Il cielo stellato sopra di me, un formichiere impagliato davanti a me – fotografia naturalistica poco naturale e pochissimo etica
Sotto un cielo stellato, un formichiere si appresta all’assalto di un grande formicaio punteggiato dalla bioluminescenza delle termiti. Le minuscole luci nella scena notturna, l’atto di predazione immortalato nel momento perfetto: lo scatto è inizialmente valso al fotografo brasiliano Marcio Cabral il Wildlife Photographer of the Year Award assegnato dal Museo di Storia Naturale di Londra, uno dei riconoscimenti più prestigiosi cui un fotografo naturalistico possa aspirare. Certo, il formichiere sembra un po’ ingessato, ma la luce è poca e strana, e poi chi è che ha ben presente come si muova un formichiere?
Di Silvia D'Amato Avanzi e Joachim Langeneck
Al lupo al lupo
La proposta di un “piano di conservazione e gestione del lupo in Italia” da parte del Ministero dell’Ambiente si riflette in questi giorni in un acceso dibattito mediatico, con il moltiplicarsi di informazioni più o meno tendenziose e più o meno corrette sull’impatto del lupo nel territorio italiano e sulla necessità di misure gestionali. Diverse testate, soprattutto nelle edizioni locali, hanno dato spazio alle lamentazioni di allevatori il cui bestiame sarebbe stato colpito dai lupi; e, nell’allarmismo scandalistico per un presunto boom demografico di questi animali, non sono mancati titoli surreali come “Capriolo sbranato dai lupi”. L’apice è stato forse rappresentato da un servizio de “Le Iene” andato in onda il 16 febbraio scorso che, oltre ad amplificare le lamentele di singole persone timorose dei lupi, ha portato sullo schermo vere e proprie tecniche di bracconaggio, proponendole come “sistemi di difesa” dalle «migliaia di lupi» – secondo la trasmissione – che attaccano continuamente allevamenti e villaggi.
Ma quanto sono fondate queste polemiche? Quali sono gli effettivi termini del problema con il lupo?
Carpe ministeriali ed aeroporti prolungati: cosa c’è di sbagliato nella gestione ambientale in Italia
Immaginiamo un mondo in cui per costruire un ponte ci si rivolge ad un ingegnere, ma se il progetto non ci piace lo cambiamo a nostra discrezione, per poi renderlo operativo; oppure, facciamo preparare le planimetrie per un nuovo palazzo ad un architetto, ma poi ci riserviamo di modificarle a seconda di come ci convince. Se l’ingegnere o l’architetto ci tentano di avvisare che il progetto come l’abbiamo modificato ha dei problemi strutturali o statici, che rischia di venire giù non appena apriamo il portone del palazzo o facciamo passare un motorino sul ponte, noi non solo non li ascoltiamo, ma li accusiamo di essere stati pagati (non si sa bene da chi, ma pagati di certo) per dare previsioni catastrofiste, di essere incompetenti, e in definitiva, che la loro formazione rappresenta un’inutile spesa di denaro pubblico – che magari andrebbe meglio investito, magari nei saperi tradizionali: in fondo l’essere umano costruisce ponti e case da ben prima che ci fossero le facoltà di ingegneria ed architettura, il che dimostra che le dette facoltà sono inutili. Uno scenario del genere appare raccapricciante a chiunque; eppure, se sostituiamo a “ingegnere” e “architetto” le qualifiche professionali ed accademiche di “biologo” e “naturalista”, e invece che di costruzione di case e ponti parliamo di gestione del patrimonio naturalistico, questa situazione è tristemente ricorrente. Quel che è peggio, è che non sono solo le associazioni di fruitori, a vario titolo, dell’ambiente naturale a scavalcare i periti in caso la perizia dia un esito non favorevole alle richieste o ai desiderata dei fruitori. Ma procediamo con ordine.
