Non stiamo solo parlando di qualche caso specifico, come quel gigantesco laboratorio di dogmatismo neoliberista a cielo aperto, conosciuto con il nome di Grecia, dove il collasso del sistema sanitario e previdenziale ha portato a un drammatico calo della speranza di vita, realizzando la forma più compiuta di genocidio sociale contemporaneo. Anche istituti di ricerca di Paesi considerati più stabili, come Spagna, Italia o Gran Bretagna hanno tutti, dati alla mano, constatato una crescita nei decessi che non può essere semplicemente collegata all'invecchiamento della popolazione ma che ha stretti legami col peggioramento delle condizioni di vita, soprattutto nelle fasce sociali più deboli. A essere colpiti sono in particolare gli anziani meno abbienti che hanno pagato a durissimo prezzo le riforme pensionistiche e i tagli alla sanità1.
Si torna a morire prima dunque e questo potrebbe apparire, in un certo senso, un fatto rivoluzionario: sin dagli albori della società mercantile e tecno-scientifica, fatto salvo per le parentesi dei grandi conflitti armati, il mondo occidentale aveva conosciuto una lunghissima fase di progressivo incremento della speranza di vita e di conseguente diminuzione dei tassi di mortalità, processo che ha raggiunto il suo apice con la società del benessere del welfare state assicurativo. Sottesa a questa dinamica era una logica dell'accumulazione: come il capitale, anche la vita era una risorsa che doveva essere estesa il più (a lungo) possibile.
Assumendo così nella modernità un valore non solo nell'ambito etico ma anche in quello dell'economia politica, la vita diventa un capitale che l'individuo deve poter accumulare e accrescere il più possibile nel tempo. Una metafora pessimistica di questo processo di mercificazione è presente nel film distopico del 2015 "Jupiter Ascending" dei fratelli Wachowski, dove una aristocrazia galattica ha vinto la morte grazie alla più preziosa delle risorse: un siero della giovinezza ricavato dal DNA di milioni di esseri umani che vengono sterminati quando è l'ora della "raccolta".
Questa sfida incessante e questo sforzo sovraumano per allungare sempre di più il limite dell'esistenza si è avvalso anche di un sapere medico-scientifico che ha interpretato il corpo umano nella sua materialità e la morte come oblio, vuoto e capolinea eterno. Il morire perde definitivamente i suoi significati sociali e culturali tradizionali, smette di assumere i connotati di familiarità e di normalità all'interno di una data comunità per caratterizzarsi come il nonsenso della vita, alimentando così nuove forme di angosce e di inquietudini.
Il prezzo da pagare per l’incremento dell’aspettativa di vita e il miglioramento generalizzato delle condizioni igienico-sanitarie è l’incapacità di dare un senso alla morte. Come afferma il filosofo francese Jean Baudrillard «abolire la morte è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni […] nessun’altra cultura conosce questa opposizione distintiva della vita e della morte a vantaggio della vita come positività: la vita come accumulazione, la morte come scadenza».
Nel mondo contemporaneo questi aspetti sembrano essersi radicalizzati. La nostra cultura razionalista non ha strumenti per dare spiegazioni e offrire sollievo di fronte alla morte. Viviamo piuttosto in una società che cerca disperatamente di escludere la morte dal suo orizzonte percettivo. La morte diventa un tabù, parlarne è uno scandalo, oppure fa ridere ma di un riso forzato e osceno. Nella postmodernità morte e sessualità si sono capovolte: la prima si è svincolata da tutte le concezione puritane che relegavano il suo discorso fuori dalla sfera pubblica, la seconda viene messa all'indice. «La società "liberando" la sessualità, la sostituisce progressivamente con la morte nella funzione di rito segreto e di interdetto fondamentale».
Ma il tentativo disperato di espellere, nascondere, occultare, escludere la morte dalla nostra società crea l'effetto opposto. Ormai circoscritta a pochi (non)luoghi ad hoc come i cimiteri, sempre più lontani dai centri abitati, e agli ospedali, sempre più asettici, la morte risorge ovunque. Come con la deindustrializzazione l'abbandono delle fabbriche ha significato la diffusione delle logiche aziendali e della produttività in ogni sfera della società, così la morte, interdetta dalla società e rimossa dalla coscienza individuale risuscita in ogni dove. Gli enormi grattacieli in vetro e acciaio, le sconfinate megalopoli, i grandi sistemi informatici, i giganteschi centri di ricerca, nascondono tutti il sogno di archiviare il mondo intero. Tutto diventa un'immensa necropoli dove si vuole cristallizzare e congelare l'umanità stessa, ormai ridotta a vuoto oggetto di contemplazione per se stessa. Nella speranza che qualche generazione futuro ci ritrovi e ci ricordi. «Contro il nostro sogno di perdere tutto, di obliare tutto, eleviamo una muraglia inversa di relazioni, di connessioni, di informazioni, una memoria artificiale densa e inestricabile, e ci seppelliamo vivi all'intero di questa speranza fossile di essere riscoperti un giorno».
