È già il preludio a proiettare lo spettatore in un clima di malinconia agitata però da guizzi di furore. Si apre il sipario ed una fitta coltre di nebbia avvolge il castello degli Ashton. Una folla spinta da Normanno (Didier Pieri, Tenore) corre alla ricerca di un intruso: “Percorriamo le spiagge vicine, della torre le vaste rovine…” (si muove con consumata sicurezza qui il coro diretto dal maestro Sebastiani).
Sparita la moltitudine Enrico Ashton (Stefano Antonucci, Baritono) è afflitto: vorrebbe distruggere la famiglia rivale dei Ravenswood ed “Edgardo... quel mortal nemico di mia prosapia” suo rampollo ma la sorella lo frena.
A Lucia, rimasta orfana di madre, si vuole negare anche la gioia del talamo? Ebbene Sì. “Rispettiam quel core che trafitto dal duol schivo è d’amore” suggerisce inutilmente Raimondo (Mariano Buccino, Basso). Normanno, inizialmente abbottonato, incalzato da Enrico chiarisce che l’amore di Lucia è tutt’altro che schivo e che “nel solingo vial dove la madre giace sepolta” ogni alba la giovane incontra qualcuno: il nemico Edgardo.
Enrico è furente (“Pria che d’amor sì perfido a me svelarti rea, se ti colpisse un fulmine, fora men rio destin”). Il seguito del nobile tornato al castello fornisce l’amara certezza: l’amante della sorella è proprio Sir Ravenswood. Invano Raimondo invita alla calma: “La pietade in suo favore miti sensi invan ti detta... se mi parli di vendetta solo intender ti potrò. Sciagurati!... il mio furore già su voi tremendo rugge... l’empia fiamma che vi strugge io col sangue spegnerò” (ben eseguita la caballetta).
Ben altre note introducono Lucia (Zuzana Marková, Soprano, si alternerà nelle rappresentazioni con Elena Mosuc): rannicchiata come una bambina racconta alla fida Alisa (Carlotta Vichi, Mezzosoprano) un’oscura visione: il fantasma di una donna uccisa per gelosia da un Ravenswood (“Regnava nel silenzio…”). “Lucia, Lucia desisti da un amor così tremendo” suggerisce Alisa vedendo in quell’amore presagi di sventura.
Ma la passione è più forte: “Quando rapito in estasi del più cocente amore, col favellar del core mi giura eterna fé; gli affanni miei dimentico, gioia diviene il pianto... parmi che a lui d’accanto si schiuda il ciel per me!”. Nella notte scozzese i due amanti si incontrano. Edgardo (Andrea Bocelli, Tenore) annuncia all’amata che presto partirà per la Francia (“Pe’ franchi lidi amici sciolgo le vele..”), alleata degli Stuart nel complesso gioco diplomatico che caratterizzò la Seconda Rivoluzione Inglese. Prima di partire Edgardo vorrebbe ricomporre la contesa col rivale Enrico (“Pria di lasciarti Asthon mi vegga... stenderò placato a lui la destra, e la tua destra, pegno fra noi di pace, chiederò”) ma frenato da Lucia che vuole ancora che sia mantenuto il segreto comprende che nessuna pace è possibile con il Casato che già gli “tolse il padre”: “Sulla tomba che rinserra il tradito genitore, al tuo sangue eterna guerra io giurai nel mio furore: ma ti vidi... in cor mi nacque altro affetto, e l’ira tacque... pur quel voto non è infranto... io potrei compirlo ancor!”.
Con rapida successione da dimesso il Sir è mutato in rabbioso e risoluto offre a Lucia un simbolo d’amore che li fa congiungere davanti a Dio (“al tuo fato unisco il mio, son tuo sposo”). I due amanti celebrano dunque la loro promessa d’amore prima che Edgardo parta: “Verranno a te sull’aure i miei sospiri ardenti, udrai nel mar che mormora l’eco de’ miei lamenti... Pensando ch’io di gemiti mi pasco, e di dolor. Spargi una mesta lagrima su questo pegno allor” (non scalda però i cuori qui il duetto).
Enrico, tuttavia, non attende gli eventi: il Casato è sulle sue spalle e così intesse un’articolata trama. Nel castello sono già presenti i “nobili congiunti” per il matrimonio che egli ha combinato con Arturo, potente nobile che risolleverà la stirpe degli Ashton. Per meglio vincere le resistenze di Lucia Normanno ha già pronto “il simulato foglio” che farà credere alla sventurata che il suo Edgardo si è promesso ad altra donna.
