I primi 14 articoli sono dedicati all’immigrazione e, in particolare, il capo 1 del decreto (articoli 1-6) si occupa di permessi di soggiorno per motivi umanitari e contrasto all’immigrazione irregolare. Qui troviamo il primo controsenso tra quanto propagandato e quanto perseguito con le modifiche normative; capiamo insieme cosa succederà.
Cos’è la protezione umanitaria? È un titolo, introdotto in Italia nel 1998 all’interno del testo unico n. 286/98, con il quale si riconosce un permesso di soggiorno per cittadini stranieri, racchiude tutta una serie di situazioni alla ricorrenza delle quali è possibile riconoscere questo tipo di protezione, si va dalle vittime di tratta, o di grave sfruttamento lavorativo, a chi ha subito violenza domestica, passando poi per i casi in cui il soggetto, pur non avendo i requisiti per vedersi riconosciuta la protezione internazionale si accerti comunque la sussistenza di “gravi motivi di carattere umanitario”. Non a caso infatti venne attivata la misura per eventi eccezionali, con decreto del presidente del consiglio dei ministri nel 2011, in seguito ai primi sbarchi dovuti alle cosiddette primavere arabe.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari era quindi pensato come una clausola generale per rispondere a diverse situazioni bisognose di protezione, o anche per riconoscere il valore di un percorso di integrazione del migrante, qualora non ci fosse margine per il riconoscimento di altri titoli, era infatti in crescita un filone giurisprudenziale che riconosceva questo tipo di protezione sul presupposto della “buona integrazione”.
Con questo decreto questa tipologia di permesso viene implicitamente abrogata, per lasciare spazio ad un ristretto numero di permessi di soggiorno per “casi speciali”, che rischia di far cadere in una condizione di irregolarità le circa 140.000 persone titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, esponendoli al rischio di povertà estrema e marginalità. Inoltre per quanto riguarda questi permessi rilasciati per “casi speciali” quello che preoccupa è l’alta discrezionalità da parte del questore nella concessione e la precarietà delle autorizzazioni, quasi mai rinnovabili o convertibili, il che contribuirà all’aumento di irregolarità e lavoro nero.
Proprio su questo punto vorrei infatti soffermare la mia riflessione: aldilà degli aspetti tecnici, questa disciplina nasce – come lo stesso nome ci fa intendere – su una presunta emergenza legata alla sicurezza, nonostante i dati ci dimostrino come tutti i reati sono in calo, eccetto quelli legati alla violenza di genere (questione che merita però un approfondimento a parte). A questo punto sorge spontaneo chiedersi come l’aumento di irregolari insieme all’incapacità dello Stato di rendere effettive le espulsioni, possa contribuire ad aumentare la sicurezza delle nostre città, perché bisogna essere coscienti che un soggetto, seppur irregolare o overstairs, non smette di esistere e non si volatilizza, semplicemente esce da un circuito regolare (contratto di locazione, contratto di lavoro, dichiarazione dei redditi con conseguente pagamento delle tasse etc) per entrare in un circuito irregolare fatto di case locate senza contratto, lavoro nero, evasione, e via discorrendo.
Quindi l’irregolarità, date le continue e sempre più stringenti modifiche normative, non è una scelta del migrante privo delle volontà di assoggettarsi al nostro sistema normativo, ma è in qualche modo una tappa obbligata, quale che sia l’obiettivo perseguito dal legislatore. Il migrante, recluso in una condizione di irregolarità, correttamente considerata in molti casi come una forma subdola di sequestro di persona, non trovando davanti a sé la “la possibilità generalizzata di una inclusione societaria” (Cvajner, Sciortino, Theorizing Irregular Migration: The control of Spatial Mobility in Differentiated Societies 2012) vedrà sempre più irrealizzabile il suo progetto migratorio; questo, unito al crescente razzismo istituzionale, determina una forma pubblica di esclusione, non da questo o quel diritto, ma dalla possibilità di essere considerati qualcosa di diverso da "forza lavoro".
Infatti, come sostiene De Genova in Working the Boundaries. Race, Space and “illegality” in Mexican Chicago, "È la deportabilità e non la deportazione in sé del lavoro migrante a renderlo una merce diversamente disponibile". La deportabilità insieme alla necessità di salario è la doppia spada di Damocle che pende sulla vita dei migranti, funzionale a mantenerli nelle classi subalterne, ad accettare i lavori più faticosi e mal pagati, senza potersi in qualche modo opporre, pena la deportazione.
Essere migranti significa disporre dello spazio d’azione destinato a lavori duri e mal pagati, disporre dei quadranti di città loro assegnati, gareggiare nella conquista della cittadinanza a punti, in un sistema in cui la cittadinanza stessa (o qualsiasi titolo per permanere legalmente) è usata come strumento per gerarchizzare le possibilità di accesso al welfare, a più ampi diritti e al mercato del lavoro. La condizione della migrazione legale è un dispositivo destinato a regolare i movimenti internazionali di forza lavoro, con lo specifico obiettivo di “aiutare a tenere i poveri al loro posto” (Hindess, Divide and Rule: The International Character of Modern Citizenship, 1998).
A questo punto quindi, posto che per la collettività non c’è nessun vantaggio nel veder aumentare l’immigrazione irregolare, e posto che l’Italia è un paese in cui buona parte dei settori produttivi si regge sullo sfruttamento della manodopera migrante, come nel caso emblematico del cosiddetto caporalato, che va dall’agricoltura al settore edilizio, e considerato infine che la manodopera irregolare si presta bene agli interessi della criminalità organizzata, la considerazione che appare scontata è che la volontà di questo governo sia quella di propagandare maggior sicurezza colpendo il capro espiatorio individuato nei migranti, favorendo però le mafie e i padroni, regalandogli un altro pezzo di manodopera a bassissimo costo.
Immagine di Cino ripresa liberamente da flickr.com