Un pasticcio chiamato Scuola del Patrimonio
La formazione da un po' di tempo a questa parte, nel nostro Paese, sta assumendo sempre più i connotati di un'eterna esperienza ciclica che pare non voler terminare mai.
Pompei, orde di turisti in assalto
Litanie e sermoni, ormai ci siamo abituati: “Pompei è un tesoro”, “I siti archeologici come Pompei sono il nostro petrolio”, “Crolla tutto a Pompei, è li che dobbiamo investire poiché da lì possono nascere molti profitti”. Parole e musica di salotti della Tv, del bar sotto casa fino alle tribune politiche passando per il Parlamento. Un ritornello diventato classico per l’informazione italiana: parlare di siti storico-archeologici solo in qualità di merce e solo rispetto a situazioni “straordinarie” come quella dell’antica città vesuviana distrutta 2000 anni orsono. Sia chiaro Pompei è un sito straordinariamente importante sotto molti punti di vista; l’enormità di dati che da esso si possono ricavare (dall’antropologia, passando per la botanica fino all’archeologia pura) sono stupefacenti, tutto ciò però non giustifica un “assalto ai forni” quanto mai deleterio e pericoloso.
Troppo spesso nella disamina più o meno convinta del patrimonio storico-culturale, paesaggistico e archeologico sentiamo risuonare il termine “parco”. Nell’immaginifico quotidiano il parco è quasi un sistema chiuso, ben coibentato rispetto al mondo esterno, da sfoggiare in maniera estremamente consumistica durante determinate occasioni “rituali”.
Abbiamo tutti negli occhi la situazione in cui versa il patrimonio soprattutto per quel concerne il sistema parco archeologico. Se infatti i parchi naturalistici stanno con difficoltà immani, sulla gestione e sulla valorizzazione resistendo agli attacchi dei non-investimenti nel settore. La risorsa archeologica, “confinata” spessissimo in delittuoso stato di abbandono.
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