Beccai

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Il profilo per gli articoli scritti a più voci, dai collaboratori del sito o da semplici amici e compagni che ci accompagnano lungo la nostra esperienza.

Intervista a cura di Chiara Del Corona ed Elena De Zan

Rohina Bawer è una giovane donna nata a Kabul, in Afghanistan che oggi si batte, grazie a un progetto di lavoro con COSPE e HAWKA (Humanitaria Assistance for children and women of Afghanistan), per la difesa degli attivisti e dei diritti umani. Nel suo lavoro con le due associazioni, si occupa prevalentemente di comunicazione e di coordinamento dei vari focal point che lavorano nel progetto nelle diverse province afghane.

Giovedì, 27 Ottobre 2016 00:00

Accumulazione di capitale e il nuovo da capire

Pubblichiamo qui di seguito uno scambio avvenuto tra Mauro Lenzi e Paolo Favilli sulle colonne de Il manifesto convinti che possa essere da stimolo per una riflessione più generale.

L’articolo di venerdì 21 ottobre di Paolo Favilli pubblicato sul manifesto (La sinistra e l'inedita questione sociale dei nostri tempi), purtroppo alla fine, introduce la necessità di un approccio al dibattito che consideri che “Oggi la ‘questione sociale’ si manifesta anche con tratti che “...nella…” storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo (sottolineatura mia) è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di ‘accumulazione flessibile’. Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno.”

Mi pare un approccio promettente. Purtroppo, ripeto, arriva alla fine dell’articolo e la necessità di sintesi mi ha penalizzato in una comprensione più ampia: che si intende per "accumulazione flessibile"? Ho la sensazione che Favilli dia un significato importante a questo termine, addirittura dirimente. Probabilmente nella pubblicistica il concetto è da tempo e ripetutamente chiarito e esplicitato ma, per mia ignoranza, non ne sono edotto. È possibile da parte di Favilli fare un altro pezzo di approfondimento in grado, secondo me, di aprire ulteriori spazi al dibattito? Appunto, altro rispetto ai ‘balletti’ giustamente redarguiti di Favilli.

 ***

Caro Lenzi,

hai perfettamente ragione, la necessità di sintesi ha portato a considerare scontate questioni che non lo sono per niente.

L'espressione "accumulazione flessibile" è del geografo inglese David Harvey, uno dei più importanti studiosi delle tendenze odierne del capitale. La fase indicata con quell'espressione non si contrappone alle tendenza generali di accumulazione del plusvalore, ma le modella a seconda delle forme che il contesto rende possibili. In un certo senso il capitalismo di ogni fase è sempre un "nuovo" capitalismo.

Le possibilità odierne di comprimere ed interconnettere a velocità crescente e sempre più profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, aprono ad un'ampia gamma di forme di flessibilità. Quelle più evidenti riguardano il mercato del lavoro che assume una struttura centrale sempre più ristretta di occupazione stabile e, via via che ci si allontana dal centro, sempre più ampie cerchie di lavori temporanei, subappaltati in una catena lunghissima di delocalizzazioni. Questa struttura del mercato del lavoro permette di combinare modi altamente tecnologici di estrazione del plusvalore e modi antichi. Infatti nella sfera centrale del mercato, dove è collocata una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato, l'acquisizione di plusvalore non è direttamente legata alla durata della giornata lavorativa. Via via che si scende nella catena della flessibilità di assiste alla diffusa rinascita di sistemi di lavoro in cui è possibile estendere l'orario della giornata lavorativa e forme di sfruttamento sul modello dell'accumulazione originaria.

Inoltre l'abnorme finanziarizzazione dell'economia permette non solo un'accumulazione che non passa attraverso la produzione di merci, e quindi di lavoro, ma è anche un'ulteriore, ed assai importante, spinta alla velocizzazione dei tempi di tutte le forme di flessibilità.

Ecco, a mio parere, questo insieme problematico deve essere al centro tanto della riflessione che dell'iniziativa politica della nostra sinistra. Non è un compito facile, ma al di fuori di questo percorso, che non avrà tempi brevi, si perde davvero il senso della politica per chi intende davvero essere l'erede della storia del movimento operaio.

 

 

Mercoledì, 26 Ottobre 2016 00:00

Identità irlandese: dalle origini ad oggi

 di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo

Identità irlandese: dalle origini ad oggi


«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi


«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger

Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.

Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.

L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.

Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.

Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.

Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.

Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.

Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.

Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.

L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).

Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.

Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.

