Alessandro tiene a sottolineare che il ricordo e la memoria sono fondamentali, così come è necessario raccontare le storie, spesso dimenticate, di coloro che hanno combattuto in nome di giustizia e libertà e che, grazie alla loro lotta e alla loro resistenza, hanno fatto sì che noi oggi possiamo godere e gestire questa stessa libertà, pagata col sangue di anime innocenti. Libertà che per un artista è come l’aria che respira. La storia che La compagnia del Teatro Nuovo Sentiero porta in scena è quella di Catarina Reis, che, nel 1965, al tempo della dittatura di Salazar venne rinchiusa, come tanti altri oppositori al regime (o presunti tali) nel carcere-fortezza di Peniche. Catarina è un personaggio inventato, ma incarna simbolicamente tutte quelle donne che hanno messo in gioco la propria vita per difendere una libertà che la feroce dittatura di Salazar stava loro rubando.
Catarina in realtà non sapeva cosa era la Resistenza, né aveva veramente idea di chi fosse quel sanguinario dittatore, anzi, pensava addirittura fosse un uomo distinto che cercava di far bene il suo (secondo lei) non semplice lavoro. La sua unica passione era recitare, cosa che faceva ritrovandosi con i propri compagni nel variopinto quartiere dell’Alfama. L’altra sua passione era Norberto, compagno di teatro che amava con tutta se stessa. Un giorno, durante una festa dei teatranti irrompe la polizia di Salazar che porta via la ragazza, allora solo diciottenne e totalmente inconsapevole di quel che le stava accadendo. Catarina in un primo momento pensa a uno scherzo dei compagni, ma si rende conto ben presto che la situazione è drammaticamente vera, non appena viene caricata sul “camion” della polizia che la condurrà al carcere. Da quel momento tutti i suoi sogni vengono spezzati e la vita e il destino di Catarina prenderanno una direzione completamente diversa da quella che la ragazza aveva immaginato.
Ma veniamo allo spettacolo. Il pubblico viene fatto accomodare in una prima sala, di fronte alle mura (di compensato) della prigione di Peniche. Il regista accoglie il pubblico spiegando l’intento dello spettacolo ed evidenziando l’importanza della memoria. Dopodiché invita Catarina Reis a raggiungerlo e a raccontare la propria vicenda e le proprie impressioni. Gli spettatori si trovano così dinnanzi a quella che sembra una reale intervista: l’interpretazione magistrale di Sandra Ballerini (Catarina ai giorni nostri) è talmente vera e sentita che lo spettatore è quasi indotto a dimenticare che Catarina non è una persona ma un personaggio inventato.
Dopo il commovente racconto, due guardie (due attrici) chiamano a piccoli gruppi gli spettatori accompagnandoli in un’altra sala, ovvero, dentro la cella del carcere, dove Catarina e le altre compagne sono imprigionate. Una bellissima e potente voce di donna canta un triste fado portoghese (“Abandono” di Amalia Rodigrez, detto anche “Il fado Peniche”), mentre gli spettatori vengono fatti accomodare, rapiti fin da subito da un’atmosfera struggente e commovente. La messa in scena è sorprendente: il pubblico non è più semplice spettatore ma si trova realmente dentro la scena, come fosse parte di essa, fin quasi a trasformarsi nelle mura carcerarie che circondano le prigioniere, diventando testimone partecipe del dramma che esse vivono.
Due delle carcerate stanno ancora dormendo. Altre due donne parlano tra di loro con fare furtivo, bisbigliando per non farsi sentire dalle altre. Si tratta di Octavia e Zelia, due ragazze della resistenza. La prima confida all’altra che il proprio compagno è chiuso nella stessa prigione ma i due amanti sono riusciti a non farsi scoprire, così che la polizia è ignara che l’uomo sia imprigionato lì dentro. L’altra, Zelia, cui l’intensa Giorgia Mori conferisce tutta la drammaticità del conflitto interiore che la ragazza vive, tutta la sua disperazione ma anche la straordinaria tenacia, è elemento fondamentale della Resistenza, grazie alla sua incredibile capacità di ricordare nomi e dati di ogni compagno. Nonostante non abbia bisogno di buttare niente per iscritto, la ragazza porta sempre con sé delle matite, che diventano fonte di sopravvivenza emotiva, simbolo di quell’attaccamento alla vita e alla normalità ormai perduta, e a quella libertà strappata per sempre. Anche la storia di Zelia è terribile. Figlia del giudice Pinto, conservatore complice del regime, in un momento di debolezza, dopo una retata ai danni degli studenti, si reca dal fratello per cercare un po’di conforto. Lui non sa nulla dell’attività resistente della sorella, e, proprio nel momento in cui accoglie quest’ultima, la polizia, già sui passi di Zelia, fa irruzione nell’appartamento del ragazzo e li arresta entrambi. Zelia si sente colpevole per la sorte del fratello completamente innocente e viene ricattata durante i ripetuti interrogatori, affinché, in cambio della liberazione del fratello, riveli i nomi dei principali organizzatori della Resistenza. Zelia è stata tentata di fare il nome di una compagna che riteneva essere una spia, con la speranza di poter salvare così il fratello, ma ha sempre desistito e questo fa comprendere quanto Zelia, pur straziata dai sensi di colpa e in pena per la sorte del fratello che lei stessa ha compromesso, resti leale e coerente fino in fondo. Octavia, interpretata dalla perfetta Cristina Bacci, è forse la più lucida e forte delle quattro, dotata di una fiera razionalità e di una determinazione incrollabili; nonostante la paura e la rabbia, esorta la compagna a resistere e a non lasciarsi sfuggire niente durante gli interrogatori. “Non dobbiamo diventare delle spie, non dobbiamo diventare come i nostri carnefici”, dice Octavia, prima di salutare la compagna, disperata, che viene chiamata per l’ennesimo interrogatorio.
