Alcuni autori sono entrati nella storia molto più per la valenza politica della loro opera che per la sua qualità artistica: basti pensare a uno scrittore come George Orwell, le cui opinioni sono oggetto di discussione accademica e non molto più che le caratteristiche estetiche del suo stile. Al contempo, esiste una corrente opposta che sostiene che l'arte dovrebbe rimanere al di sopra della discussione politica, separata da essa e esterna ad essa, per poter rimanere fruibile a un pubblico il più possibile inclusivo, senza presentarsi ostile a nessuna categoria. In tempi recenti, è quasi all'ordine del giorno assistere a controversie intorno all'uno o all'altro artista, criticato per aver dato voce a opinioni politiche o averle incluse nella propria opera. “Sono qui per la musica, o per i libri, non per sentir parlare di politica” è un'espressione sentita sempre più di frequente; particolarmente negli ultimi anni, in cui il discorso politico si è fatto sempre più polarizzante e una nuova ondata di mobilitazione civica ha coinvolto, in maniera del tutto naturale, anche la comunità degli artisti.
In un certo senso, entrambe le posizioni sono comprensibili, ed entrambe sono naturali. L'arte, specialmente in un'epoca profondamente globalizzata in cui un artista può legittimamente coltivare l'ambizione di parlare a un pubblico enormemente più ampio di quello che gli sarebbe stato disponibile anche solo cinquant'anni addietro, ha come sua caratteristica fondante quella di cercare di includere, non escludere; o quantomeno di entrare in dialogo con quante più categorie umane possibili, sia pure da angoli diversi. Allo stesso tempo, tuttavia, l'utilizzo efficace, pertinente, e di successo dell'arte come strumento politico, talora perfino come arma dialettica, è tutt'altro che nuovo.
Così è stato negli anni della Rivoluzione Francese; con i numerosi artisti associati in qualche misura al marxismo nei suoi anni fondanti, e più avanti al movimento anarchico; e, andando molto più addietro nella storia, già nell'Impero Romano, quando un plotone di poeti al soldo dell'imperatore Augusto furono tra i principali strumenti della consolidazione del nuovo sistema politico, rendendolo familiare e accettabile alle masse. Molto spesso, particolarmente in situazioni in cui un certo livello di controllo viene esercitato da un potere centrale sui mezzi d'informazione, l'arte si trasforma in mezzo alternativo per dare voce a opinioni politiche che contrastano quelle di chi detiene quel potere. È un impegno che l'arte ha sempre posseduto, e che ha guadagnato a un buon numero di artisti conseguenze anche gravi, dalla censura all'esilio.
Normalmente, tuttavia, esistono categorie specifiche di arte, anche di ampia fruizione popolare, con cui questo impegno politico è più tipicamente associato: la letteratura, un certo genere di teatro di prosa, alcuni generi di musica. Il musical, nelle forme che acquista principalmente nelle due grandi comunità della West End londinese e di Broadway, non appartiene, almeno nell'immaginario condiviso, a questa lista; se temi politici sono apparsi in alcuni musical – il più celebre è probabilmente Les Miserables, adattato dal romanzo corale di Victor Hugo – sono quasi sempre separati dalla sfera contemporanea, e quindi in qualche modo disinnescati in virtù di questa distanza. Il musical rimane, per i grandi pubblici che accorrono ai teatri della West End per assistervi, principalmente uno spettacolo di puro intrattenimento, caratterizzato da complesse coreografie e scenografie ricche di luci e paillettes.
I generici sentimenti attribuiti al generico coro dei rivoluzionari francesi in Les Miserables, armati di una generica bandiera rossa, sono sufficientemente separati dalla situazione contemporanea perché il musical possa essere apprezzato anche da un pubblico che non ne condividerebbe la sottile, ma presente, impostazione di sinistra. Molto più complesso, e molto più rischioso, sarebbe portare su un palco, in un ambiente di impostazione tanto leggera come quello del musical di lingua inglese, un tema politico assolutamente pertinente al dibattito contemporaneo, e portarvelo prendendo una posizione specifica e assolutamente di parte, enunciandola apertamente, e colorandola di una critica molto severa a un certo genere di politiche che sono tuttora in atto, non relegate in una dimensione storica. La scorsa settimana ho avuto il privilegio di poter assistere alla prima di The Last Ship, un nuovo musical – in realtà, forse, più propriamente un'opera rock; ma la distinzione tra i due generi è sempre stata in qualche misura labile – che ha programmaticamente deciso di fare proprio questo.
Opera del noto musicista inglese Sting, che ne ha curato trama, testi e musiche, The Last Ship ha avuto una gestazione complicata: un primo tentativo di metterlo in scena a Broadway già nel 2014 non è andato a buon fine, e solo ora il musical ha riaperto nel Regno Unito, grazie all'impegno collettivo di vari gruppi che hanno contribuito alla sua produzione e messa in scena. È difficile separare questa storia travagliata dalla profonda natura politica dei suoi temi, del suo linguaggio, e della sua presentazione. In maniera ineludibile, The Last Ship parla di un tema di grande attualità non solo nel Regno Unito contemporaneo, dove il potere è detenuto da un governo conservatore che, specie negli ultimi due anni, ha adottato politiche di destra sempre più radicali, ma anche nel resto del mondo anglofono, in cui il conflitto di classe sta tornando a riproporsi in maniera marcata nella coscienza collettiva.
