Lunedì, 19 Novembre 2018 00:00

Il decreto sicurezza spiegato in 3 passi: 2. Come trasformare l’accoglienza in detenzione

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«E poi ascoltatevi un po’, mentre vi servite di questa parola, integrazione. Questa parola debole. Come si fa ad essere così maldestri? Guardate com’è rivelatrice di tutta la malafede che c’è in voi. Chiederci di integrarci dopo che siamo qui da due o addirittura da quattro generazioni è una vera presa per il culo. Voi credete che integrandoci riuscirete a domare le periferie, a ridurre la criminalità? Detto fra noi, i francesi amano questa parola, integrazione, perché fa’ credere loro di essere in grado di addomesticarci. Ma noi non siamo animali selvaggi. Lo sapete?… voi avete invertito i ruoli. Non sta a noi fare lo sforzo. È troppo tempo che ci facciamo il culo a spaccare le vostre vecchie strade con il martello pneumatico, ad assemblare i binari dei vostri treni con la fiamma ossidrica o a posare sul cemento le nuove piastrelle del vostro bagno. Non ci integreremo, perché questa parola è ripugnante. Sa di campo di correzione. […] Noi non aspettiamo con finta trepidazione che voi ci accettiate. La vostra integrazione ci fa ridere. È una parola tremenda. Non ci interessa. Noi non ci dobbiamo integrare. Non ci integreremo. Aspetteremo che voi reagiate, che ci vediate come chiunque altro, come uno straniero qualunque, come un francese qualunque.»
(Ahmed Djouder, Disintegrati. Storia corale di una generazione di immigrati, il Saggiatore, Milano.)

Ho scelto questo estratto per introdurre questa seconda riflessione sul decreto Salvini perché è importante partire dalla considerazione che il modello di accoglienza che si realizza è strettamente connesso con l’idea di integrazione. Ma andiamo con ordine per capire cosa cambia e quali sono le implicazioni.

Cosa sono i CAS, Cos’è lo SPRAR, i numeri:
I CAS, o centri di accoglienza straordinaria, sono dei centri considerati di prima accoglienza, insieme ad altre tipologie di centri come gli hub regionali o i CARA, e sono dei centri all’interno dei quali è richiesto di soddisfare le esigenze essenziali come l’avvio della procedura per la domanda di asilo, con annessa informativa e assistenza legale, l’accertamento delle condizioni di salute, la valutazione sulla sussistenza di particolari situazioni di vulnerabilità (stato di salute, psicologico, minore età, etc).

Come recita lo stesso nome di questi centri, questi dovrebbero essere “straordinari” quindi istituiti per far fronte a situazioni eccezionali, ma come spesso accade in Italia, ciò che ormai è ordinario si continua a trattare come un’emergenza, a causa dell’incapacità di chi amministra o governa di pianificare la gestione del fenomeno; a causa di questa condizione quasi la totalità dei richiedenti asilo – il 70% del totale ossia 136.978 persone – si trova nei CAS, che hanno però il limite, essendo funzionali a un’accoglienza di base, di non essere soggetti ad un controllo severo, anche rispetto ai tempi di permanenza che dovrebbero essere di massimo 35 giorni, per evitare fenomeni speculativi da parte degli enti gestori di questi centri (che sono sempre soggetti privati), situazione evidenziata anche dalla Commissione di inchiesta parlamentare sull’accoglienza.

La cosiddetta seconda accoglienza, invece, è formata dalla rete territoriale SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati) che è formata da progetti di enti locali che vi aderiscono volontariamente, insieme agli enti gestori, nei quali di solito sono coinvolti piccoli gruppi di migranti e vi si accedeva una volta esaurita la prima fase di accoglienza (detto concretamente quando si liberava il posto). In tutto il territorio nazionale i progetti SPRAR sono 877 e coinvolgono 1.200 comuni italiani, che ricevono fondi dal ministero dell’interno per occuparsi direttamente dell’accoglienza. Nel 2009 gli SPRAR ospitavano 3000 persone, mentre nel 2018 sono arrivati a ospitarne 35.881.

L’idea fondamentale che ha ispirato questo sistema è stata quella di rendere diffusa l’accoglienza, secondo un principio di solidarietà e condivisione delle responsabilità. Infatti il percorso di accoglienza in questi centri punta in maniera molto più compiuta all’integrazione del migrante: sono previsti corsi di formazione e inserimento lavorativo, corsi di lingua italiana, supporto nella ricerca di un alloggio nel quale andare una volta esaurita l’accoglienza, aiuto nella comprensione del sistema burocratico italiano, dalla procedura di rinnovo di permesso di soggiorno, all’iscrizione al SSN, passando per la compilazione dell’ISEE e così via.

