Le vicende del commissariamento del'Ilva, della sua gestione non proprio brillante, e adesso della sua vendita (pur non essendo, tecnicamente, stata espropriata) rappresentano lo spreco di un'opportunità che lo Stato, qualora non fosse stato guidato da personaggi animati da cieca furia liberista, aveva il dovere di cogliere.
La giusta preoccupazione degli operai dello stabilimento di Cornigliano (bloccato dagli stessi in queste ore) ci mette di fronte alla lucida visione d'insieme, sulle problematiche industriali italiane, che viene fuori dal “semplice” timore per il proprio posto di lavoro.
Senza padroni
È di pochi giorni fa la notizia, arrivata dalla Grecia, dell’altissimo rischio di sgombero dell’esperienza della fabbrica occupata VI.OME di Salonicco. Un colpo al cuore per chi, come chi scrive, ha avuto la fortuna di conoscere quell’esperienza.
Era il Settembre del 2013, Pisa, o per meglio dire buona parte di essa, in quei “caldi” giorni stava difendendo un sogno, l’occupazione o per meglio dire la liberazione dell’ex colorificio toscano. L’edificio occupato un anno prima era in quel momento sotto provvedimento di sgombero e fu in quel mese di inizio autunno che ebbe luogo una tre giorni ricca di idee, proposte e istanze venute dal basso segnate da forte partecipazione collettiva, erano i giorni di “COMMON | PROPERTIES. Lavoro Diritti Territori”, iniziativa lanciata dal Municipio dei beni comuni. Tavoli di lavoro, assemblee plenarie e momenti culturali; quei giorni furono scanditi da un flusso incredibile di soggetti pronti a parlare e ad illustrare il loro ideale di società sui svariati temi.
A Torino il 18 febbraio 2015 abbiamo visto tutta la potenza retorica di un governo che, per stessa ammissione di Sergio Marchionne nelle sue dichiarazioni dello scorso ottobre, è stato scelto dal mondo padronale per eseguire diligentemente i loro ordini. Dalla visita mattutina ad Alba dove si sono svolti i funerali di Michele Ferrero (un "padre della patria" con la residenza in un paradiso fiscale, come l'ad di FCA insomma) all'incontro coi vertici dell'ex azienda automobilistica torinese e al Politecnico, abbiamo assistito alla medesima narrazione.
Tra uno sperticato elogio dell'"imprenditore progressista" e del "capitalismo dal volto umano" che antepone la persona al profitto, in cui "la fabbrica fosse per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica”, si è passati con disinvoltura all'esaltazione del peggior capitalismo predatorio, ossia al modello Marchionne, quello che punta la pistola alla tempia della persona che lavora in fabbrica. Se il Presidente del Consiglio ha subito dichiarato di essere "gasatissimo dai progetti di Marchionne", arrivando a fare battute di spirito del tipo "supereremo la Germania nella produzione manifatturiera", non altrettanto euforica è stata la reazione della cittadinanza che ha contestato il Presidente del Consiglio che, finalmente, si è degnato di metter piede a Torino (ricordo il vertice dello scorso 11 luglio rinviato all'ultimo). Inutile dire che l'inquietudine di quanti erano fuori dal Politenico a manifestare dietro allo slogan "il vostro profitto, il nostro sfruttamento" ha maggiori fondamenti di quanti il nostro premier non voglia lasciar intendere. Un dato su tutti riguarda la produzione industriale che ha perso complessivamente, tra aprile 2011 e novembre 2013, il 10,9 per cento, una caduta assai più lunga (31 mesi) che in passato e più ampia rispetto a quella osservata in molti tra i partner dell’Uem.
Se la produzione manifatturiera italiana risulta falcidiata, bisogna però chiarire che il dramma non è solo nostro, bensì europeo. Infatti, come riporta il rapporto Istat "se la Germania, pur ancora al di sotto dei massimi toccati quasi sei anni fa, è l’unico paese ad avere recuperato quasi pienamente i livelli produttivi precedenti la crisi. Sul versante opposto, spiccano le flessioni dei paesi mediterranei: Italia e Spagna hanno perso, rispettivamente, quasi un quarto e un terzo del prodotto industriale rispetto ai livelli pre-crisi."
Così il confronto tra la Germania e l'Italia (invocato scherzosamente da Renzi) diventa impietoso e, per dirlo con le parole dell'Istat: "evidenzia un progressivo e continuo ampliamento del differenziale nella produzione industriale in senso sfavorevole al nostro Paese (Figura 1.3 del Rapporto Istat). Tale tendenza si è manifestata a partire dal 1997-1998 senza apparentemente risentire delle diverse fasi cicliche susseguitesi in tale arco temporale".
(Rapporto Istat 2014, Evoluzione ciclica del fatturato industriale e del fatturato in Italia ed Europa)
Siamo davanti al desolante quadro dell'ormai celebre Europa a due velocità, che per alimentare la locomotiva tedesca distrugge risorse in quantità enormemente maggiori rispetto a quelle che produce, concentrando gli effetti più nefasti proprio nei Paesi periferici, eppure qualcuno preferisce scherzarci. Si potrebbe far notare che abbiamo di fronte nient'altro che lo specchio continentale di un sistema produttivo attorcigliato su se stesso. Eppure più di dieci anni fa Gallino nel suo "La scomparsa dell'Italia industriale" (Einaudi, 2003) ricordava come in quarant'anni l'Italia sia arrivata a perdere quasi per intero la propria capacità industriale, che arriverebbe ad essere azzerata se dovesse cadere anche l'industria dell'automobile tutt'oggi appesa a un filo. Un Paese ridotto a delegare la sua politica industriale alle multinazionali predatorie, che rischia ormai di essere collocato nella semi-periferia del sistema di valorizzazione del capitale che oggi agisce a livello mondiale entro flussi a elevata specializzazione. Così la retorica di Renzi, che ha fustigato le aziende che "non devono essere quelle della lagna ma della curiosità", sembra essere totalmente dimentica che nessun paese si è industrializzato e mai lo farà senza il supporto dello Stato che fornisce quadri normativi certi, infrastrutture, commesse e condizioni favorevoli allo sviluppo. In quest'ottica il massimo dell'aiuto possibile sembra essere l'ennesima riforma del mercato del lavoro, e per dirla sempre con il premier: "le imprese non avranno più scuse per non assumere". Forse potrebbe non bastare, sarebbe infatti sufficiente tirare un'occhiata alla spaventosa restrizione del credito riscontrata dalla stessa Confcommercio (leggi qui) per capire che per l'impresa italiana il problema potrebbe non arrivare dal lato del lavoratore.
b) L'industrializzazione pianificata e la collettivizzazione forzata dell'agricoltura
“Per eliminare i kulak come classe non è sufficiente la politica di limitazione e di eliminazione di singoli gruppi di kulak. Per eliminare i kulak come classe, è necessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti economiche della sua esistenza e del suo sviluppo (libera utilizzazione della terra, mezzi di produzione, affitto, diritto di ingaggiare mano d'opera salariata, ecc.). In questo appunto consiste la svolta verso la politica di liquidazione dei kulak come classe. […] Senza di questo, non è concepibile nessuna collettivizzazione seria, e tanto meno una collettivizzazione integrale della campagna.”
(Stalin, Sul problema della politica di liquidazione dei kulak come classe, 21 gennaio 1930)
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