Giovedì, 03 Marzo 2016 00:00

Globalizzazione e decadenza industriale: un saggio di Domenico Moro

Scritto da
Vota questo articolo
(0 Voti)

Se si cerca una lettura per sfrondare tutta la retorica accumulata negli scorsi anni anche a sinistra attorno a concetti importanti ma fumosi e ancora poco chiari quali “globalizzazione”, “finanziarizzazione” e “deindustrializzazione” il saggio di Domenico Moro “Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare ed euro”, Imprimatur 2015, euro 16,00 è assolutamente imprescindibile.

L'inquadramento della situazione economica globale alle porte dell'ormai ottavo anno di crisi è in esame secondo i più rigorosi canoni marxiani che inquadrano la globalizzazione dei mercati all'interno delle necessità di accumulazione del capitale, il quale ridisegna tramite le delocalizzazioni una nuova divisione internazionale del lavoro. In questa riorganizzazione del modo di produzione capitalistico, iniziata a metà degli anni '70 sostanzialmente al fine di frenare la caduta tendenziale del saggio di profitto attraverso una serie di manovre che iniziano ormai a mostrare la corda, viene analizzata una pluralità impressionante di fenomeni complessi e dirompenti come l'esportazione di capitali, la delocalizzazione, la contrazione dei consumi, il debito pubblico, le politiche di austerity, la concentrazione delle imprese, l'attacco al welfare, la compressione dei diritti dei lavoratori e dei salari, la disoccupazione, il depauperamento di masse crescenti di popolazione, la crisi demografica, le migrazioni, il libero scambio e la creazioni di accordi internazionali per favorire l'espansione del capitale (Ttip e Ttp), nonché il ruolo della moneta e in particolare dell'euro e del dollaro. Il tutto è suffragato da ampi riferimenti statistici, tabellari e grafici letti in ottiche comparate. Insomma, un lavoro da leggere, rileggere e studiare, il fermarsi ad una prima lettura sarebbe alquanto riduttivo.

Il più grande merito del saggio è da attribuire alla chiarezza con cui la “crisi secolare” viene ricondotta e saldamente ancorata ai fattori di produzione, per cui anche le crisi finanziarie finiscono per essere nient'altro che “una conseguenza della sovrabbondanza o sovraccumulazione di capitale produttivo”, ma tale sovrabbondanza è “relativa”, “cioè determinata dalla incapacità delle imprese private a impiegarla profittevolmente”1. Questo contribuisce a spiegare la particolarità della crisi in cui siamo immersi, che non è riconducibile alle classiche crisi cicliche del capitalismo, bensì attraverso “la presenza di persistenti effetti sulla crescita distingue l'ultima crisi finanziaria globale dalle altre crisi2 e il dato che più evidenzia questa particolarità è la divergenza tra economie emergenti e avanzate che risiede nella differenza nella crescita del tasso di investimento. Infatti, se “nelle economie avanzate il calo della crescita del Pil è dovuto soprattutto al decremento della produttività totale dei fattori (Tfp) dallo 0,9 allo 0,5 per cento, causata a sua volta dall'esaurimento dell'effetto propulsivo della Ict e dallo spostamento dei flussi di investimento di capitale dai settori ad alta produttività, come manifattura e Ict, verso settori a bassa produttività e minori investimenti fissi, come i servizi alla persona, i servizi non di mercato, le costruzioni (…) Al contrario, tra 2001 e 2007 nelle economie emergenti si è registrato un aumento della Tfp dal 3,2 al 4,2 per cento, connesso all'incremento del tasso di investimento3. Questi ingenti investimenti di risorse verso settori ad alta produttività e trasferimenti tecnologici hanno comportato l'incremento del capitale accumulato e del capitale fisso con conseguenze negative sul livello globale della crescita economica. Uno dei motivi per leggere e studiare il saggio di Moro è anche l'attenta riconduzione dell'analisi alla composizione organica del capitale, data dal rapporto tra capitale variabile (da cui estrarre il plusvalore) e capitale costante (il cui valore non si riproduce ma resta intrappolato all'interno della forma merce). L'aumento della composizione organica del capitale è dato dall'incremento del capitale costante sul capitale totale, questo meccanismo implica la caduta tendenziale del saggio di profitto (dato dalla formula Sp=Pv/Cc+Cv) e la conseguente difficoltà dei capitali in eccesso di rivalorizzarsi e quindi ecco manifestarsi le crisi da sovrapproduzione in cui siamo intrappolati. Il vantaggio di questo ritorno all'analisi marxiana è che con essa e solo con essa ci si svincola dall'analisi keynesiana che tende a concentrarsi sui fattori della domanda e del consumo non addentrandosi all'interno dei meccanismi che muovono la produzione capitalistica.

