15 settembre 1993. Palermo. Lo aspettavano con due macchine, le braccia penzolavano fuori. Un uomo che non ha mai visto gli sbarra la strada, la beretta semiautomatica calibro 7.65 silenziata spara a venti centimetri dalla sua nuca. È una pistola da ladro di basso livello, da dilettante. Il colpo esplode sulla nuca e segnala all’anima la via per uscire. Le ultime parole di un uomo sono ciò che conta. Sono il sigillo della sua vita. Lui dice: “Me l' aspettavo". Lui dice che era pronto, alle 20.40 del 15 settembre 1993. E sorride. Questa è l' ultima parola. Aspettava la morte. L'aspettava come chi va a un appuntamento o riceve una visita a lungo attesa. Lui muore con un sorriso.
È il giorno del suo compleanno, ne compie 56 e il suo volto ha una geografia molto chiara: le depressioni scure delle occhiaie scavate dalla stanchezza e i rilievi morbidi e diffusi del sorriso. È un giorno di perfetta luce, che non lascia scampo alle cose oscure. Ci sono, ma sono parvenze, ombre forti destinate a consumarsi. È sottrazione di luce che vincono le tenebre, vittoria apparente e temporanea. Ma a guardar bene, nella città degli uomini smalti e macerie si sovrappongono, come paradiso e inferno. E mentre una madre dà una carezza a un bambino e uno sposo dà un bacio alla sua sposa, altri massacrano i volti, le schiene, le vite.
Sono passati 25 anni, e ancora oggi la figura di don Pino Puglisi scorre nella tremenda e assoluta lucidità del quartiere Brancaccio, nei casermoni infernali di cemento di Palermo. Una figura importante sia per il suo alto valore di messaggio evangelico, sia per essere riuscita a donare amore e coraggio. Non importante quanto il labirinto sia complesso, ma quanto forte il filo che ci lega all'amore, togli l'amore e avrai l' inferno. Metti l'amore e avrai ciò che l'inferno non è. L' amore è difendere la vita dalla morte. Sono queste le frasi che maggiormente mi hanno colpito e che al meglio illustrano la figura di questo sacerdote straordinario, che a distanza di 25 anni ci insegna a trovare il coraggio di amare. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili o abbiamo creduto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda, dalle false attese nostre, per curare magari il risentimento di ferite mai affrontate.
Non abbiamo badato a chi avevamo sempre li, proprio perché era sempre li. Eppure il dolore a volte ce lo aveva ricordato che nulla resta per sempre, ma noi lo avevamo sottovalutato come se fossimo immortali, rimandando a oltranza, dando la precedenza a ciò che era urgente anziché a ciò che era importante. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L'abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche solo una telefonata e chiedere come stai. Ecco cosa insegna don Pino, l' amore che ha dato rimarrà intatto e continuerà per sempre, indistruttibile, perché quell'amore non originava da lui ma lo attraversava. A 25 anni dalla sua scomparsa, volevo cercare attraverso queste poche righe di omaggiare una delle figure più ricche ed esemplari del XX secolo, capace di non far arrivare l' inferno neanche all'inferno.
Mi piace concludere questa pausa estiva e dai primi accenni quasi invernali, con l' immagine di un uomo che ha saputo svolgere a pieno titolo sia il suo ruolo sacerdotale sia quello di guida e di maestro per i ragazzi di Brancaccio. Un esempio, cui mi so sentita vicina ma che, dato anche che ho 25 anni e 25 anni ricorrono quest’anno proprio nella ricorrenza della sua morte, per me, è stato quasi un dovere dedicare la fine dell'estate a don Pino Puglisi.