Lucia, ancora ignara, è spenta, vitrea: “Il pallor funesto orrendo che ricopre il volto mio ti rimprovera tacendo il mio strazio... il mio dolor. Perdonar ti possa iddio l’inumano tuo rigor” e sente che “il mio fin ormai s’appressa”. Enrico la scuote (“Viver lieta ancora potrai…”) e le annuncia le nozze. La giovane non arretra (“Ad altr’umo giurai la fé”) ed allora l’astuto Sir Ashton porge il foglio frutto della sua macchinazione. Lucia è sgomenta (“Il core mi balzò!”) ed è come se quelle carte fossero un altro passo che la avvicina alla morte: “Soffriva nel pianto... languia nel dolore... la speme... la vita riposi in un core... quel core infedele ad altra si diè!... L’istante di morte è giunto per me”. Enrico incalza al fine di tramutare quel pallido spegnersi della sorella in vivo furore: “Un folle ti accese, un perfido amore: tradisti il tuo sangue per vil seduttore ma degna dal cielo ne avesti mercé: quel core infedele ad altra si diè!” (ottimo qui il combinarsi delle due voci).
La donna non è convinta e invoca la fine: non vuole un altro sposo ma la tomba. Per Enrico però il matrimonio è essenziale: in un rapido rivolgimento di fronte gli Stuart hanno ripreso il controllo della Scozia mentre “spento è Guglielmo” (d’Orange). Non soltanto, dunque, le vecchie rivalità con i Ravenswood ma anche l’attuale situazione politica impone (“Il devi”) un legame che consenta agli Ashton di sopravvivere tra i tumulti della guerra civile.
Anche Raimondo, che invano ha provato a far giungere ad Edgardo una lettera dell’infelice, prova a convincere Lucia “di piegarsi al destino”. Persino la madre morta è usata dall'amico come argomento per vincere le resistenze della donna insieme al “periglio di un fratello” sul quale da un momento all’altro può giungere la vendetta degli Stuart (molti applausi qui dal pubblico per Buccino). Lucia deve quindi accettare il suo destino di infelice per salvare le sorti della famiglia (“Al ben de’ tuoi qual vittima offri Lucia, te stessa”).
Tutto è pronto per le nozze: una sala piena di gente crede risolti i problemi degli Ashton. Agghindato di gran lusso è giunto anche lo sposo Arturo (Marcello Nardis, Tenore) fremente per la futura vita coniugale. Enrico mettendo le mani avanti avvisa lo sposo che la tristezza della sorella è dovuta “alla madre estinta”.
Ma messi l’uno di fronte l’altra Lucia è come pietra. Ferma davanti il contratto nuziale sono necessari i pressanti inviti del fratello per farle apporre la firma: “La mia condanna ho scritta!”.
Irrompe, in questa strana festa fatta di bicchieri di spumante e di pallida rigidità, il rivale Edgardo. Lucia al culmine della tensione si accascia suscitando in Enrico un accenno di pentimento: “È il mio sangue! io l’ho tradita! Ella sta fra morte e vita!... Ah! che spegnere non posso un rimorso nel mio cor!”. Edgardo ed Enrico sono pronti a battersi ed a risolvere così la contesa frenati dai riferimenti biblici di Raimondo (“…pace pace... Egli aborrisce l’omicida, e scritto sta: chi di ferro altrui ferisce, pur di ferro perirà”) che mostra ad un incredulo Edgardo che Lucia è ormai d’altri.
Sir Ravenswood è confuso, cerca una smentita (“Son tue cifre? A me rispondi: son tue cifre?”) che non trova: con sdegno toglie dal collo il pegno d’amore e maledice la “stirpe iniqua” degli Ashton.
Cambia la scena e la folla festante, credendo gli sposi congiunti sul talamo, allegra banchetta (“Di vivo giubilo s’innalzi un grido...”) ma a rompere la ritrovata serenità è Raimondo che annuncia “un fiero evento”: “Dalle stanze ove Lucia trassi già col suo consorte, un lamento... un grido uscia come d’uom vicino a morte! Corsi ratto in quelle mura... ahi! terribile sciagura! Steso Arturo al suol giaceva muto freddo insanguinato!... E Lucia l’acciar stringeva, che fu già del trucidato!”.
In un ultimo sussulto Lucia ha tinto il pallore con il rosso del sangue. Pur di mantenersi fedele ad Edgardo ha ucciso Arturo. Tra l’orrore e lo sgomento di tutti Lucia entra in scena macchiata orrendamente dal suo crimine e trascina Arturo sul tavolo dove solo pochi minuti fa i suoi parenti cenavano. La donna non è più in sé: si immagina a fianco del suo Edgardo pronta alle nozze (“porgimi la destra”).
Tra i momenti più noti di tutta l’opera, questa scena della follia, è una delle meraviglie della lirica e l’incredibile frutto di una tradizione che si è sovrapposta ed ha espanso, ben oltre le intenzioni, l’originale partitura donizettiana. La voce della sciagurata si fa strumento (in un perfetto dialogo con il flautista che va sottolineato): sembra quasi un canto disperato di un uccello che ha sbattuto su una vetrata. È umanità che varca il confine dell’umanità… è l’ultimo acuto che celebra e sottolinea lo smarrimento di sé prima dell’esaurirsi delle forze.
Di chi è la colpa di tutto ciò? Raimondo trova il colpevole nel “delator” Normanno, Enrico non ha più parole (“Io più me stesso in me non trovo!”), Lucia (“vittima di un crudel fratello”) vegliata da Alisa finirà per spegnersi lontano dalla tanta folla che l’ha usata.