Mercoledì, 28 Settembre 2016 00:00

Le facoltà del potere - Call for papers

LE FACOLTÀ DEL POTERE
Call For Papers
1 dicembre 2016

Proponente: Associazione Il Becco con il sostegno dei fondi del DSU Toscana destinati alle attività studentesche
Scadenza candidature: Domenica 20 Novembre 2016
Informazioni/contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Keywords: potere, soft power, hard power, società, politica

Giovedì, 05 Maggio 2016 00:00

Educazione tra Lisbona ed Europa 2020

Educazione tra Lisbona ed Europa 2020

Intervista di Diletta Gasparo a Chiara Agostini, ricercatrice per il Centro Einaudi pubblicata sul numero cartaceo L'educazione ai tempi dell'Unione Europea di febbraio

Sin dalla definizione della Strategia di Lisbona del 2000, l'Unione Europea ha fatto dell'istruzione e della formazione (ET, Education and Training) uno dei più importanti campi di azione e intervento. Come riassumeresti le indicazioni e gli stimoli elaborati da Bruxelles?

Nel quadro della strategia decennale per la crescita e l’occupazione lanciata nel 2000 (Strategia di Lisbona), l’istruzione e la formazione professionale erano concepite come elementi chiave di un modello di sviluppo basato sull’economia della conoscenza. Fin da quegli anni l’UE ha sostenuto l’idea che investire in istruzione e formazione equivalesse a investire nel capitale umano e quindi a promuovere il progresso economico e il miglioramento della competitività delle economie. Se però inizialmente tutto questo si accompagnava a un’idea forte di crescita inclusiva, con il passare del tempo il focus si è spostato sempre più sull’idea di “crescita” economica e meno sugli aspetti legati all’inclusione.

Mercoledì, 04 Maggio 2016 00:00

Sulla verticalizzazione del governo delle cose

Leonardo Croatto per il numero cartaceo È la libertà che guida il popolo, dicembre 2015

La scuola

Recentemente è stata approvata l'ennesima “riforma” della scuola, su linee leggermente diverse da quanto era circolato nelle bozze che circolavano nei mesi passati. Ci eravamo già occupati, in un articolo pubblicato sul nostro sito web, della versione embrionale di questa “riforma”, partendo proprio dall'abuso del termine “riforma”, che caratterizza ogni atto normativo di importanza anche modesta degli ultimi governi.

Intervista di Dmitrij Palagi a Giovanni Mazzetti

1) In un articolo dell'inserto economico di la Repubblica (lo trovi qui) si parla del "capitalismo del web" come della "vera rivoluzione". In tedesco viene definita Plattform- Kapitalismus, in inglese Share Economy. Chi si oppone a questo nuovo modello viene chiamato "conservatore" e additato come persona fuori dalla storia. Eppure in questo meccanismo ogni pezzo della nostra vita diventa merce e non esiste alcuna regola al di fuori di quelle del mercato. Di nuovo torna l'elogio della flessibilità, come se questa non si fosse rivelata un dramma di precariato ed insicurezza nel recente passato. Come risponderesti ad Alessandro De Nicola, autore del suddetto articolo?

Direi che De Nicola, e gli altri con i quali fa il corifero, vedono dei cambiamenti senza rendersi conto di che cosa si tratta.  Da come descrive il Plattform Kapitalismus - "un sistema di scambi volontari attraverso il quale una persona mette a disposizione i propri beni per il loro utilizzo parziale da parte di altri attraverso una piattaforma web gestita da un'organizzazione o un'impresa" descrive un’evoluzione del sistema in modo apologetico, invece che critico.  Non vede, innanzi tutto, che c'è una forma di parassitismo dell'impresa che crea la piattaforma, la quale preleva una parte dei soldi che passano di mano per il solo fatto di fare da intermediario.  In fondo, dietro a questo sistema non c'è altro che il vecchio commerciante tecnologicamente ripulito.

Tuttavia, in quel "mette a disposizione" c'è una dinamica della quale De Nicola non ha proprio idea.  La società borghese poggia infatti storicamente sul fatto che i beni di ognuno sono sua proprietà esclusiva.  Storicamente chi ospitava a casa sua estranei in cambio di denaro era considerato un “poveraccio”, che non aveva abbastanza per vivere e lo rimediava in quel modo. Ricordo ancora chiaramente gli affittacamere degli anni ’40 e ’50 nel mio palazzo, così come ricordo delle famiglie che riciclavano i vestiti dismessi dei figli per integrare un misero reddito.  Questo perché alla forma merce della ricchezza si accompagnava normalmente l'uso esclusivo della stessa. Solo i poveri dividevano quel poco che avevano in cambio di denaro, ma lo facevano perché costretti dalla loro povertà.  È fuori di dubbio che, se il buon Adam (personaggio della “parabola” apologetica del De Nicola, avesse i soldi agirebbe in tutt'altra maniera, e cioè  noleggerebbe una macchina o prenderebbe un taxi invece di doversi rivolgere a quello che fino a ieri era considerato un abusivo; invece di andare a casa di una "deliziosa"(?) vecchietta a mangiare, andrebbe in un buon ristorante; invece di noleggiare uno smoking, che magari gli andrà largo o stretto, lo avrebbe comperato; invece di affittare una casa per tre giorni sarebbe andato in albergo. L’ignorare che la condivisione per necessità è una manifestazione di povertà, può derivare solo da una forma apologetica di pensiero, che raccolta la vita in maniera favolistica. Gli individui che non possono soddisfare i loro bisogni sono costretti a muoversi entro limiti che mettono in discussione la loro proprietà (privata), e poiché gli intermediari capitalisti creano le condizioni tecniche della riuscita di questo regresso, De Nicola e gli altri la incensano come “libertà rivoluzionaria”.