Si è già parlato, in precedenti articoli, della gestione dei grandi carnivori e dei grandi ungulati sul territorio italiano, e del difficile equilibrio tra diversi portatori d’interesse. Un contesto apparentemente meno problematico è quello della gestione delle acque interne italiane, che come è noto, non godono di una salute particolarmente buona. Questo è dovuto in parte alla regimentazione dei corpi idrici, e all’inquinamento, ma un problema di non poco conto è rappresentato dall’introduzione di un gran numero di specie alloctone, che competono con l’ittiofauna autoctona o, in molti casi, addirittura vi si ibridano. Gran parte dell’ittiofauna autoctona dell’Italia ne è anche endemica, non si trova, cioè, da nessun’altra parte; questo è dovuto a complessi fenomeni geologici avvenuti tra il Miocene e il Pliocene, a seguito dei quali le specie tipiche dell’Europa centrale si sono trovate isolate nella Penisola Italiana ed hanno avuto un’evoluzione indipendente – e spesso diversificata tra i versanti adriatico e tirrenico. I ripopolamenti effettuati con materiale dell’Europa centrale, anche con l’obiettivo di avere pesci più grandi e combattivi, hanno portato alla rarefazione e in alcuni casi scomparsa dei ceppi originari della Penisola Italiana. In questa situazione si inserisce la gestione delle acque interne italiane, che in un’ottica naturalistica dovrebbe favorire le aree in cui sopravvive l’ittiofauna originaria, e cercare di contenere e, ove possibile, eradicare, la fauna alloctona.
Tra i temi più problematici in questo periodo, la diffusione del siluro e del persico trota, due grossi predatori generalisti, e il ripopolamento con ceppi mitteleuropei di cavedano, barbo e soprattutto luccio; il luccio italiano è stato descritto come specie distinta solo nel 2011, e i ripopolamenti negli anni precedenti non hanno tenuto conto della provenienza dei pesci reintrodotti; ad oggi si teme che gran parte delle popolazioni di luccio in Italia siano costituite da ibridi tra lucci italiani e lucci mitteleuropei. In nessuno di questi casi sono in atto programmi di eradicazione (se non a livello locale, e con dubbi risultati). A maggior ragione non è prevista la proposta di programmi di eradicazione per la carpa, una specie ubiquitaria in tutta la penisola e presente anche nelle principali isole italiane, alloctona e con un forte impatto sugli ambienti acquatici, ma introdotta da abbastanza tempo per rendere virtualmente inattuabile la sua eradicazione; questo sia perché le alterazioni determinate da questa specie sugli ambienti italiani sono ormai troppo profonde per essere recuperabili, sia perché si tratta di una specie estremamente prolifica. Nonostante questo, la FIPSAS (Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subacquee) sta tentando di ottenere dal Ministero dell’Ambiente una certificazione di autoctonia per la carpa – rifacendosi in parte ad una proposta, ad oggi non accolta dal Ministero, di listare come “para-autoctone”, ed equiparare ad autoctone ai fini della tutela e della gestione, le specie la cui presenza sul territorio italiano è precedente al 1500. Il significato che questa certificazione dovrebbe avere è poco chiaro; sicuramente, con la legge vigente, lo status di specie alloctona della carpa impedisce che si proceda a ripopolamenti e reintroduzioni, ma d’altra parte, in relazione alla sua biologia questa specie non necessita affatto di questo tipo di misure gestionali, né corre rischi di rarefazione in nessuna parte d’Italia. In quanto allo status di para-autoctono, anche volendo accettare questo tipo di definizione (di significato biologico questionabile per non dire nullo), resta il fatto che l’attribuzione agli antichi Romani dell’introduzione di questa specie in Italia non sembra molto più che una leggenda metropolitana, e che le fonti storiche sono concordi nell’individuare la naturalizzazione della carpa in un periodo successivo (anche se non di molto) al 1500. Resta ad ogni modo il fatto che anche le specie alloctone, come il persico trota, il luccio mitteleuropeo e la carpa stessa, sono tutelate da leggi che regolano le taglie minime, la quantità prelevabile, le zone di tutela e i periodi di ferma, e conseguentemente, questo spostamento dalla lista degli alloctoni a quella degli autoctoni non avrebbe alcuna conseguenza pratica.
