Il profilo per gli articoli scritti a più voci, dai collaboratori del sito o da semplici amici e compagni che ci accompagnano lungo la nostra esperienza.
Di Silvia D'Amato Avanzi e Joachim Langeneck
Da qualche tempo, i notiziari e i giornali ricamano sul “ritorno del lupo” attingendo sempre di più alle proteste degli allevatori che accusano i lupi di stragi di bestiame e portando alla ribalta le paure più o meno comprensibili di persone che non hanno mai conosciuto il lupo; troppo facilmente “soluzioni” come imbracciare il fucile o dare carta bianca alla caccia rimbalzano da una testata all’altra – di cui parleremo nel prossimo pezzo.
Di Silvia D'Amato Avanzi e Joachim Langeneck
Al lupo al lupo
La proposta di un “piano di conservazione e gestione del lupo in Italia” da parte del Ministero dell’Ambiente si riflette in questi giorni in un acceso dibattito mediatico, con il moltiplicarsi di informazioni più o meno tendenziose e più o meno corrette sull’impatto del lupo nel territorio italiano e sulla necessità di misure gestionali. Diverse testate, soprattutto nelle edizioni locali, hanno dato spazio alle lamentazioni di allevatori il cui bestiame sarebbe stato colpito dai lupi; e, nell’allarmismo scandalistico per un presunto boom demografico di questi animali, non sono mancati titoli surreali come “Capriolo sbranato dai lupi”. L’apice è stato forse rappresentato da un servizio de “Le Iene” andato in onda il 16 febbraio scorso che, oltre ad amplificare le lamentele di singole persone timorose dei lupi, ha portato sullo schermo vere e proprie tecniche di bracconaggio, proponendole come “sistemi di difesa” dalle «migliaia di lupi» – secondo la trasmissione – che attaccano continuamente allevamenti e villaggi.
Ma quanto sono fondate queste polemiche? Quali sono gli effettivi termini del problema con il lupo?
di Alessandro Zabban e Elena De Zan
Minimarket a Firenze: quando l’unico cancro da estirpare è la gentrificazione
Sono iniziati i controlli e le prime restrizioni sui minimarket a Firenze. L’obiettivo principale del comune è la “tutela e valorizzazione del paesaggio urbano storico, dell’immagine e dell’identità storico-architettonica" del capoluogo toscano. Ma la “guerra ai minimarket” del Sindaco Dario Nardella non è uno strumento di lotta al degrado, è una battaglia dichiarata contro coloro che difficilmente riescono a trovare lavoro al di fuori delle reti etniche e contro chi non può permettersi di pagare fior di quattrini per una bibita.
Di Alex Marsaglia per il numero cartaceo di dicembre
L'ultimo studio di ampia portata che tentò di delineare l'impatto del progresso tecnologico e di altre forze come la direzione scientifica del lavoro sullo sviluppo del capitalismo, nell'accezione monopolistica è quello di Harry Braverman nell'ormai lontano 1974. In “Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo” l'autore descriveva gli effetti sul processo lavorativo del neocapitalismo, appoggiandosi alla concezione di questo definita nel 1966 da Paul A. Baran e Paul M. Sweezy ne “Il capitale monopolistico”. Nella prefazione al libro di Braverman, lo stesso Sweezy ricordava come non vi fosse altro argomento tanto importante per il capitalismo come quello di nascondere la verità sulla natura del lavoro e la composizione della classe lavoratrice, rimproverando “l'ingenuità di aver tranquillamente bevuto il mito di un enorme declino della percentuale di forze di lavoro non qualificate negli ultimi cinquant'anni”.