L'altra faccia della stessa medaglia è l'emergere di una "società terapeutica", caratterizzata da un'attenzione maniacale per l'igiene, il pulito, il benessere fisico, il cibo salutare. Si tratta di un modo individualizzato e ossessivo di intendere la sicurezza che ha poco a che vedere con quello sperimentato nel corso del Novecento e in maniera diversa coi sistemi di Welfare in occidente e con i sistemi socialisti dall'altra parte della cortina di ferro. La concezione di sicurezza postmoderna è quello di un micro-sistema individualizzato, asettico e sterilizzato. La vita si riduce a una serie di scelte di consumo sicuro, salutare, igienico: anche in questo caso però la morte è ovunque, perché - e qui sta il paradosso - finiamo per rinchiuderci entro una serie sempre più ampia e sofisticata di involucri protetti, entro un vero e proprio sarcofago (sicuro, salutare, igienico) per sfuggire alla malattia e alla morte.
La nostra società che nel tentativo di esorcizzare la morte, la fa riapparire ovunque, finisce inghiottita da una dialettica negativa perversa. Più proviamo ad accumulare vita (collettivamente spingendo in avanti il progresso scientifico, individualmente ricorrendo a stili di vita salutari) più finiamo inghiottiti dall’angoscia della morte. Se è vero che la società dell’abbondanza è quella che produce socialmente la scarsità perché non è mai sazia, così il tentativo di ampliare i limiti dell’esistenza genera quella scarsità assoluta di tempo che è la morte. Non si è mai pronti a morire: si può essere stufi delle vita ma mai sazi di essa.
Ad oggi questa razionalità economicista ha raggiunto una situazione di stallo. Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie ha permesso agli stati moderni di reperire in abbondanza e continuamente manodopera in condizioni fisiche sempre migliori, ma ora l’eccessivo invecchiamento della popolazione crea un gigantesco cortocircuito. Se inizialmente l’impegno capitalistico era volto ad allontanare la morte mediante l’accumulazione, ora si rende conto che questo processo ha generato una gigantesco gruppo sociale “improduttivo” e “disfunzionale”. La terza età diventa così un ghetto prima del niente, una mera anticamera di quel gigantesco vuoto che è la fine dell’esistenza. Man mano che i vivi vivono più a lungo, e guadagnano sulla morte, cessano di essere riconosciuti simbolicamente. E questo perché si riserva(va)no notevoli risorse economiche verso questa fascia d’età senza però poterle attribuire un senso, una funzione in società.
Che fra le varie misure di austerità, quelle più pesanti siano andate a colpire gli anziani non deve stupire: allungamento dell’età pensionabile, tagli alla sanità, tagli alle pensioni si situano in una direzione di riorganizzazione funzionale delle stato. Non solo nel senso dei conti pubblici ma anche nel senso che la vecchiaia non può più essere un “asset” su cui investire. E questo perché su di essa si addensano cupe le ombre della morte, con la quale nulla ha più senso. Anche un liberista puro può asserire che la disoccupazione giovanile al 40% sia un grave problema. Ma con la stessa convinzione non avrà difficoltà ad affermare che ili sistemi pensionistici ereditati dagli anni sessanta siano un peso eccessivo per la società. Ancora: è considerare la vita in termini lineari di accumulazione e come un capitale che paradossalmente determina un discredito degli anziani.
Così ancora una volta la morte riappare all’orizzonte. Più il sistema prova a vincerla, più la morte si estende su tutta la società. La crescita dei tassi di mortalità nella popolazione anziana a cui oggi assistiamo non va intesa come l'emergere di una nuova concezione culturale delle morte ma è la cultura moderna stessa dell’oblio e dell’angoscia della morte che alle sue estreme conseguenze, tramite una dialettica negativa, porta il sistema a disfarsi di quel peso sociale che è l’anzianità che, proprio perché prossimo alla morte, ha perso di ogni funzione sociale. Così, eutanasia sociale e valorizzazione della vita sono due caratteristiche delle nostre società solo apparentemente contraddittorie. A legarle è invece la medesima cultura di morte.
1 Per una panoramica generale, uno degli studi più completi è quello di Stuckler ; Basu; McKee (2010) "Budget crises, health, and social welfare programmes" dove viene mostrata una correlazione inversa fra spesa sociale e tutte le varie cause di mortalità (all'aumentare dell'una diminuisce l'altra). In Gran Bretagna una ricerca ha messo in luce come i tagli alla sanità abbiano aumentato idecessi fra gli over 85 (vedi qua), mentre anche in Italia si assiste a un incremento sostanziale della mortalità (vedi qua).
Bibliografia
Ariès P. (1975) Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai Giorni Nostri
Baudrillard J. (1979) Lo Scambio Simbolico e la Morte
Foucault M. (1963) Nascita della Clinica