Nel frattempo si svegliano le altre due ragazze. Catarina, la nostra protagonista, ed Elvira, un’altra resistente. La bravura del regista è aver saputo fare pienamente emergere la specifica caratterizzazione di ogni personaggio. Catarina è una forza esplosiva, calamitante, incontrollata e incontrollabile, piena di quell’energia e di quel fuoco che alberga nei giovani cuori, così pieni di vita e di sogni. Catarina, interpretata dalla giovanissima ma già molto promettente Sara Tombelli, essendo così libera e amante della vita e del teatro, si sente impazzire chiusa dentro quelle claustrofobiche mura senza neanche sapere perché; il suo comportamento è irrequieto, agitato, iperattivo, frenetico e alle volte anche infantile. Odia Zelia perché non riesce a capire come sia possibile che una ragazza che aveva tutto (una famiglia benestante, bellezza, eleganza, ricchezza e raffinatezza), abbia gettato tutto al vento mettendosi volontariamente in quella situazione. Elvira, resa pienamente vera da Irene Polverini, che ha saputo darle tutto quello spessore che si lascia scoprire pian piano, è il personaggio forse più posato ma anche più misterioso. Inizialmente può apparire un po’ dura, quasi algida, molto sulle sue, ma pian piano il suo coraggio, la sua forza, la sua saggezza e la sua compostezza, prendono pienamente forma. Il suo dolore è meno esplicito rispetto a quello esagitato di Catarina, a quello disperato di Zelia o a quello così razionale e indomito di Octavia, ma la sua angoscia, anche se tenuta dentro, emerge a tratti, piccoli flash che lasciano trasparire le sue paure ma anche il suo coraggio e il profondo attaccamento alle compagne. Elvira teme gli interrogatori e il contatto umano, può apparire fredda e riservata, ma ha un cuore saggio ed estremamente leale, sinceramente buono. Ed è forse la sua capacità di guardare agli eventi con un certo distacco, quasi da un punto di vista superiore, che però mai significa rassegnazione o indifferenza, le permette di avere una prospettiva sempre lucida di quel che sta accadendo dentro e intorno a lei. Catarina la provoca in continuazione, così come offende Zelia, con quella rabbia incontrollata tipica della giovane età. Solo Octavia riesce a domarla e a tranquillizzarla. Octavia che per la giovane ragazza è come una madre, la prima ad averla accolta con un “benvenuta ragazzina”.
Tutte queste donne hanno il potere di toccarci, di incantarci, di ipnotizzarci, di intenerirci, di arrivarci dentro come delle lame lancinanti, che ci scuotono nel profondo. Le loro storie sono come pugni nello stomaco, ma la loro forza ci sconvolge e al contempo ci mette in discussione. A tratti riescono persino a farci sorridere, come quando Catarina si mette a interpretare la scena del balcone di Romeo e Giulietta, creando un momento sospeso nel tempo e nello spazio, quasi surreale, quasi magico che per un attimo fa dimenticare la tragicità della situazione e credere a una normalità impossibile. Solo così la ragazza può sopravvivere, solo mantenendo accesa quella passione per il teatro, solo raccontando alle altre del suo amore per Norberto, per la recitazione, del suo piacere di truccarsi e di farsi corteggiare dai molti ammiratori che aveva fuori. La vita esplode dentro l’animo di Catarina che sembra un fiume in piena: passa dalla frivolezza e dall’ingenuità, alla rabbia e alla disperazione, dal riso, alle lacrime, dall’affetto all’acidità provocatoria. Non ha alcuna consapevolezza politica, ma i momenti e gli scambi con le sue compagne di cella le apriranno pian piano gli occhi e la faranno crescere. Non mancano infatti momenti di tensione tra le donne, esasperate a volte da quella forza della natura irrefrenabile che è Catarina. “I tuoi occhi guardano ma non vedono. Tu sei cieca” dice Elvira alla ragazza. Ed è vero, fino a quell’istante che ha cambiato per sempre la sua vita e rotto la sua amena quotidianità, Caterina credeva di vedere, ma in realtà ciò che guardava era solo una pallida seppur confortante finzione, una patina superficiale che nascondeva la durezza di una realtà terribile, fatta di incarcerazioni, soprusi, uccisioni, violenze, torture.
