Lunedì, 11 Giugno 2018 00:00

Quando la fotografia naturalistica è poco naturale e pochissimo etica

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Il cielo stellato sopra di me, un formichiere impagliato davanti a me – fotografia naturalistica poco naturale e pochissimo etica

Sotto un cielo stellato, un formichiere si appresta all’assalto di un grande formicaio punteggiato dalla bioluminescenza delle termiti. Le minuscole luci nella scena notturna, l’atto di predazione immortalato nel momento perfetto: lo scatto è inizialmente valso al fotografo brasiliano Marcio Cabral il Wildlife Photographer of the Year Award assegnato dal Museo di Storia Naturale di Londra, uno dei riconoscimenti più prestigiosi cui un fotografo naturalistico possa aspirare. Certo, il formichiere sembra un po’ ingessato, ma la luce è poca e strana, e poi chi è che ha ben presente come si muova un formichiere?

Invece a quanto pare il formichiere è proprio ingessato, anzi impagliato: è proprio uguale all’esemplare tassidermizzato esposto all’ingresso del parco nazionale Emas in Brasile; e, poiché per le regole le immagini “non devono ingannare lo spettatore o rappresentare inaccuratamente la realtà della natura”, Cabral si è visto successivamente revocare il premio e bandire dal concorso. Non si tratta del primo caso del genere: otto anni prima accadeva lo stesso per una foto messa in scena con un lupo addomesticato; quasi ogni anno premi fotografici più o meno noti fanno tristemente notizia per i falsi in classifica.

Né la questione riguarda solo la fotografia naturalistica: la fama del controverso fotogiornalista Souvid Datta è definitivamente negativa da quando si è scoperto che ha “incollato” in una sua immagine una figura ritagliata da una foto della celebrata Mary Ellen Mark, scoperchiando il vaso di Pandora delle sue falsificazioni; mentre al contrario il nome di Steve McCurry sembra solo lievemente scalfito dai molti, e ormai noti, casi di ritocco nella sua opera. Sempre in bilico tra estraneità e partecipazione, tra ritratto e drammatizzazione del messaggio, tra “obiettività” e riconoscimento che una fotografia sarà sempre inevitabilmente rappresentazione di un punto di vista, fotogiornalismo e fotografia documentaria hanno un’etica complessa e gravata di responsabilità, che sarebbe semplicemente scorretto provare qui a discutere in breve.

Nell’era del digitale, è conoscenza diffusa che in post produzione sia possibile fare (e far sembrare) qualunque cosa, tanto che da alcuni anni l’agenzia Reuters accetta dai freelance solo foto scattate direttamente in jpeg; meno universalmente chiaro è però il ruolo giocato dalle leggi dell’ottica (e da quelle delle interazioni umane) davanti all’obiettivo – si pensi alla foto di Carlo Giuliani con un estintore tra le mani, pochi istanti prima che fosse ucciso, dove la prospettiva schiacciata dal teleobiettivo spinto favoriva l’illusione che il ragazzo stesse minacciando direttamente la camionetta della polizia. Basti del resto il richiamo alle polemiche attorno ai trucchi fotografici, dallo studio alla post produzione, sulle immagini di moda per suggerire quando ambiguo e difficile sia il nostro rapporto con la fotografia e le presunte verità che rappresenta.

Il caso del formichiere impagliato di Cabral, che il fotografo brasiliano avrebbe prelevato dall’ingresso del parco e collocato davanti al formicaio per lo scatto, è comunque un’occasione per sollevare una serie di questioni sui non detti della fotografia naturalistica e il modo in cui influenzano il nostro rapporto con la natura. I trucchi e i ritocchi fotografici esistono da quando esiste la fotografia e la sua branca naturalistica non ne è esente; glissando sulla post produzione, le strategie variano molto in base ai soggetti e non manca la manualistica che le consiglia, ma nella maggior parte dei casi è difficile considerarle etiche.

Catturare gli insetti (o piccoli rettili e anfibi) e sedarli con l’etere, oppure metterli in un frigorifero per rallentarne i movimenti, per poi collocarli su una pianta fotogenica (che magari la specie di turno non visiterebbe mai spontaneamente), con la perfetta angolazione, eventualmente anche incollandoli; oppure ancora bloccarli in un luogo circondandoli con una traccia di uno spray per loro sgradevole. Visitare allevamenti di animali selvatici che, a pagamento, permettono di avvicinarsi anche molto a specie che in natura sarebbero molto rare o diffidenti, offrendo tra l’altro esemplari ben nutriti e dalla vita confortevole, eccezionalmente di bell’aspetto: dagli orsi grizzly alle tigri siberiane. In breve tempo e senza particolari difficoltà è così possibile ottenere belle immagini di animali che, nel loro ambiente naturale, potrebbero richiedere escursioni su percorsi impervi e anche giorni di paziente appostamento alla mercé degli elementi, e non potrebbero essere avvicinati. È del resto tristemente preferibile che specie selvatiche siano fotografate ritraendo questi esemplari sostanzialmente domestici, piuttosto che avere una sorta di turismo fotografico di massa in natura (potenzialmente tanto dannoso per la natura quanto pericoloso per i fotografi) o che, come purtroppo non è raro, esemplari selvatici siano attirati con esche di cibo per fotografarli, ad esempio lanciando dei topi a gufi o altri rapaci.

