Fuga o ricerca di innovazione? Sguardi multipli sugli italiani a Londra.Barbara Del Negro ha 24 anni ed ha frequentato per un anno la Richmond University di Londra, per conseguire un master in Advertising and public relations. Intervistata da noi de Il Becco, Barbara ci ha spiegato che ha scelto Londra perché un master di questo tipo non viene proposto in nessuna delle università italiane. “La mia passione è il calcio, ho giocato per diverse squadre di calcio femminile della regione Campania, la ex Bertoni di Battipaglia per quanto riguarda il calcio a 11 e poi diverse squadre di calcio a 5, in serie A e B: Agropolese, Pontecagnano, Salernitana, e il Bellizzi. Il calcio femminile però in Italia non è valorizzato, e mi piacerebbe andare in Spagna.” E perché Londra allora? “Subito dopo il master inizierò a studiare lo spagnolo, poi vorrei propormi per lavorare in qualche agenzia o compagnia sportiva di advertising a Barcellona. Avere nel curriculum questo tipo di master, conseguito in un’importante università di Londra, potrebbe essere decisivo in questo settore.” Barbara ha già studiato International Affairs alla John Cabot University a Roma, è bilingue italiano-inglese e ci confessa che la pronuncia inglese è stata difficile anche per lei: “Io sono madrelingua, ma la mia pronuncia è quella americana: all’inizio ho fatto fatica a rapportarmi con i colleghi inglesi e con i professori. Però poi ho superato le difficoltà e la mia esperienza è stata molto fruttuosa.” Dal sud Italia a Barcellona, con il sogno di lavorare nel mondo del calcio femminile, ma passando per Londra, quindi. Un percorso che può apparire dispersivo, dal punto di vista geografico, ma che è molto coerente se si guarda agli obiettivi che Barbara si è posta.
La “fuga dei cervelli” però ci è stata raccontata già abbastanza a lungo dai media italiani e, se è un’espressione che appena coniata è stata utile ad individuare un fenomeno preoccupante del nostro paese, ha però favorito un’analisi e un racconto dell’emigrazione italiana a compartimenti stagni, come se ad emigrare fossero solo coloro che all’estero vedono premiata la loro alta qualificazione. Non è così: spesso persone altrettanto qualificate vanno all’estero e svolgono lavori che sono molto al di sotto del loro titolo di studio e delle loro capacità, e c’è anche un’emigrazione di tipo diverso, più simile a quella tradizionale, di chi lavora nel settore della ristorazione, o in quello dei call center. E spesso si passa da un settore all’altro, c’è chi ad esempio ha ottenuto una borsa di studio per un dottorato dopo aver lavorato a bassa retribuzione per molto tempo in una catena di vendita di abbigliamento, c’è chi ha fatto un Erasmus in un’altra città inglese e poi ha deciso di trasferirsi nella capitale, c’è chi ha fatto la spola con l’Italia diverse volte prima di stabilirsi a Londra. Sono la pluralità, spesso la frammentarietà, la precarietà e la diversità dei progetti migratori a caratterizzare un’emigrazione che anche se si vuole definire come soltanto giovanile si rischia di non cogliere nella sua interezza.
Marco Mancassola è uno scrittore che vive e lavora a Londra. Autore conosciuto anche in Francia, ha pubblicato libri sulla cultura giovanile degli ultimi decenni, Last love Parade ad esempio, un viaggio nella cultura musicale della musica dance, elettronica e techno. Mancassola recentemente ha raccontato in diversi suoi articoli per Internazionale la complessità di questa emigrazione, inquadrandola nel contesto delle politiche governative e della profonda trasformazione urbanistica che sta interessando la città. “Lo stereotipo della fuga dei cervelli ha smesso da tempo di adattarsi ai nuovi flussi migratori. Si tratta di una fuga, punto”, scrive. Una fuga di massa difficilmente prevedibile anche dal governo britannico, che ha visto questi flussi europei affiancarsi a quelli da fuori dell’Unione europea, questi soltanto già da tempo oggetto di politiche di riduzione e controllo. L’impossibilità di attuare politiche restrittive per i cittadini comunitari fanno pensare alla possibilità di “rinegoziare i termini di appartenenza della Gran Bretagna all’Unione europea proprio a partire dalla libertà di movimento” introducendo un tetto agli arrivi europei, spiega Mancassola. Tutto con sullo sfondo lo spettro della brexit, la paventata uscita britannica dall’Unione europea. La soluzione, secondo Cameron, sarebbe quella di implementare un piano che escluda i lavoratori europei dal sistema dei benefit, i sussidi statali, introducendo sbarramenti per chi non lavora in UK da un certo numero di anni e riducendo il periodo in cui si può restare in disoccupazione.