Ispirato da eventi storicamente avvenuti nella sua città natale di Wallsend, il musical di Sting racconta la lotta degli operai di un cantiere navale minacciato di chiusura per conseguenza delle politiche industriali del governo Thatcher. Apparentemente storico, il tema è in realtà dolorosamente attuale: politiche praticamente identiche sono in corso in questi anni nel Regno Unito, dove la stessa lotta è ancora in corso, ad esempio, attorno alle acciaierie di Port Talbot, anch'esse minacciate di chiusura sulla base di logiche di mercato, e altrove – negli Stati Uniti di Donald Trump, ma anche potenzialmente nel resto d'Europa.
Più problematico ancora, il musical non si limita a rappresentare questa lotta e ricollegarla alla situazione contemporanea, ma adotta una ben precisa posizione politica, che non si limita a supportare la parte dei lavoratori contro quella del sistema che mette a rischio i loro posti di lavoro: è invece una posizione consciamente e apertamente ideologica. Le parole di alcune delle canzoni, particolarmente quelle corali assegnate ai lavoratori del cantiere nel loro insieme, riprendono un linguaggio che appartiene inequivocabilmente alla tradizione marxista. Un punto cruciale della trama è autodefinito come "riappropriazione dei mezzi di produzione". In alcuni momenti, quel che viene presentato al pubblico non è troppo diverso dal Manifesto del Partito Comunista in musica – certamente ne riecheggia i toni e il lessico.
Particolarmente in un musical di lingua inglese, che della tradizione del musical di lingua inglese mantiene la tendenza alla grandiosità, al senso dell'umorismo e all'intrattenimento, un approccio da questo angolo è inedito, ed è evidente che rischi di sollevare polemiche: il linguaggio marxista, se ammesso nell'arte, appartiene però ad arte destinata a circolare in ambienti più ristretti e connotati come intellettuali, non presentata in maniera facilmente leggibile al grande pubblico. Esiste un accordo non scritto che quest'ultimo genere di arte, l'intrattenimento glitterato del sabato sera, non debba essere politico, e più di tutto non debba essere politicamente schierato, tantomeno presentare punti di teorica sociale – sia pure in una canzone.
Il musical ha appena aperto nel Regno Unito, e ha una qualche ambizione di conquistarsi nuovi palchi; pur con un nome importante come quello di Sting a sostenerlo, non c'è da dubitare che scatenerà una buona quantità di polemiche. Già solo nella sera della prima, appena una fila dietro di me nel teatro, abbiamo assistito a uno spettatore che si è alzato indignato e se n'è andato durante l'intervallo, proclamando che questa politicizzazione di un'opera teatrale fosse disgustosa. La ragione per le difficoltà di distribuzione incontrate dall'opera non è mai stata resa specificamente chiara – ma è quasi automatico sospettare che la scelta di schierarsi in maniera tanto aperta, e tanto chiaramente connotata, in un discorso politico che non si nutre di facili populismi, ma di un solido impianto storico e teorico, faccia parte della questione.
Eppure che uno spettacolo come questo sia su un palcoscenico, e se ne parli, e più di tutto che la grandissima maggioranza di un pubblico inizialmente sospettoso se ne faccia coinvolgere e lo gratifichi, a performance conclusa, con una standard ovation, dice molto sul discorso politico contemporaneo; dice molto su un grande pubblico che è forse più disposto, ora, a parlare di politica – a parlarne in termini complessi e dettagliati, non solo tramite facili slogan – di quanto fosse anche solo dieci, cinque anni fa. Dice molto su una scena artistica che sta iniziando a rendersi conto di non poter sempre del tutto ignorare questioni sociali che non sono soltanto legate a temi identitari, ma ai vecchi temi di classe, che ci avevano detto morti e seppelliti e che invece stanno tornando alla ribalta tanto prepotentemente da rendere impossibile fingere di non notare la loro presenza. Dice molto sul potere dell'arte, anche nei generi che sono sempre stati relegati nella sfera del puro intrattenimento, di intervenire in questo discorso, e usare parole importanti senza avere paura delle conseguenze, e mostrare che quelle parole sono ancora rilevanti e possono essere ancora sentite.
L'arte, naturalmente, non ha l'obbligo di intervenire, in ogni singolo caso, nel discorso politico. Il suo patrimonio copre una varietà di temi e problematiche che si estende ben oltre la semplice sfera della politica, e sarebbe assai riduttivo costringerla a limitarsi a essa. Ma altrettanto riduttivo sarebbe forzarla a diventare semplice passatempo, contenitore vuoto fatto di luci abbaglianti e rumori forti e emozioni innocue, utilizzato solamente per distrarsi dai problemi seri. Ogni forma d'arte, perfino un musical scritto da un musicista rock, ha in sé il potenziale di intervenire come una voce sonora e difficile da ignorare in un dibattito politico che sta ridiventando, a dispetto di tutte le pressioni dall'alto, vivace e focalizzato sulle questioni di classe. E se, in questo contesto, il dibattito può irrompere su un palcoscenico, e portare il pubblico del sabato sera a discutere di lavoratori e di mezzi di produzione, allora il connubio non sempre facile tra arte e politica non può che essere benvenuto.
Immagine ripresa liberamente da chicagotheater.com