletti’ giustamente redarguiti di Favilli.

 ***

Caro Lenzi,

hai perfettamente ragione, la necessità di sintesi ha portato a considerare scontate questioni che non lo sono per niente.

L'espressione "accumulazione flessibile" è del geografo inglese David Harvey, uno dei più importanti studiosi delle tendenze odierne del capitale. La fase indicata con quell'espressione non si contrappone alle tendenza generali di accumulazione del plusvalore, ma le modella a seconda delle forme che il contesto rende possibili. In un certo senso il capitalismo di ogni fase è sempre un "nuovo" capitalismo.

Le possibilità odierne di comprimere ed interconnettere a velocità crescente e sempre più profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, aprono ad un'ampia gamma di forme di flessibilità. Quelle più evidenti riguardano il mercato del lavoro che assume una struttura centrale sempre più ristretta di occupazione stabile e, via via che ci si allontana dal centro, sempre più ampie cerchie di lavori temporanei, subappaltati in una catena lunghissima di delocalizzazioni. Questa struttura del mercato del lavoro permette di combinare modi altamente tecnologici di estrazione del plusvalore e modi antichi. Infatti nella sfera centrale del mercato, dove è collocata una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato, l'acquisizione di plusvalore non è direttamente legata alla durata della giornata lavorativa. Via via che si scende nella catena della flessibilità di assiste alla diffusa rinascita di sistemi di lavoro in cui è possibile estendere l'orario della giornata lavorativa e forme di sfruttamento sul modello dell'accumulazione originaria.

Inoltre l'abnorme finanziarizzazione dell'economia permette non solo un'accumulazione che non passa attraverso la produzione di merci, e quindi di lavoro, ma è anche un'ulteriore, ed assai importante, spinta alla velocizzazione dei tempi di tutte le forme di flessibilità.

Ecco, a mio parere, questo insieme problematico deve essere al centro tanto della riflessione che dell'iniziativa politica della nostra sinistra. Non è un compito facile, ma al di fuori di questo percorso, che non avrà tempi brevi, si perde davvero il senso della politica per chi intende davvero essere l'erede della storia del movimento operaio.

 

 

Pubblicato in Società
Martedì, 26 Luglio 2016 00:00

Apocalissi queer - parte II

Leggi qui la prima parte

In tutta la società organizzata sulla riproduttività eterosessuale, la negatività di un sesso non riproduttivo viene caricata sulle spalle dei soggetti queer che non possono essere “redenti” da alcun fine riproduttivo, in particolare i rapporti anali, che suscitano disgusto perché rappresentano un’abdicazione del maschio alla sua virilità e alla sua sovranità. Quindi abbiamo, da una parte, i soggetti queer che cercano la propria “redenzione” nel riconoscimento dei diritti civili (matrimonio, adozione) e quindi l’inclusione nel modello di società liberale, dall’altra abbiamo queste teorie che invitano a restare ancorati alla propria specifica “negatività” che non può venire “redenta” dai diritti matrimoniali, civili e che non cerca l’assimilazione e l’integrazione in questo tipo di società, anzi “il valore della sessualità stessa è di umiliare la serietà degli sforzi di redimerla1.

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La Brexit e la crisi della narrazione politica della sinistra

L'egemonia che la destra ha avuto sul dibattito attorno alla Brexit obbliga ancora una volta a chiedersi quale possa essere il ruolo storico della sinistra nel Vecchio Continente. Le difficoltà elettorali e identitarie del Labour Britannico non bastano infatti a spiegare la quasi totale estraneità di una narrazione di sinistra rispetto ai pro e i contro di rimanere in Europa. Se forse è esagerato affermare che il referendum sia stato semplicemente il prodotto di una bega interna al partito conservatore, appare evidente come le destre abbiano completamente monopolizzato la discussione politica riducendola a due posizioni alternative chiare e semplici(stiche): da una parte chi, come Cameron, vuole una Gran Bretagna in Europa per i vantaggi che ne derivano dalla libertà di movimento di merci e capitali e dall'integrazione dei mercati finanziari, e dall'altra chi, come Boris Johnson e Farage, rivendica un Regno Unito indipendente da scelte eterodirette e in grado di esercitare in pieno la propria sovranità.