Cameron, che diverse volte, prima di essere riconfermato alle elezioni di maggio, ha affrontato la questione nei suoi discorsi, ha certo ragionato anche in termini elettorali: quello della percezione dell’immigrazione come una minaccia è un discorso che torna ciclicamente e viene amplificato dal gioco dei media. Uno studio, consultabile qui, condotto da Tommaso Frattini, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano insieme a Christian Dustmann dell’University College di Londra, dimostra invece che, ai fini fiscali, l’immigrazione, in particolare quella comunitaria, porta benefici alla Gran Bretagna: i costi in termini di welfare sono inferiori rispetto a quelli degli inglesi e la partecipazione al lavoro è maggiore. E conveniente, aggiungiamo noi, per le imprese che cercano manodopera a basso costo. Per altro, c’è da dire che i migranti interni all’Unione europea, vista la loro permanenza molte volte precaria e di breve periodo, accedono ai servizi di welfare molto meno di quanto si possa credere.
Vivere a Londra, peraltro, non è semplice, visti i costi molto alti e visto che la città si sta trasformando in fretta. In un altro articolo molto interessante per Internazionale, Marco Mancassola racconta come Londra, alla crisi e alla crescente domanda abitativa, abbia risposto con un salto verso l’alto: quello delle torri e dei grattacieli che stanno cambiando lo skyline della città. “Colossali investimenti internazionali, colossali imprese edili, colossali vendite di appartamenti.” Ma i prezzi altissimi fanno sì che nulla di tutto ciò sia destinato all’edilizia popolare né ad una classe media che si va assottigliando sempre più, tantomeno ai ragazzi italiani che arrivano a Londra con un volo low cost. La velocità e la radicalità con cui questo processo sta investendo la capitale inglese può far parlare non solo di gentrification, secondo Mancassola, ma di “social cleansing, pulizia sociale, per indicare come gli abitanti di intere aree siano sgomberati, con efficienza e velocità sconcertanti, per far posto a compratori ricchi e investitori stranieri”.
Ma se gli arrivi italiani aumentano nonostante le difficoltà, questo è indice che rispetto all’Italia Londra le opportunità le offre davvero. “A Londra i sogni sono una cosa seria” titola uno degli articoli di Silvia Favasuli, giornalista che vive a Londra e cura la rubrica expat su Linkiesta. Un obiettivo che in Italia richiede anni per essere raggiunto, a Londra lo si può raggiungere in pochi mesi, a patto che si sia capaci di inserire le competenze di base che la formazione italiana fornisce all’interno dei network che a Londra si possono creare, secondo una logica diversa da quella italiana, per la quale a un favore spesso deve corrispondere un altro favore restituito. A Londra, al contrario, se si ha un’idea la si mette in circolo e alla prova, senza paura che venga rubata. E la creatività italiana in molti casi riesce ad emergere. E a creare in alcuni casi, racconta la giornalista, “imprese ponte” tra Londra e l’Italia. Start up che hanno sede a Londra, dove è più facile attrarre investimenti e reperire liquidità, che magari puntano su entrambi i mercati, quello inglese e quello italiano, e che uniscono le competenze dei giovani italiani emigrati alla capacità gestionale degli inglesi. Ragionare solo in termini di “ritorno in patria”, per le persone che hanno creato questo tipo di imprese non ha più senso, perché il loro punto di forza è proprio quello di riferirsi ad entrambi i paesi.
Una rete di blog e un documentario: i nuovi media degli italiani a Londra
Se finora abbiamo fatto riferimento solo alla stampa italiana, un paragrafo a parte vogliamo dedicarlo a una serie di iniziative (molte altre ce sono nascoste tra le pieghe del web) volte a fare network e informazione nella comunità italiana di Londra. Due di esse ci sono parse particolarmente interessanti.