Le differenze fondamentali tra gli SPRAR e i CAS, in sostanza, sono due: a fronte dei finanziamenti identici (i famosi 35 euro al giorno a persona) la qualità dei servizi offerti è nettamente diversa e diverse sono le regole che i due sistemi seguono. Il sistema SPRAR è soggetto a una rendicontazione più severa, offre servizi migliori e percorsi personalizzati per i migranti, ed è gestito dagli enti locali che hanno l’obbligo di spendere tutti i fondi senza poter generare profitti. I CAS, invece, sono gestiti da privati, che ricevono finanziamenti per l’accoglienza ma spesso concentrano i migranti in grandi strutture, nelle quali non sono neanche soddisfatti gli standard minimi dei servizi e non sono previsti percorsi di inserimento lavorativo o di studio per i richiedenti asilo, e non hanno alcun obbligo di rendicontazione delle spese.

Cosa cambierà con il decreto?
Il Sistema per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati (SPRAR), il sistema di accoglienza ordinario che è gestito dai comuni italiani, sarà limitato solo a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori stranieri non accompagnati. Sarà quindi ridimensionato e cambierà nome. Prima del provvedimento, potevano essere accolti in SPRAR sia i richiedenti asilo che i titolari di protezione internazionale; ora il decreto interviene riducendo la platea dei beneficiari solo a chi ha ottenuto la protezione internazionale, ai titolari dei permessi di soggiorno per casi speciali, e ai minori stranieri non accompagnati (richiedenti e non); vengono quindi esclusi i richiedenti asilo, cioè coloro che hanno presentato una domanda e sono in attesa di un responso. Per questo motivo viene modificato anche il nome del progetto: si passa da “Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati” a “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati”.

A questo va aggiunto, anche se non è contenuto nel decreto, il taglio che Salvini prospetta di fare all’accoglienza portando il contributo giornaliero da 35 euro a 20 – a sua detta per combattere speculatori e mafie varie, ma sarà veramente così?

La riduzione dei fondi favorirà la mafia e la trasformazione dell’accoglienza in detenzione in grandi centri.
Come anticipato nelle spiegazioni precedenti, il modo più logico per risolvere il problema della speculazione e della cattiva gestione dei fondi pubblici legati all’accoglienza sarebbe quello di chiudere progressivamente i CAS in favore degli SPRAR, dirottando su questi tutti i fondi disponibili potenziandone i percorsi e i servizi offerti. Quel che invece il ministro Salvini fa è proprio l’opposto, minaccia la rete SPRAR di chiusura, salvo poi fermarsi vista la grande reazione da parte dei sindaci, chiude progetti virtuosi come quello di Riace perseguitando e reprimendo amministratori dalle straordinarie capacità come Mimmo Lucano, e alla fine arriva a tagliare i fondi sbandierando questo provvedimento come un colpo alla mafia.

La verità però è un’altra: con il taglio dei fondi chi chiuderà battenti saranno quelle poche realtà virtuose dell’accoglienza che si impegnano, a fronte di scarse risorse, a garantire un trattamento dignitoso ai propri dipendenti – perché anche se Salvini li chiama volontari quelli che lavorano in accoglienza non lo sono poiché sono dei veri e propri lavoratori – e al contempo a garantire degli standard di accoglienza dignitosi ai loro ospiti. Chi sopravviverà saranno le realtà senza scrupoli, quelle dei grandi campi di concentramento dove si vedono centinaia di persone ammassate in fila per un piatto di riso bianco scondito, quelle delle proteste e delle rivolte, degli incendi nelle strutture e dei morti, quelle che dietro hanno apparati che mirano soltanto ad ingrassare con i fondi che arrivano e che non pensano a quale sarà l’esito reale dei loro progetti di integrazione. Quelle realtà che grazie a Salvini non avranno più neanche un po’ di concorrenza nelle gare per l’affidamento.

Il modello di accoglienza che si costruisce sottende un’idea precisa di integrazione.
Il fenomeno migratorio nel nostro paese è un fenomeno recente, ma allo stesso tempo ha una forte capacità di mettere in crisi lo stato democratico, perché «chiede necessariamente risposte politiche e un insieme di modalità eterogenee di “inclusione differenziale”» (Mezzadra, Neilson, Borderscapes of Differential Inclusion. Subjectivity and Struggles on the Threshold of Justice’s Excess, 2012).