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Mercoledì, 22 Giugno 2016 00:00

Fascismo ed antifascismo

Fascismo ed antifascismo

In Austria, al recente ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica, il candidato che non fa mistero di avere simpatie nazionalsocialiste ha preso la metà dei voti espressi, tra l’altro è stata registrata un’alta affluenza. Le analisi del voto hanno evidenziato che il 75% dei lavoratori manuali hanno votato per l’estrema destra; se guardiamo altri significativi esempi in giro per l’Europa siamo oltre il segnale d’allarme, prossimamente governeranno ampie aree strategiche; in Francia recentemente le zone tradizionalmente rosse hanno votato il fronte nazionale (tra l’altro mi piacerebbe capire in che misura lo stesso Fronte Nazionale si rapporta con l’attuale mobilitazione sociale in Francia, personalmente non ho strumenti conoscitivi).

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Nuove eutanasie sociali ai tempi dell'economia politica della vita

La stretta connessione fra politiche di austerità e incremento della mortalità non è più solo una congettura. Che il taglio dei servizi pubblici e dei sistemi assistenziali di stato, secondo la logica neoliberista dell'"efficienza", della "razionalizzazione" e dello "Stato minimo", abbia significativamente contribuito ad accrescere il tasso di mortalità in molti paesi occidentali e sviluppati è ormai un fatto conosciuto e un dato consolidato.

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Intervista di Dmitrij Palagi a Giovanni Mazzetti

1) In un articolo dell'inserto economico di la Repubblica (lo trovi qui) si parla del "capitalismo del web" come della "vera rivoluzione". In tedesco viene definita Plattform- Kapitalismus, in inglese Share Economy. Chi si oppone a questo nuovo modello viene chiamato "conservatore" e additato come persona fuori dalla storia. Eppure in questo meccanismo ogni pezzo della nostra vita diventa merce e non esiste alcuna regola al di fuori di quelle del mercato. Di nuovo torna l'elogio della flessibilità, come se questa non si fosse rivelata un dramma di precariato ed insicurezza nel recente passato. Come risponderesti ad Alessandro De Nicola, autore del suddetto articolo?

Direi che De Nicola, e gli altri con i quali fa il corifero, vedono dei cambiamenti senza rendersi conto di che cosa si tratta.  Da come descrive il Plattform Kapitalismus - "un sistema di scambi volontari attraverso il quale una persona mette a disposizione i propri beni per il loro utilizzo parziale da parte di altri attraverso una piattaforma web gestita da un'organizzazione o un'impresa" descrive un’evoluzione del sistema in modo apologetico, invece che critico.  Non vede, innanzi tutto, che c'è una forma di parassitismo dell'impresa che crea la piattaforma, la quale preleva una parte dei soldi che passano di mano per il solo fatto di fare da intermediario.  In fondo, dietro a questo sistema non c'è altro che il vecchio commerciante tecnologicamente ripulito.

Tuttavia, in quel "mette a disposizione" c'è una dinamica della quale De Nicola non ha proprio idea.  La società borghese poggia infatti storicamente sul fatto che i beni di ognuno sono sua proprietà esclusiva.  Storicamente chi ospitava a casa sua estranei in cambio di denaro era considerato un “poveraccio”, che non aveva abbastanza per vivere e lo rimediava in quel modo. Ricordo ancora chiaramente gli affittacamere degli anni ’40 e ’50 nel mio palazzo, così come ricordo delle famiglie che riciclavano i vestiti dismessi dei figli per integrare un misero reddito.  Questo perché alla forma merce della ricchezza si accompagnava normalmente l'uso esclusivo della stessa. Solo i poveri dividevano quel poco che avevano in cambio di denaro, ma lo facevano perché costretti dalla loro povertà.  È fuori di dubbio che, se il buon Adam (personaggio della “parabola” apologetica del De Nicola, avesse i soldi agirebbe in tutt'altra maniera, e cioè  noleggerebbe una macchina o prenderebbe un taxi invece di doversi rivolgere a quello che fino a ieri era considerato un abusivo; invece di andare a casa di una "deliziosa"(?) vecchietta a mangiare, andrebbe in un buon ristorante; invece di noleggiare uno smoking, che magari gli andrà largo o stretto, lo avrebbe comperato; invece di affittare una casa per tre giorni sarebbe andato in albergo. L’ignorare che la condivisione per necessità è una manifestazione di povertà, può derivare solo da una forma apologetica di pensiero, che raccolta la vita in maniera favolistica. Gli individui che non possono soddisfare i loro bisogni sono costretti a muoversi entro limiti che mettono in discussione la loro proprietà (privata), e poiché gli intermediari capitalisti creano le condizioni tecniche della riuscita di questo regresso, De Nicola e gli altri la incensano come “libertà rivoluzionaria”.