La molteplicità dei punti di vista è al centro di un ambizioso progetto editoriale nato negli ultimissimi tempi tra gli italiani a Londra. Italian Kingdom (www.italiankingdom.com) non è solo un magazine, che tra l’altro ha il merito di riunire diversi tra i più conosciuti bloggers italiani a Londra o in altre città del Regno Unito (LondonHer, Londra chiama Italia, Banalmente a Londra, Bushey tales e altri), non solo una radio, ma anche un interessante mosaico di ritratti fotografici, ognuno dei quali introduce a una storia di un italiano che racconta la sua esperienza a Londra. Al di là dei componenti della redazione, il progetto, leggiamo quando andiamo ad aprire la sezione “premessa” nel menu a tendina del sito, si apre perciò a una miriade di contributi e di storie che si intrecciano per costruire un “racconto moderno” in cui “ogni singolo personaggio esiste, vive e ha la sua personale visione del mondo, persino del racconto stesso. L’autore o perché no, gli autori, sono anche loro dei personaggi e vivono in relazione al contesto”.
È allo stesso modo uno sguardo da osservatore partecipante quello che ha scelto Luca Vullo, regista trentacinquenne di Caltanissetta, che la nuova immigrazione italiana a Londra ha voluto raccontarla con un documentario, Influx, girato tra settembre e ottobre scorsi con un team di tecnici e aiutanti tutti italiani immigrati a Londra ed è di prossima uscita. In un lavoro precedente, Dallo zolfo al carbone, Luca Vullo aveva raccontato l’emigrazione italiana verso le miniere del Belgio, nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale. Oggi l’emigrazione a Londra (così come quella verso altre città europee) ha modalità e motivi differenti. Si va da una permanenza discontinua, magari legata allo studio e facilitata dai voli low cost, ai più differenti modi di costruirsi il proprio progetto migratorio, e un documentario come questo non può non essere lo specchio di questa diversità. Tra gli intervistati c’è infatti chi è riuscito a realizzarsi in quella che molti considerano la città più competitiva d’Europa, c’è chi questa competizione la considera indice benefico della meritocrazia che non c’è nella società italiana e chi la soffre e magari dall’Italia è andato via perché il nostro si sta facendo un paese sempre più aggressivo.
C’è l’intervista a Gianluca Vialli, calciatore italiano tra i primi degli emigranti di lusso del nostro calcio che ha perso importanza in Europa nel corso degli anni e c’è Marcello Minale junior, figlio d’arte di uno dei designer italiani più noti all’estero e autore, tra le altre cose, del marchio di Harrods. Ma più che la “fuga dei cervelli” (che è un aspetto parziale, seppur presente, della nuova emigrazione italiana a Londra e non solo), Influx vuole raccontare il fenomeno di una “fuga di massa”, quella che porta un flusso costante di italiani a trasferirsi nella capitale britannica. Flusso inteso anche come flusso di coscienza, quello in cui il documentario si inserisce, in quella che il regista chiama “una grande operazione di autoanalisi sull’Italia e sugli italiani”.
Autoritratti, autobiografie, opere di autoanalisi. I media dei nuovi immigrati italiani a Londra nascono spontaneamente (per ora), in una terra di nessuno che favorisce una struttura dell’informazione più diffusa e partecipata.
Attraverso la collaborazione di Sosteniamo Pereira (www.sosteniamopereira.org) con Il Becco abbiamo provato, da italiani che trascorrono parte dell’anno a Lisbona, a gettare uno sguardo sull’attualità, la cultura e la politica portoghese, e continueremo a farlo, perché siamo convinti che la stampa italiana, e i media italiani in particolare, concedano uno spazio troppo piccolo agli esteri e alcuni paesi, il Portogallo ad esempio, vengano raccontati in maniera semplicistica (dopo averne parlato come la “P” dei PIIGS ora si è passato a parlarne come “la meta turistica più cool del momento”).
Un’altra delle cose che abbiamo provato a raccontare è la comunità italiana di Lisbona, che è in continua crescita, e lo abbiamo fatto con uno sguardo di chi di quella comunità - o “non-comunità” come qualcuno l’ha definita in una delle interviste del documentario che abbiamo realizzato sugli italiani a Lisbona, “I figli di Tabucchi”- è entrato in qualche modo a far parte, anche soltanto iniziando a chiedersi, e spesso non è una cosa immediata, quanto della propria esperienza personale e lavorativa abbia in comune con quella di altri italiani in Portogallo. E, allargando lo sguardo, con quella di altri italiani in altre città europee. È per questo motivo che in questo articolo (d’altra parte sul nostro blog avevamo già parlato de Il Mitte, il giornale in lingua italiana di Berlino) ci siamo soffermati sui nuovi media degli italiani a Londra, sulla costellazione di blog che stanno nascendo e su un documentario che per alcuni versi assomiglia al nostro, almeno nel suo intento di cercare di raccontare dall’interno il pezzo di storia contemporanea rappresentato dell’emigrazione tra paesi della comunità europea negli ultimi anni.