Da dove iniziare, se non dall’incapacità (che i maligni chiamerebbero mancanza di volontà) di focalizzare il problema da cui poi discendono a catena tutti gli altri? Stiamo parlando del fatto che oramai si è praticamente affermato il processo che ha portato a considerare l’università italiana come un’azienda dispensatrice di servizi, dove quindi non ci sono più studenti ma utenti (interessante in questo senso leggere i discorsi fatti da gran parte degli partecipanti allo sciopero dei docenti per lo sblocco degli scatti stipendiali) e dove la logica che predomina è quella del rispetto dei vincoli di bilancio, influenzati da budget e finanziamenti sempre più ridicoli.
Il fine ultimo è diventato quello di produrre specializzati che rispecchino le esigenze del mercato del lavoro. Ed è così che, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali e di quelle pure, vediamo una continua trasformazione dei corsi che, a poco a poco, sono sempre meno pensati sulla base degli interessi accademici e sempre più su quelli delle aziende. È esplicativo in questo senso il rapporto Education at a glance stilato dall’OCSE qualche settimana fa: per quanto riguarda l’Italia, i laureati sono pochi (il 18% rispetto alla media OCSE del 37%) ma son decisamente troppi quelli che scelgono studi umanistici e che quindi si specializzano in una disciplina che poi non incontra gli interessi del mercato. In poche parole, se non troviamo lavoro non è colpa delle aziende che non assumono e di un apparato pubblico di fatto immobile, ma solo nostra che scegliamo di studiare antropologia invece che ingegneria informatica.
Il risultato è quindi un teatrino imbarazzante come quello delle due giornate organizzate da Almalaurea, il consorzio delle università italiane. Molte aziende, presenti ciascuna con i proprio tavolino, vi hanno preso parte, scarsamente visibili alle migliaia di studenti in fila per ore premuti come sardine ad aspettare che vengano loro concessi cinque minuti per presentare il proprio curriculum. La farsa della giornata dedicata alla ricerca di lavoro per chi non ha fatto studi scientifici e che vede schierata una sfilza di aziende che si occupa di previdenza privata, assicurazioni e settore bancario. L’umiliazione, dopo anni di studi e specializzazioni, di venire scelti per il proprio curriculum e sentirsi poi proporre la possibilità di un part time flessibile (le cui condizioni ovviamente non vengono minimamente chiarite) per attività di raccolta fondi face to face (un modo elegante per chiamare quelli che al di fuori dei supermercati ci chiedono su supportare le varie ong). La presa di giro di sentirsi fare domande sulle proprie passioni, sui propri studi ed ambizioni per poi sentirsi dire che non ci sono posizioni aperte ma che, se vuoi, puoi iscriverti al corso di formazione che l’azienda/organizzazione/cooperativa organizza.
La retorica del neo laureato di successo, che se vuole e si impegna riesce immediatamente ad entrare a far parte di quell’eccellenza meritocratica che costituisce l’unica salvezza di questa nostra italietta, si scontra immediatamente con una realtà fatta di porte chiuse e precarietà che rischia di far sentire in difetto chi non ce la fa al primo tentativo. Perché il punto è che loro scelgono solo il meglio e se tu non rispondi ai requisiti di quel mondo brillante fatto di uomini in completo e donne sui tacchi, allora sei tu che hai sbagliato qualcosa, che non hai fatto del tuo meglio. Nemmeno per poter fare, dopo aver studiato relazioni internazionali e aver lavorato all’estero, la raccolta fondi face to face.