Luigi Vinci dal numero cartaceo di Novembre
Lenin e la guerra
Il luglio del 1914 segna uno spartiacque storico: la guerra sconvolge l’Europa, ne spiazza il movimento operaio, che si era illuso di impedirla, lo rompe, determina un cambiamento radicale nella riflessione, negli orientamenti, nel comportamento delle sue correnti. Il movente scatenante della guerra fu l’attentato di Sarajevo da parte di un irredentista slavo-meridionale, che uccise l’erede al trono d’Austria-Ungheria e la moglie di questi. Il motivo politico sostanziale fu la tendenza espansionista delle maggiori potenze europee, cui si aggiungevano irredentismi italiani e una pluralità di irredentismi slavi che mettevano a repentaglio la tenuta austro-ungarica. Il motivo strutturale consistette nei mutamenti sostanziali del capitalismo. Nel corso della “lunga depressione” 1873-95 esso aveva generalizzato processi di gigantismo industriale, formazione di trust, integrazione tra finanza bancaria e industria, intervento anche finanziario dello stato nella in sede di politica industriale e infrastrutturale, ma anche nuove classi medie ggressivamente
Intervista allo storico Pietro Purini a cura di Roberto Capizzi uscito sul mensile di Novembre
Trieste maledetta
Storicamente eterogenea dal punto di vista etnico, ed al centro di un impero crogiuolo di lingue e popoli diversi, può descriverci la composizione etnica di Trieste prima della Prima Guerra Mondiale?
Fino al 1914 Trieste era una città estremamente dinamica e composita nazionalmente. Con 243.000 abitanti era la quarta città dell'Impero dopo Vienna, Budapest e Praga; l'accrescimento medio di popolazione era di 5.000 abitanti l'anno. Gli immigrati provenivano da tutta l'Austria Ungheria (soprattutto da Istria, Slovenia, Dalmazia, Carinzia, Stiria, Boemia), ma anche dall'Italia (Friuli, Veneto, Puglia) e dall'intera Europa. In città erano presenti comunità greche, serbe, croate, ceche, ebraiche, svizzere, tedesche luterane, armene, turche, nonchè circa 35-40.000 "regnicoli" italiani, lavoratori provenienti dall'Italia che però non avevano la cittadinanza austriaca, quelli che al giorno d'oggi definiremmo "gasterbeiter". La popolazione dunque era estremamente variegata: per citare i soli gruppi più grandi, nel censimento del 1910 il 64% dichiarò che la propria lingua d'uso era l'italiano, il 25% lo sloveno, il 5% il tedesco e poco meno dell'1 % il serbocroato. In realtà la lingua d'uso non era un criterio preciso per definire quale fosse la nazionalità dei censiti: in una città di forte immigrazione era possibile che neoimmigrati di madrelingua slovena, croata, tedesca o ceca, dessero come propria lingua d'uso l'italiano semplicemente perchè quella (o meglio: il dialetto triestino) era la lingua che usavano sul posto di lavoro. Inoltre i rilevatori del censimento erano funzionari del Comune di Trieste, controllato del Partito liberal-nazionale (gli irredentisti favorevoli all'Italia): è quindi probabile che i risultati di questo censimento siano comunque sbilanciati a favore della componente italiana.
Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre
Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?
La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.
Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.
In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.
Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.
L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.
Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.
L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.
Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.
Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.
Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.
Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.
Da il manifesto del 26 Novembre 2015
Chiara Del Corona e Serena Fondelli
Complice la due giorni dell’assemblea parlamentare della Nato in corso a Palazzo Vecchio, la Toscana arcobaleno si è fatta vedere e sentire con cortei, presidi, e con la denuncia di un carico di armi transitate nel porto di Piombino e dirette in Arabia Saudita. Quest’ultimo caso finirà anche in consiglio comunale grazie a mozioni di Un’altra Piombino e Rifondazione, e in quello regionale con l’interrogazione di Tommaso Fattori e Paolo Sarti di Toscana a Sinistra. Mercoledì (25 Novembre) sera nel capoluogo toscano più di mille persone hanno partecipato ad una manifestazione per le vie del centro, dietro lo striscione con la scritta «Le vostre guerre, i nostri morti. Basta guerre, basta Nato». Il corteo promosso dall’Assemblea fiorentina contro il vertice Nato è sfilato pacificamente: «Siamo tutti toccati dai fatti di Parigi – hanno spiegato i promotori – ma qui in piazza è scesa quella parte della città che non crede che l’unica risposta possibile siano le guerre e i morti. La nostra protesta era stata convocata prima di Parigi, gli attentati ne hanno rafforzato i contenuti: non ci possiamo arruolare in questa guerra, né difendere le istituzioni che sono complici del terrore, in Francia come in Turchia».