Lo scenario con cui oggi ci confrontiamo è quello di un sistema in cui la figura del migrante è costruita sul modello della vittima, mutandolo così in un soggetto mancato e bisognoso di protezione. Tale neutralizzazione politica fa sì che il migrante venga ridotto a un essere indefinito in una marea di esseri umani in movimento, i quali, secondo la narrazione dominante, necessitano esclusivamente di un’accoglienza di base, una remota possibilità di regolarizzazione e una possibilità di integrazione (intesa come “addomesticamento”) per la quale se non vi sarà una passiva accettazione della propria condizione di subalternità, vi sarà il ricatto della deportabilità. Il problema dell’inclusione sociale del corpo migrante muove dallo scontro che si realizza tra la società che accoglie e i soggetti che provano a entrarvi, meccanismo che incide sull’organizzazione sociale del gruppo e sul suo sistema di relazioni.

Il fenomeno migratorio ha minato alla base lo stato nazionale e le prassi democratiche che al suo interno si sono sviluppate. Lo «stato, come ha evidenziato Gellner, sulla scia delle celebri tesi di Weber, esercitava una triplice sovranità: militare, economica e culturale». Ed è proprio rispetto all’ultima sovranità che le migrazioni sono in grado di generare una crisi, mettendo in discussione quell’artificiale idea che ciascuna nazione abbia una forma di identità collettiva, nella quale sia possibile ridurre tutte le volontà in una sola, al fine di realizzare uno straordinario collante dell’unità politica.

Per decenni la politica si è rifiutata di fare i conti con le conseguenze sociali che le migrazioni portavano con sé, continuando a muoversi in base alla convinzione che l’ordine politico e sociale dovesse continuare a incentrarsi sullo stato nazionale. Sovente ci scontriamo con proclami di conclamato attacco ai nostri valori, oppure con appelli a mantenere entro i nostri confini una popolazione selezionata, all’interno dei quali gli unici che hanno diritto di entrare, ed eventualmente rimanere, sono coloro che rapidamente e silenziosamente sapranno acquisire la nostra virtù civica, e allo stesso modo sapranno accettare la loro collocazione sociale.

Sta qui l’idea di accoglienza come meccanismo di ricatto e detenzione dei migranti, in luoghi all’interno dei quali queste persone che sono libere, perché non hanno commesso nessun reato, si ritrovano costrette a mangiare quello che gli viene dato senza possibilità di scelta, a stare nelle strutture senza prospettive o attività da svolgere, non potendo entrare e uscire quando vogliono dovendo sottostare a orari prestabiliti, non potendosi lavare o lavare la propria stanza, casa o letto agli orari che preferiscono. Queste sono le condizioni in cui si vive nei centri di grandi dimensioni dove si specula per guadagnare, quei centri che Salvini e tutto il suo entourage elettorale preferiscono, sia perché si strizza sempre l’occhio alla criminalità organizzata, sia perché si ha paura che questi soggetti si integrino realmente perché potrebbero mettere in crisi un sistema consociativo che non è pensato per essere neutrale rispetto a radicali differenze culturali.

Perché attenzione, integrazione non significa “casa mia, regole mie”, non significa assimilazione, non significa far spogliare una donna perché “il burkini la opprime”, non significa pretendere che queste persone siano ridotte ad oggetti privi di identità. Servirebbe, invece, la volontà di smettere di considerare i migranti come massa indistinta di braccia che si muovono a occupare gli strati subalterni che il capitalismo concede, guardando invece ai corpi, alle persone con tutto il loro portato di soggettività.

Occorrerebbe domandarsi “quando si cessa di essere migranti?” riuscendo così ad «accedere a quella prerogativa della cittadinanza che possiamo chiamare come Goffman disattenzione cortese o, seguendo Delgado diritto all’indifferenza, ovvero una condizione di opacità in virtù della quale certi soggetti non “sono sistematicamente obbligati a dare spiegazioni, giustificare ciò che fanno, che pensano, quali sono i riti che seguono, cosa mangiano, che sessualità hanno, che sentimenti religiosi professano e in quale visione del mondo credono, tutti dati e informazioni che noi, i normali, ci negheremmo a fornire a persone non facenti parte del nostro nucleo più intimo di relazioni”. Rivendicare per tutti e tutte il diritto all’opacità diviene allora la condizione per generare forme di incontro meno asimmetriche e non subalterne ad uno sguardo coloniale» e su questa visione costruire e implementare nuovi modelli di accoglienza.

 

Immagine di Paride De Carlo liberamente ripresa da flickr.com

Ultima modifica il Domenica, 18 Novembre 2018 18:10
Alessandra Maggi

Nata a Roma, classe 1991, studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, durante il corso di studi si è specializzata in diritto dell’immigrazione. Questa materia è una passione che occupa il suo tempo, dalla militanza in Progetto Rebeldìa, fino agli studi, passando per esperienze lavorative come operatore in accoglienza. A questo si aggiunge un impegno nella lotta per la casa, con l'associazione Unione Inquilini sede di Pisa.

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