Nelle pagine centrali del volume (da pagina 95 a 119) l'autore passa in rassegna quelli che sono i “principali fattori antagonistici che frenano o annullano la caduta tendenziale del saggio di profitto”, ossia: a)l'aumento del grado di sfruttamento del lavoro, da cui discende un aumento del saggio di plusvalore; b) la riduzione del salario al di sotto del suo valore, a cui sono riconducibili una variabilità di fenomeni relativi alla disoccupazione e alla sottoccupazione; c) la diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, che consente di prendere in considerazione gli effetti positivi dell'allargamento di mercato per il capitale d) la sovrappopolazione relativa, cioè la formazione di un esercito industriale di riserva che viene scagliato contro la popolazione salariata con le varie riforme del mercato del lavoro che contribuiscono ad aumentare la competizione e la produttività dei lavoratori da cui estrarre maggior plusvalore e) l'aumento del capitale azionario, ossia capitali che fuoriescono dal livellamento del saggio medio di profitto per cercare maggior valorizzazione altrove; f) il commercio estero che viene definito come “il più importante fattore di controtendenza alla caduta del saggio di profitto”4 ed è composto dall'esportazione di merci e di capitali, tramite questi due elementi non solo le economie avanzate si sono mosse verso un modello di tipo neomercantilista (vedi la Germania) incrementando i divari economici all'interno delle aree in competizione per conquistarsi nuove fette di mercato nell'export, ma tramite l'esportazione di capitali si è persino generata una nuova fase all'interno dell'imperialismo in cui l'investimento che procede “dai Paesi a maggiore sviluppo capitalistico e con composizione organica più elevata verso i Paesi a minore sviluppo capitalistico e con composizione organica più bassa”5 è rivolto a “sfruttare l'esercito di riserva industriale su di una scala mondiale, beneficiando di salari più bassi dei Paesi arretrati e periferici dell'economia capitalistica”6. I richiami dell'autore ai vari intrecci che si vengono a delineare all'interno dei flussi di capitale che possono avvenire anche da Paesi sviluppati verso altri Paesi sviluppati, come da Paesi emergenti verso Paesi sviluppati (ad es. dalla Cina verso altri paesi asiatici o dai produttori di petrolio verso l'Italia), mostrano sia la maggior pervasività dell'imperialismo moderno rispetto a quello analizzato da Lenin, ma anche un maggior tasso di conflittualità.

Infine il saggio si focalizza sulla situazione europea e italiana, rintracciando i motivi della profondità della crisi italiana nella “applicazione più decisa che altrove dei fattori antagonistici dalla caduta del saggio di profitto7, individuando come fattori specifici della crisi italiana: 1) un livello più massiccio che altrove di privatizzazioni di imprese statali che erano all'avanguardia tecnologica (es. Telecom e Alfa Romeo); 2) Politiche di bilancio più restrittive che altrove, a partire all'epoca del governo Amato, e che si sono accentuate dopo la crisi dell'euro, con Monti e i governi a esso succedutisi; 3)    Un impatto dell'euro maggiore che altrove sulla produzione manifatturiera; 4) Una crescita più forte di altri Paesi delle esportazioni di capitale (soprattutto in settori labour intensive); 5) Una maggiore riduzione degli investimenti fissi (del 30,4% tra 2007 e 2014, mentre la media nell'area euro è del 15,1%), a causa del forte calo della profittabilità8.