Il problema, tuttavia, è un altro, ed è il tentativo di confutare un risultato scientifico che non ci piace non attraverso prove contrarie ad esso, ma attraverso un decreto ministeriale. Se il tentativo di far considerare per legge autoctona la carpa ci fa un po’ sorridere, e in fondo non sembra ricadere tra i grandi mali del mondo, pensiamo a cosa significherebbe far passare una legge che per risparmiare imponga di dimezzare il carburante necessario per tenere in volo un aeroplano su una determinata tratta, nonostante gli studi scientifici affermino che sarebbe troppo poco. Nel caso della carpa, le conseguenze potranno apparire meno disastrose, ma concettualmente il processo è identico.
D’altra parte questa storia non può stupirci troppo, non alla luce di un accadimento decisamente recente. Piccolo antefatto (che non è inopportuno ribadire): per qualsiasi opera edilizia è necessaria una Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA), in base alla quale le autorità competenti decideranno se dare, o no, l’autorizzazione all’opera in questione. Per la costruzione della controversa nuova pista dell’aeroporto di Peretola la VIA ha avuto esito negativo; la reazione a questo non è stata una ricalibrazione del progetto tenendo in considerazione le criticità individuate dalla VIA, ma il tentativo di individuare una scorciatoia che togliesse l’odiato ostacolo di mezzo: il ricorso alle alte sfere. E le alte sfere hanno puntualmente e congruamente risposto, inserendo nella Legge di Stabilità per il 2016 un emendamento che cancella l’obbligo di VIA per il prolungamento della pista dell’aeroporto di Firenze. Emendamento che, grazie ad una tempestiva levata di scudi da più parti, è stato rigettato; ma il fatto che sia stato presentato come se si trattasse di una cosa normale – avallando di fatto l’idea che per legge si possano ricusare le conclusioni di uno studio scientifico – fa suonare dei campanelli d’allarme. Concettualmente non è così differente da quanto la FIPSAS sta chiedendo al Ministero dell’Ambiente; ma il fatto che questo tipo di soluzione sia stato prospettato dal governo stesso è estremamente inquietante.
Il messaggio che emerge a livello istituzionale – non solo più privato o associazionistico – è appunto questo: il perito in gestione ambientale può essere scavalcato nel momento in cui la sua perizia risulta scomoda per i portatori d’interesse. Mentre l’applicazione di questo principio da parte delle istituzioni è un problema politico, la condivisione che trova ci costringe a considerarlo un problema culturale. Di fatto, la necessità di figure specializzate nella gestione del territorio è sempre meno condivisa; su questa linea il costante tentativo di by-passare le perizie e le valutazioni d’impatto, a tutti i livelli, su questa linea l’idea (assolutamente non fondata) che il fruitore abbia tutte le competenze per gestire personalmente la risorsa naturale, su questa linea la forte riduzione del ruolo (e la possibile eliminazione) del Corpo Forestale dello Stato, come anche la stretta anche economica sulle agenzie ambientali. Spesso ad opera, peraltro, di chi si vanta del patrimonio naturalistico dell’Italia.
Quel medesimo patrimonio naturalistico siamo arrivati molto vicini a perderlo con l’industrializzazione e la cementificazione indiscriminate – e se non è successo, è anche grazie a fenomeni strutturali, ma non contemplati, come lo spopolamento delle aree di montagna. Il recupero e la valorizzazione delle risorse naturali e del patrimonio naturalistico non sono avvenute in maniera automatica, ma grazie all’impegno lento e costante di un gran numero di periti, che hanno investito nella conservazione di specie d’interesse naturalistico, ma anche degli habitat che esse popolano. Senza di loro non ci sarebbe stato nulla di cui essere orgogliosi; e senza di loro, non possiamo sperare in alcuna maniera di mantenerlo.
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