La mistificazione sta, dunque, nel far apparire questa necessità come una libertà. Nel rappresentarla addirittura come un potere nuovo, che “rivoluzionerebbe” lo stato di cose esistente. Qui bisogna procedere con circospezione. È vero che questa forma di condivisione mercantile di momenti della vita e della cose rappresenta un’ulteriore socializzazione delle condizioni dell’esistenza. Ma il fatto che intervenga in forma capovolta, cioè sulla base dei rapporti capitalistici, la determina come un’evoluzione profondamente contraddittoria. Per spiegarmi meglio. Un passaggio del genere è già intervenuto nella storia dell’umanità. Come forse sai, nel Seicento e nel Settecento, molti borghesi in ascesa cercavano di affermare il loro potere – potenzialmente nuovo – con l’accesso alle forme del potere preesistenti. Vale a dire che chiedevano di entrare a far parte della nobiltà. Non si rendevano conto che il tal modo confermavano proprio quei rapporti dai quali cercavano di emanciparsi. Ma quando, a fine Settecento, riconobbero il loro errore, mossero in direzione opposta, abolendo i titoli nobiliari come forme del potere sociale, e rivendicando l’eguaglianza di tutti gli individui. Ora, questa “condivisione mercantile della vita e dei beni svolge un ruolo analogo a quella della rivendicazione dei titoli nobiliari da parte dei borghesi: riproduzione di un abbozzo del nuovo in una forma vecchia che lo contraddice.
Purtroppo mancano oggi i soggetti capaci di sperimentare la contraddittorietà di questa evoluzione, e sta a quei pochi che conservano un approccio critico alle forme di vita, socializzare la loro esperienza.

In una precedente intervista ci avevi spiegato come separare la questione del reddito dal tema del lavoro sia funzionale all'impedirci di pensare ai modi di produzione. Su Il Becco abbiamo tentato spesso di andare oltre il dibattito sul reddito di cittadinanza, provando a guardare a una nuova proposta di società. Tu credi che per poter ipotizzare nuovi modelli economici si debbano recuperare Marx e Keynes?

Marx e Keynes sono i pensatori che più di altri hanno saputo anticipare la dinamica insita nei rapporti sociali capitalistici e del livello ai quali sono giunti oggi. E siccome sarebbe ingenuo sperare di poter procedere da zero, ad essi dobbiamo far riferimento. È però importante distinguere il pensiero dei due autori, da quello di molti seguaci che si sono susseguiti nel tempo.
Come per il resto dei problemi sociali dei quali si nega la complessità, il pensiero di Marx e di Keynes, è stato spesso banalizzato, sia dagli avversari che dai seguaci. Quanti keynesiani oggi insistono che le vecchie politiche keynesiane dovrebbero consentirci di riprendere la strada della crescita! Ma entrambi gli autori hanno sottolineato che quando sopravviene una crisi è illusorio pensare di poter affrontare i problemi ferma restando la struttura delle relazioni sociali. La crisi corrisponde infatti al disgregarsi della forma di vita data, per l’inadeguatezza della cultura nella quale si concretizza. Certo, si tratta di un compito immane, che però non può essere evitato. Ma credo che la maggior parte dei keynesiani non abbiamo alcuna idea di che cosa possa trattarsi. Ma anche molti sedicenti marxisti, rimasticano vecchie categorie, che indubbiamente erano adeguate per le lotte del passato, ma che ornai non sono più all’altezza del mondo che abbiamo creato.

In un recente libro-intervista di Carlo Formenti e Fausto Bertinotti la crisi della socialdemocrazia è direttamente collegata alla fine dell'esperienza del socialismo reale e al mutamento sociale che ha sgretolato ogni classica forma di rappresentanza, anche sindacale. Le speranze si rivolgono ai movimenti dal basso e a chi spesso guarda ad un paradigma alto-basso sostitutivo di quello destra-sinistra. Sindacati e partiti appaiono strumenti superati. Tu che ne pensi?