La mistificazione sta, dunque, nel far apparire questa necessità come una libertà. Nel rappresentarla addirittura come un potere nuovo, che “rivoluzionerebbe” lo stato di cose esistente. Qui bisogna procedere con circospezione. È vero che questa forma di condivisione mercantile di momenti della vita e della cose rappresenta un’ulteriore socializzazione delle condizioni dell’esistenza. Ma il fatto che intervenga in forma capovolta, cioè sulla base dei rapporti capitalistici, la determina come un’evoluzione profondamente contraddittoria. Per spiegarmi meglio. Un passaggio del genere è già intervenuto nella storia dell’umanità. Come forse sai, nel Seicento e nel Settecento, molti borghesi in ascesa cercavano di affermare il loro potere – potenzialmente nuovo – con l’accesso alle forme del potere preesistenti. Vale a dire che chiedevano di entrare a far parte della nobiltà. Non si rendevano conto che il tal modo confermavano proprio quei rapporti dai quali cercavano di emanciparsi. Ma quando, a fine Settecento, riconobbero il loro errore, mossero in direzione opposta, abolendo i titoli nobiliari come forme del potere sociale, e rivendicando l’eguaglianza di tutti gli individui. Ora, questa “condivisione mercantile della vita e dei beni svolge un ruolo analogo a quella della rivendicazione dei titoli nobiliari da parte dei borghesi: riproduzione di un abbozzo del nuovo in una forma vecchia che lo contraddice.
Purtroppo mancano oggi i soggetti capaci di sperimentare la contraddittorietà di questa evoluzione, e sta a quei pochi che conservano un approccio critico alle forme di vita, socializzare la loro esperienza.

In una precedente intervista ci avevi spiegato come separare la questione del reddito dal tema del lavoro sia funzionale all'impedirci di pensare ai modi di produzione. Su Il Becco abbiamo tentato spesso di andare oltre il dibattito sul reddito di cittadinanza, provando a guardare a una nuova proposta di società. Tu credi che per poter ipotizzare nuovi modelli economici si debbano recuperare Marx e Keynes?

Marx e Keynes sono i pensatori che più di altri hanno saputo anticipare la dinamica insita nei rapporti sociali capitalistici e del livello ai quali sono giunti oggi. E siccome sarebbe ingenuo sperare di poter procedere da zero, ad essi dobbiamo far riferimento. È però importante distinguere il pensiero dei due autori, da quello di molti seguaci che si sono susseguiti nel tempo.
Come per il resto dei problemi sociali dei quali si nega la complessità, il pensiero di Marx e di Keynes, è stato spesso banalizzato, sia dagli avversari che dai seguaci. Quanti keynesiani oggi insistono che le vecchie politiche keynesiane dovrebbero consentirci di riprendere la strada della crescita! Ma entrambi gli autori hanno sottolineato che quando sopravviene una crisi è illusorio pensare di poter affrontare i problemi ferma restando la struttura delle relazioni sociali. La crisi corrisponde infatti al disgregarsi della forma di vita data, per l’inadeguatezza della cultura nella quale si concretizza. Certo, si tratta di un compito immane, che però non può essere evitato. Ma credo che la maggior parte dei keynesiani non abbiamo alcuna idea di che cosa possa trattarsi. Ma anche molti sedicenti marxisti, rimasticano vecchie categorie, che indubbiamente erano adeguate per le lotte del passato, ma che ornai non sono più all’altezza del mondo che abbiamo creato.

In un recente libro-intervista di Carlo Formenti e Fausto Bertinotti la crisi della socialdemocrazia è direttamente collegata alla fine dell'esperienza del socialismo reale e al mutamento sociale che ha sgretolato ogni classica forma di rappresentanza, anche sindacale. Le speranze si rivolgono ai movimenti dal basso e a chi spesso guarda ad un paradigma alto-basso sostitutivo di quello destra-sinistra. Sindacati e partiti appaiono strumenti superati. Tu che ne pensi?

Non credo che sia stata “la fine del socialismo reale” a determinare “lo sgretolamento di ogni forma classica di rappresentanza”. È piuttosto che il mondo è cambiato così profondamente, in conseguenza del raggiungimento degli obiettivi che in maniera solo parzialmente consapevole la società ha perseguito che rende i preesistenti rappresentanti non all’altezza dei nuovi problemi. Se si prova a spiegare ad un sindacalista o a un politico che, come avevano previsto sia Marx che Keynes, è emersa “una difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato” e li vedrai letteralmente scappare. Si tratta di un problema che per loro è impensabile – e lo è stato anche per Bertinotti, che in un congresso di Rifondazione ha sostenuto che si trattava di un’emerita bufala. Ma se il riconoscimento dell’emergere di questa difficoltà si frappone alla rappresentazione di qualsiasi sviluppo alternativo, è ovvio che chi pretende di rappresentare i bisogni della società finisca col mostrare una totale impotenza. E prima o poi non venga più ascoltato.