L'analisi di Moro, puntualissima dal punto di vista statistico, riporta l'andamento della forza-lavoro impiegata nella manifattura in confronto agli investimenti fissi e rivela come in Italia dal 1999 al 2007 a fronte di un aumento del 20% degli investimenti fissi vi sia stata una contrazione della forza-lavoro in Ula del 1,4% (unità di lavoro, ossia numero di posizioni di lavoro ricondotte a misure standard a tempo pieno), mentre tra il 2007 e il 2014 a fronte di una contrazione degli investimenti del 21,1% la contrazione della forza-lavoro in Ula sia arrivata addirittura al 19,9%. La tesi sostenuta dall'autore è che negli anni precedenti alla crisi finanziaria l'aumento della composizione organica di capitale nella manifattura italiana abbia operato fortemente. Si tratterebbe quindi di una “riorganizzazione dell'accumulazione capitalistica in Italia, attraverso una trasformazione della produzione e della struttura delle imprese. Una riorganizzazione che è coerente con le trasformazioni dovute al passaggio da una fase nazionale a una fase compiutamente globalizzata. La riduzione della produzione, del numero di imprese, dell'occupazione industriale e dei salari non è dovuta al mancato adeguamento alla globalizzazione, ma paradossalmente proprio all'adattamento alle trasformazioni in atto dovute all'intreccio di crisi e globalizzazione”9. Fondamentale in un'operazione riorganizzativa di tale portata è la sponda statale, che non può più agire come prima. Infatti, se le imprese puntano alla creazione di economie di scala sempre più grandi, con la conseguente spinta alla concentrazione e alla delocalizzazione a livello internazionale, l'abbattimento delle barriere agli spostamenti di capitale diventa un fattore imprescindibile. Ecco diventare decisivo il ridimensionamento del settore pubblico dell'economia e del debito statale. Come scrive l'autore “bisogna direzionare verso i mercati finanziari e le imprese l'imponente flusso di risparmio nazionale che va a finanziare il settore pubblico statale”10. Parallelamente ci viene spiegato anche il fallimento delle politiche keynesiane dovuto a due fattori: a) le imprese globalizzate non hanno più interesse nel mercato nazionale, avendo come prospettiva il mercato internazionale, b) le imprese globalizzate non hanno interesse in politiche di carattere espansivo, che anzi vedono con sfavore perché i debiti pubblici sottraggono capitali, né hanno interesse alla crescita economica, perché i loro profitti derivano non dalle dimensioni della domanda aggregata nazionale ma dalle innovazioni tecnologiche e dalle gigantesche economie di scala11. Quindi abbiamo di fronte un contesto in cui “gli Stati competono tra loro per attrarre le multinazionali sia attraverso partecipazioni finanziarie (…) sia attraverso la fiscalità12. È un concetto particolarmente autodistruttivo di concepire la politica economica, ma acquista un senso compiuto solamente se ci si pone nell'ottica della realizzazione del profitto come unico fine e si abbandona ogni residuo di giustizia sociale così come venne concepito nelle democrazie nate nel secondo dopoguerra. In particolare si arriva a sostenere artificialmente l'economia con i vari Qe senza mai arrivare a ristabilire le condizioni di crescita precedenti alla crisi, anche a costo di indurre un ulteriore aumento dell'instabilità finanziaria ed economica. Tuttavia, quello che non bisogna dimenticare, se non si vuol perdere il bandolo economico della matassa che ci si dipana davanti è che “la radice del problema evidentemente non sta nella finanziarizzazione, ma nei meccanismi dell'accumulazione di capitale. Del resto, la stessa finanziarizzazione, è legata storicamente alla fine della convertibilità del dollaro con l'oro (1971)”13.

Anche l'euro in questo senso viene identificato come “leva strategica del capitale europeo per realizzare la riorganizzazione dell'accumulazione capitalistica coerentemente con le trasformazioni della globalizzazione e per permettere il pieno dispiegamento dei fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto”14.
Infine, nell'ultimo capitolo Moro tenta di delineare delle possibili soluzioni, mostrando come il capitale abbia reso palese il suo limite storico, ossia la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione basati sul profitto. L'alternativa viene identificata in un ritorno alla pianificazione e alla programmazione dello sviluppo economico, in cui il governo lavori finalmente in funzione del benessere delle masse.

1 D. Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, p.43
2 Ibidem, pp. 48-49
3 Ibidem p. 48
4 Ibidem, p.106
5 Ibidem, p.113
6 Ibidem, pp.113-114
7 Ibidem, p.202
8 Ibidem, pp. 205-206
9 Ibidem, pp.209-210
10 Ibidem, p.217
11 Cfr. p. 217
12 Ibidem, p.225
13 Ibidem, p.231
14 Ibidem, p. 218, Tratto da: D. Moro, Perché e come l'euro va eliminato, in Rete “Noi saremo tutto” (a cura di) Exit Strategy. Come rompere la gabbia dell'Unione Europea, Bordeaux, Roma 2014

Ultima modifica il Mercoledì, 02 Marzo 2016 12:08
Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.