Non credo che sia stata “la fine del socialismo reale” a determinare “lo sgretolamento di ogni forma classica di rappresentanza”. È piuttosto che il mondo è cambiato così profondamente, in conseguenza del raggiungimento degli obiettivi che in maniera solo parzialmente consapevole la società ha perseguito che rende i preesistenti rappresentanti non all’altezza dei nuovi problemi. Se si prova a spiegare ad un sindacalista o a un politico che, come avevano previsto sia Marx che Keynes, è emersa “una difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato” e li vedrai letteralmente scappare. Si tratta di un problema che per loro è impensabile – e lo è stato anche per Bertinotti, che in un congresso di Rifondazione ha sostenuto che si trattava di un’emerita bufala. Ma se il riconoscimento dell’emergere di questa difficoltà si frappone alla rappresentazione di qualsiasi sviluppo alternativo, è ovvio che chi pretende di rappresentare i bisogni della società finisca col mostrare una totale impotenza. E prima o poi non venga più ascoltato.

Trovo l’idea di un movimento salvifico “dal basso” una vera e propria trappola. Per concepirla bisogna avere un’idea del tutto distorta della situazione in cui ci troviamo. Vale a dire che le classi dominanti non andrebbero incontro ai bisogni delle masse per opportunismo o per cattiveria. Ma nella realtà le classi dominanti sono travolte da una totale incomprensione della crisi. Tuttavia le classi subalterne non sanno esprimere i loro bisogni e la loro condizione contraddittoria meglio di loro. Mi trovo continuamente a discutere sulle questioni previdenziali, con compagni molto schierati e critici. Eppure, scava scava, e ti trovi di fronte a forme di pensiero che non hanno nulla di alternativo rispetto al demente senso comune oggi prevalente. Non dimentichiamo che quando è stato investito da Napolitano del compito di formare il governo, Monti aveva il gradimento positivo di circa il 70% degli italiani.
Temo che prima di porre il problema di chi rappresenta coerentemente i bisogni sociali si debba ancora lavorare a dipanare la matassa della costruzione di una cultura alternativa. Non è detto che poi non si riesca ad organizzare il movimento in una forma partitica (profondamente diversa da quella attuale) e a trovare lo spazio per agire sindacalmente.

Giovedì, 21 Aprile 2016 00:00

Venti macchinisti morti in un anno

Riceviamo questo articolo dalla rivista Ancora In Marcia e condividiamo con piacere. Crediamo infatti fermamente che ogni caso, di come ce ne sono sempre più frequentemente, di condizioni logoranti del lavoro debba essere diffuso il più possibile.

Venti macchinisti morti in un anno

Nell’ultimo anno la nostra rivista si è dovuta assumere il triste compito di dare la notizia di una ventina di macchinisti prematuramente scomparsi. E già nel prossimo numero, ancora in lavorazione, saranno inseriti altri 3 necrologi, augurandoci che nel frattempo non ne arrivino altri…

Di Chiara Del Corona e Lorenzo Palandri

“Per il tuo libero pensiero
sei imprigionato da tanto tempo.
Così tanto che il mio lamento
non riesce più a raggiungerti.
E solo odi il vento.
E solo odi il mare.”
(“Abandono”o “Il Fado di Penichei”)

Il teatro non è soltanto un momento ludico o di evasione. Il teatro ha anche il potere di far riflettere e di educare, o, meglio ancora, di sensibilizzare. Questo è l’intento di “Matite spezzate”, nato dalla penna del regista Alessandro Becherucci e messo in scena l’8 e il 9 aprile dalla Compagnia Stabile di Prosa del Teatro Nuovo Sentiero.

Venerdì, 04 Marzo 2016 00:00

I motivi del no alla riforma costituzionale

I motivi del no alla riforma costituzionale

Daniele Sterrantino e Chiara Del Corona

Il primo marzo, si è tenuta a Lastra a Signa la prima riunione del Comitato per il No alla riforma Costituzionale, sulla quale i cittadini sono chiamati a esprimersi il prossimo ottobre. Daniele Sterrantino (RFC) e Matteo Gorini (Sinistra Italiana) hanno delucidato in maniera approfondita i punti cruciali della Riforma del Senato e chiarito i perché di un voto contrario a tale riforma adducendo motivazioni che quasi sempre vengono occultate o mascherate dalla propaganda del governo e dalla comunicazione mediatica main stream. Anche la campagna referendaria che partirà per promuovere il voto favorevole alla riforma sarà probabilmente tutta giocata all’insegna di una strumentale retorica efficientista che elogia il fare del governo e farà passare coloro che mettono invece in luce le ragioni per cui essere contrari a tale riforma, come i soliti “gufi” disfattisti che ostacolano ogni tentativo funzionale alla ripartenza del paese.

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