Macroscopica è la questione etica del maltrattamento dei soggetti, ma se ne pongono anche altre, più subdole: esemplari selvatici sono portati a familiarizzare troppo con la presenza umana; del resto sarebbe da discutere la posizione degli allevamenti di fauna “da fotografia” nel più ampio quadro dei problemi della conservazione delle specie selvatiche. Il confine tra fauna domestica e selvatica non è netto, anzi è ingenuo (quando non ipocrita) considerare del tutto selvatici esemplari di specie non domestiche che tuttavia vivono a contatto con comunità umane; trattandosi tuttavia di una zona grigia del nostro rapporto con l’ambiente, la cui gestione è ancora a dir poco confusa, non sembra saggio ampliarla per fare foto poi spacciate per scattate “in natura”.

Altra questione è il significato della pratica fotografica nel più ampio ruolo della fotografia: la fotografia naturalistica costituisce una preziosa rappresentazione didascalica di specie viventi e non e dell’ambiente; ma fino a che punto la sua utilità didattica e scientifica, indiscutibilmente connessa alla sensibilizzazione alla tutela delle specie e degli ecosistemi, compensa per la mancanza di eticità con cui essa è realizzata? Non è piuttosto lecito sospettare che la funzione didattica sia compromessa dal non aver applicato, nel fotografare, la sensibilità e la conoscenza della natura che lo scatto vorrebbe incoraggiare? Data l’attuale disponibilità e diffusione di una moltitudine di fotografie naturalistiche di ottima qualità e resa dei dettagli, la necessità di pratiche crudeli per produrne l’ennesima serie appare indifendibile; anche guardando al lato puramente artistico della fotografia, sembra difficile che questo giustifichi il trattamento cui sono sottoposti certi soggetti.

I casi di cui sopra, insieme a molti altri, hanno in comune l’aver inizialmente tratto in inganno attente giurie di esperti. Com’è possibile? Parte della risposta potrebbe risiedere nel fatto che la nostra conoscenza, o almeno il nostro immaginario, della natura selvaggia deriva proprio da fotografie che mediano quel che poi considereremo “reale”; se ci abituiamo a considerare veritiera una certa estetica, la legittimiamo e ne incoraggiamo la riproduzione, poiché essa è ciò che come pubblico ci aspettiamo. Siamo quindi più facilmente allenati a riconoscere dettagli che tradiscono una manipolazione in post produzione, piuttosto che un animale selvatico in un contesto che non gli è del tutto naturale. Questo evidenzia l’ulteriore problema, per il quale non basta semplicemente eliminare le pratiche non etiche e costruire una cultura per cui una foto scattata in un allevamento deve dichiararlo in didascalia.

I trucchi e gli imbrogli più o meno crudeli sopra descritti fanno parte di una rincorsa all’immagine più spettacolare, in un’ideale competizione diffusa in cui i partecipanti sono sempre più numerosi. Ci stiamo assuefacendo all’immaginario distorto della natura che filtra da queste immagini; le foto “più belle” hanno più probabilità di essere vendute e di scalare le classifiche dei concorsi rispetto a quelle realmente scattate in natura, con tanta fatica e tanto sacrificio in più. Ciò non solo tradisce la nostra distanza da quelle realtà naturali che vorremmo (?) conoscere e proteggere, ma contribuisce anche al mito di una fotografia naturalistica spettacolare (spettacolarizzata) e facile da ottenere, diffondendo pratiche dannose per l’ambiente o anche pericolose per i fotografi amatoriali.

È invece convinzione di chi scrive che la fotografia naturalistica abbia tanto più senso quanto più è integrata con la conoscenza dei soggetti e del loro ambiente, ed è allora praticata con la fatica e la pazienza connaturate ad un approccio rispettoso. Con questo significato, la fotografia naturalistica ha ancora molto da dare sia alla scienza che all’arte.

 

Immagine ripresa liberamente da pxhere.com

Ultima modifica il Domenica, 10 Giugno 2018 18:43
Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all'Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

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