Siamo alla settima scena: qui è eterno il cambio di allestimento anche se l’effetto ripaga tanta attesa. I finestroni che sono stati cielo tempestoso e architettura del castello sono adesso come dei tetri marmi neri e le corone floreali che celebravano le nozze sono ora corone funebri. Edgardo, solo tra le “tombe degli avi” sente che la sua vita senza Lucia è “orrendo peso” e immagina l’amata tra le braccia del nuovo marito pronta al riso e ad una nuova vita. Adesso è Edgardo a desiderare la morte: “Fra poco a me ricovero darà negletto avello... Una pietosa lagrima non scorrerà su quello!... Fin degli estinti, ahi misero! Manca il conforto a me! Tu pur, tu pur dimentica quel marmo dispregiato: mai non passarvi, o barbara, del tuo consorte a lato... rispetta almen le ceneri di chi moria per te” (il recitativo ed il successivo cantabile sono state sicuramente le due parti che il pubblico ha più apprezzato in Bocelli ieri sera).
La solitudine di Edgardo è rotta dal pianto degli abitanti di Lammermoor raccolti intorno a Lucia. Sir Ravenswood li interroga (“Giusto cielo!... Ah! rispondete: di chi mai, di chi piangete?”) e saputo da loro e dai rintocchi di campana della fine ormai prossima, a minuti, di Lucia spera di rivederla un’ultima volta. A fermarlo è Raimondo: Lucia “non è più”.
Sconvolto ma insieme sicuro del proprio gesto per Edgardo non rimane che ricongiungersi in un’altra vita alla sua donna: “…se divisi fummo in terra, ne congiunga il nume in ciel”. In un attimo, con un pugnale, pone fine alla sua vita ed alle lotte di potere tra i due lignaggi.
Muovendoci dal libretto ed addentrandoci nella Prima andata in scena ieri sera non si può non esprimere un giudizio positivo sulla regia di Mariani, caratterizzatasi per lo spostamento temporale menzionato all’inizio (anche se una Lucia che fuma è forse un filo eccessivo) e per le tante suggestioni drammatizzanti (la corda sul finale, il copioso sangue, la follia rappresentata con il cadavere di Arturo steso tra le vivande ed i bicchieri). Altro elemento caratteristico di questa agile regia è il rapporto morboso, quasi incestuoso in una scena, che Enrico ha con la sorella (bravi qui Antonucci e Marková nel renderlo con delicatezza). Di grande impatto l’allestimento (coprodotto dal Carlo Felice, dal Comunale di Bologna e dall’ABAO di Bilbao) e le scene (Maurizio Balò) che pur nel loro scarso numero, o forse proprio in virtù di esso, hanno reso - insieme a delle luci (Linus Fellbom) che definire splendide è dire poco - più cupa la morte, più tempestosa la tempesta, più sola la solitudine: un ottimo insieme per davvero. Tra i costumi (Silvia Aymonino) particolarmente bello quello di Arturo ed elemento di movimento è stato il cappotto di Edgardo indossato e tolto almeno due volte. Come si diceva qualcuno si sarà lagnato per la scelta di vestire gli attori come scozzesi degli anni Quaranta ma va benissimo lo stesso.
Alle bacchette buona la prova durante tutta la rappresentazione per Andriy Yurkevych.
Tra le voci affettuosamente applaudito è stato Andrea Bocelli che è arrivato col mestiere dove purtroppo non è arrivata la voce. Trionfo per la Marková (apprezzata in particolar modo, oltre alla follia, la quinta scena della Prima Parte) apparsa un poco troppo corposa dove la partitura richiede un fil di voce e un po’ mancante sul piano della mimica scenica, di grande qualità mi sono sembrati i sovracuti: ciò che è certo è che il pubblico pagante si è spellato le mani e dunque può uscire a testa alta dalla rappresentazione.
Buona la prestazione di Antonucci perfetto in tutte le caballette (chi scrive le ama particolarmente) ed in tutti i rapidi movimenti che Donizetti ha posto per far tamburellare le dita a generazioni spettatori. Velata la voce di Nardis mentre beniamino del pubblico è stato certamente Buccino che ha regalato al pubblico un ottimo Raimondo: autorevole ed insieme tenero ha ben riempito con il proprio timbro le orecchie di quanti erano in sala (più di uno i “bravo Mariano”).
In chiusura di questa stagione (ma gli appuntamenti di altra natura del Carlo Felice proseguono tutto l’anno con cadenza regolare) un applauso da spettatore e da giornalista va rivolto a tutti coloro che hanno lavorato dietro le quinte in un teatro (tra i più importanti d’Italia) che riesce a regalare al proprio pubblico ed alla città una qualità complessivamente alta senza adagiarsi (come dimostra “Miseria e Nobiltà” proprio in questa stagione) su nessuna certezza. Speriamo che la città si stringa sempre attorno al suo teatro sostenendone anche, quando serve, con adeguata generosità i suoi bilanci.
Nella foto Lucia (Zuzana Marková) e Raimondo (Mariano Buccino). Foto Marcello Orselli - Teatro Calro Felice