Trovo l’idea di un movimento salvifico “dal basso” una vera e propria trappola. Per concepirla bisogna avere un’idea del tutto distorta della situazione in cui ci troviamo. Vale a dire che le classi dominanti non andrebbero incontro ai bisogni delle masse per opportunismo o per cattiveria. Ma nella realtà le classi dominanti sono travolte da una totale incomprensione della crisi. Tuttavia le classi subalterne non sanno esprimere i loro bisogni e la loro condizione contraddittoria meglio di loro. Mi trovo continuamente a discutere sulle questioni previdenziali, con compagni molto schierati e critici. Eppure, scava scava, e ti trovi di fronte a forme di pensiero che non hanno nulla di alternativo rispetto al demente senso comune oggi prevalente. Non dimentichiamo che quando è stato investito da Napolitano del compito di formare il governo, Monti aveva il gradimento positivo di circa il 70% degli italiani.
Temo che prima di porre il problema di chi rappresenta coerentemente i bisogni sociali si debba ancora lavorare a dipanare la matassa della costruzione di una cultura alternativa. Non è detto che poi non si riesca ad organizzare il movimento in una forma partitica (profondamente diversa da quella attuale) e a trovare lo spazio per agire sindacalmente.

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Neoliberismo, Postmodernità e metamorfosi della Sinistra
recensione del libro L'immagine Sinistra della Globalizzazione

La situazione della sinistra in tutto il mondo occidentale è disastrosa. La profonda crisi in cui versa, non è solo elettorale ma anche e sopratutto identitaria e ideologica. A fronte di una vasta gamma di riferimenti culturali e simbolici, la sinistra non sembra essere riuscita a "elaborare il lutto" della caduta del muro di Berlino schiacciandosi su posizioni sempre più moderate e in linea con le regole del sistema politico liberal-democratico e di quello economico liberista.

Pubblicato in Sinistre

Se si cerca una lettura per sfrondare tutta la retorica accumulata negli scorsi anni anche a sinistra attorno a concetti importanti ma fumosi e ancora poco chiari quali “globalizzazione”, “finanziarizzazione” e “deindustrializzazione” il saggio di Domenico Moro “Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare ed euro”, Imprimatur 2015, euro 16,00 è assolutamente imprescindibile.

Pubblicato in Società
Mercoledì, 02 Marzo 2016 00:00

Sgomberare e sfruttare. A Calais come qui.

Sgomberare e sfruttare. A Calais come qui.

400.000 lavoratori sfruttati nei campi a 2,50 euro l'ora per 12 ore giornaliere, con tanto di pagamento dei costi di trasporto sui luoghi di lavoro e affitto delle baracche, in condizioni abitative, sanitarie e umane al limite della sopravvivenza (clicca qui). La notizia delle condizioni di lavoro di queste persone è arrivata il giorno in cui era programmato lo sgombero di oltre metà del campo di Calais (in foto), ribattezzato "giungla" dal gergo giornalistico che ha dunque già ridotto a subumani i suoi abitanti.

Per quantificare questo esercito di riserva che i capitalisti attraggono e gli Stati accolgono così confortevolmente lasciandolo alla mercé di padroni sempre più vicini allo status di schiavisti potete prendere come unità di misura proprio l'accampamento di Calais. Un campo che è diventato il modello di chi vuole le ruspe sugli abusivi come sfogatoio legalitario-politico e di un'Europa che disegna l'immigrazione come una piaga biblica da cui difendersi, il Belgio stesso d'altra parte ha ripristinato i controlli alla frontiera francese non appena è venuto a conoscenza dell'intenzione di disperdere i migranti accampati.

Questo campo del resto assomiglia ai tanti sparsi per l'Italia e presi di mira dalla destra nazionalista. La retorica, ormai è risaputo nella politica che abbiamo davanti, fa il resto. Ecco quindi che proprio nella Francia dei Je Suis Charlie lo sgombero di un accampamento di migranti diventa nientemeno un'"operazione umanitaria". Ma si sa, i francesi erano umanitari pure nelle loro colonie, non sanno limitarsi ad un intervento singolo, l'estetica dell'atto (reazionario) a loro non piace, son ben più pratici e metodici. Quindi, facendo un rapido riepilogo degli ultimi interventi umanitari sul campo di concentramento di Calais da parte delle forze dell'ordine francesi, si possono contare all'incirca una ventina di operazioni con cadenza quasi settimanale che hanno portato a ridurre il numero della popolazione dagli 8000 di novembre ai 6000 attuali. Ovviamente le immagini degli sgomberi delle tendopoli e delle baracche non sono edificanti per la retorica democratica, quindi raramente vediamo le immagini sui mass media. Tantomeno veniamo a conoscenza delle bastonature.