Questo era il regime di Salazar che ha spinto Octavia, Elvira, Zelia e centinaia di altri coraggiosi combattenti a sacrificare la propria vita, la propria tranquilla esistenza nel nome della libertà e della verità. “Io sono innocente, non ho fatto nulla”, grida più volte Catarina che a quella tranquillità e a quell’esistenza fatta di divertimenti giovanili e di sogni luminosi teneva profondamente. “E noi, che colpa abbiamo noi. Qual è secondo te la nostra colpa?” risponde Octavia. La colpa di lottare contro chi uccide, tortura, contro chi vuole privare gli altri della libertà delle proprie idee e dei propri ideali, del proprio pensiero? La colpa, semmai, è quella di chi non ha fatto niente ed è rimasto impassibile spettatore, fingendo di non vedere, fingendo che tutto questo non stesse accadendo. “Io vorrei essere interrogata dal popolo, non dalla polizia. Perché nessuno viene qui a chiedermi come mai faccia tutto questo, perché stia sacrificando la mia vita e la mia libertà?” grida Octavia, che non teme per sé, per la propria incolumità, ma per quella del proprio uomo. La forza e il coraggio di queste donne è potente e l’intensità cresce momento per momento, arricchendosi di tutti i sentimenti che sfumano l’animo umano: paura, angoscia, rabbia, dolcezza, solidarietà, conforto, consolazione, complicità. Lo spettacolo è infatti un crescendo emotivo, fino a un finale inevitabilmente tragico che scuoterà le corde più profonde dell’animo dello spettatore e lo indurrà a riflettere, a ricordare, a capire, ad aprire gli occhi, a rendersi conto di quanto sangue,quanto coraggio, quanta ingiustizia, quanto dolore, quanto sacrificio e quanta morte siano dovuti passare per poter oggi godere di una libertà che non è affatto scontata.
Arriva un messaggio, da parte della carcerata di un’altra cella, che informa che Zelia ha tradito Octavia rivelando della presenza del compagno nella fortezza di Peniche. La ragazza rientra e viene accusata dalle compagne di tradimento. Solo Elvira crede nell’innocenza della ragazza, mostrando in quel momento una lucidità e una logica che, alla notizia del tradimento, aveva abbandonato persino la ferrea Octavia, furente per la presunta denuncia di colei cui si fidava ciecamente, tanto da averle rivelato il suo segreto più prezioso. In realtà Zelia non ha tradito l’amica, mandando così a morte certa il fratello pur di non tradire nessuna delle compagne. Un prezzo troppo alto da pagare, un dolore e una colpa insostenibili. La notizia del presunto meschino tradimento infatti risulterà falsa e si scoprirà che la spia è un’altra ragazza, Estefania, interpretata da Alice Ginanni, su cui già cadevano i sospetti di Zelia. Lo svelamento della verità arriverà però troppo tardi e, come le matite di Zelia spezzate da Catarina, anche la vita della giovane ragazza dalla memoria di ferro, si spegnerà per sempre: Zelia si taglia i polsi, in preda ai rimorsi per l’imminente messa a morte del fratello e per la pena provocata dalle accuse infondate delle compagne.
Questo spettacolo, crudo, toccante, potente, recitato in maniera così realista da annullare la finzione, talmente coinvolgente da far venire i brividi allo spettatore, è uno spettacolo necessario. Queste storie, per quanto romanzate, possono benissimo essere delle storie vere, in un’epoca e in un luogo di cui ne sappiamo ancora troppo poco. La dittatura di Salazar, durata dal 1932 al 1968 ha annientato le vite di studenti, oppositori, resistenti. Ha insanguinato il Portogallo, e la storia di Catarina, Octavia, Elvira e Zelia è un omaggio a tutti coloro che non si sono arresti allo status quo delle cose, che non si sono lasciati schiacciare da un regime feroce e sanguinario, che con tutte le proprie forze e il proprio coraggio hanno difeso il bene più importante: la propria libertà e quella delle generazioni successive. Catarina capirà l’importanza di questo sacrificio, capirà pienamente la verità di quelle sue compagne di cella, che prima non capiva, abituata a una verità diversa; quella verità ignara del male, la verità di chi è giovane e pieno di esorbitante entusiasmo, di scoppiettante energia e ingenua inconsapevolezza, di chi vuole soltanto vivere, sognare e amare. La verità di quelle donne è una verità che sconvolge, certo, che atterrisce, che uccide. Ma è l’unica verità per cui vale la pena lottare e per cui la vita è degna di essere chiamata tale.