Tuttavia, negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di Brexit e nonostante si parlasse quasi solo più della mobilità dei capitali da e verso la city, a quanto pare le persone contavano ancora. Infatti il vero spirito europeista è emerso immediatamente quando il Presidente inglese ha annunciato trionfante l'accordo anti-Brexit con un solidale "abbiamo riconquistato il controllo sulle frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che sfruttano il nostro sistema di welfare". E se gli europei abusano del sistema di tutele britannico, che è noto dai tempi della lady di ferro per essere il meno esteso in Europa, pensate un po' cosa potrebbero fare le orde barbariche accampate a Calais! Ben altri epiteti di ben più antica memoria rispetto a quelli austeritari sarebbero spuntati dalla civilissima dialettica anglo-europea. Poi si è venuto a sapere che in realtà l'obiettivo era la fusione tra quelle che un tempo erano le due più grandi piazze d'affari dopo Wall Street e che oggi devono essere unificate in un'unica grande Borsa europea e l'entusiasmo dell'ideale europeista è svanito e si è tornati agli affari.

Ebbene, tornando invece al problema migranti che nel campo di Calais giustamente sconvolge le ultime coscienze democratiche rimaste in Europa che si preoccupano dell'ultimatum annunciato dal governo francese si scopre che, se si volesse per scrupolo misurare questo esercito di riserva che lavora quotidianamente nell'Italia del post-Expo in fase di ritorno alla pastorizia come unica alternativa programmata alla deindustrializzazione, dovremmo moltiplicare per 66 la popolazione del campo e distribuirla nelle campagne da Nord a Sud e concentrarla in particolare nelle cascine più industrializzate del Made in Italy di qualità. Si scoprirebbe così che l'80% dei lavoratori del settore agorindustriale è composto da manodopera straniera sottoposta a livelli di sfruttamento che l'Occidente benestante aveva dimenticato da oltre un secolo. Lavoratori che sono per lo più intrappolati da un'Europa che non solo ha trasformato i propri confini in barriere naturali contro cui far schiantare popolazioni in fuga, ma che ha iniziato ad erigere barriere materiali sempre più diffuse e numerose al suo interno. Dapprima generosamente offerte agli stati lungo i quali si snodava il flusso migratorio e ora in voga pure in quelli virtuosi come l'Austria.

Ed ecco che, un'altra volta, il destino della Grecia, in procinto di essere circondata dai recinti, sembra diventare sempre più un destino comune al netto delle ultime mosse dell'Austria e della Francia (giusto per non dimenticarci gli involucri umani avvolti nei teli antigelo a Ventimiglia). E questi 400.000 reietti del mondo del lavoro, che neppure la destra osa attaccare più di tanto per le evidenti convenienze, vengono semplicemente dimenticati e lasciati galleggiare o annegare a seconda della forza rimasta ai singoli in un altro mare, fatto questa volta di lavoro, salario e condizioni socio-sanitarie inumane, proprio come a Calais, solo che qui nessun magistrato si sdegna più di tanto e pochi giornalisti vi affluiscono. Vuoi vedere che forse è questa la ragione per cui è meglio evitare le grandi concentrazioni? Oggi abbiamo l'equivalente di 66 campi come quello di Calais, di lavoro questa volta e non di concentramento, dislocati in tutta Italia, ma nessuno li vede. Escono rapporti che presto cadono nel dimenticatoio. Un bel paradosso che tuttavia non fa altro che rappresentare l'economia capitalista in cui la forza-lavoro si vende e si compra liberamente sul mercato, ormai quasi tutto nero. Sarà difficile ottenere maggior flessibilità e produttività di così, ma senz'altro questo limite resta un obiettivo politico da abbattere da parte di chi ci governa, possiamo scommetterci. Si assume esattamente quel paradigma per erodere i diritti rimasti: una maggiore produttività, un minor salario, incrementi di merci vendibili e acquistabili sul mercato. Così esattamente come Cameron individua negli europei in Inghilterra degli indebiti sfruttatori del welfare inglese ridotto all'osso nonostante gli incrementi dei livelli di sfruttamento, oggi possiamo vedere il volto degli indebiti sfruttatori del nostro welfare in qualcun altro, purché non sia identificabile nel padrone ma in un altro il più possibile simile a noi e in quest'ottica rimane ancora molto da erodere: a livello sanitario, abitativo, salariale. Cameron lo sa bene, resta da vedere se quanti festeggiano per gli sgomberi a Calais l'hanno capito.

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