Di Matteo Fratangeli
Parigi: le ore dopo l’attentato nel racconto di Ida, un’insegnante milanese che vive in città: “L’atmosfera è triste, strade deserte”
Dolore, sgomento, paura, rabbia. Sono le emozioni che tutti noi abbiamo provato alla notizia dei tragici fatti di Parigi. 129 morti e 352 feriti sono un bollettino di guerra, una guerra sempre più su scala globale che il terrorismo vuole portare fin sotto le nostre case, nelle strade che percorriamo, nei negozi, nei locali e nei teatri che frequentiamo per trascorrere qualche ora di gioia e di spensieratezza; sentimenti che nella capitale francese sono stati strappati via con la violenza, gettando la popolazione nell’angoscia e nel lutto.
Sensazioni inimmaginabili per noi che viviamo in una società che, fortunatamente, almeno fino ad oggi, si è sentita immune da tali tragedie, e che solo chi sta vivendo quell’esperienza e la sta osservando con i propri occhi può aiutarci a capire.
Alessandro Zabban e Elena De Zan
Trust No Bitch: recensione di Orange is the New Black
Guardia: "detenuta, cosa è quel buco nel muro?"
Detenuta: "è un'opera d'arte che rappresenta la futilità del lavoro dei colletti blu nell'era tecnologica. E la vagina".
Orange is the new black (OITNB) è una delle serie tv più interessanti uscita in questi ultimi anni. Prodotta dalla Netflix, canale on demand americano che si è fatto valere con un palinsesto di qualità (basti pensare a Narcos o House of Cards), questa irriverente dark comedy, per spirito provocatorio, approccio critico ed attualità si spinge su territori di inesplorata originalità.
Meraviglia il continuo cambio di registro, ancora più frenetico ed imprevedibile di quello di Breaking Bad, la continua sovrapposizione di momenti di assoluta ilarità e di pungente ironia con altri in cui prevale l'elemento drammatico, la tragedia individuale sullo sfondo di una società decadente e ingiusta. Dettagli scabrosi e lirismo si mescolano e confondono, contribuendo a definire personaggi credibili e autentici. Al centro, tematiche che raramente trovano spazio all'interno di altri palinsesti e un'ambientazione, quella di un carcere femminile americano, ricostruita con profondità di investigazione, rimarcando dinamiche, relazioni e regole informali della vita quotidiana all'interno di una istituzione totale.
La trama è l'adattamento di una storia vera, riportata nel (quasi) omonimo romanzo di Piper Kerman, Orange Is the New Black: My Year in a Women's Prison. La protagonista è Piper Chapman, una giovane bionda dagli occhi azzurri che apparentemente incarna la "brava" ragazza medio-borghese: ha un'alimentazione sana, gestisce un'azienda di saponi biologici, ed è innamorata del suo promesso sposo; la sua tranquilla vita viene però sconvolta quando si trova a dover rispondere di fronte alla legge di una bravata giovanile, commessa una decina di anni prima: aver trasportato in aereo una grande quantità di denaro sporco per conto della sua ex amante, Alex Vause, una narcotrafficante.
Per questo motivo Piper viene arrestata e si trova ad affrontare le difficoltà della vita carceraria, fra divisioni razziali, desideri e speranze di riscatto, solitudini e rapporti spezzati, relazioni complesse col sistema normativo istituzionalizzato. Affianco alla sua storia, vengono narrate le vicende e gli intrecci di tutti i personaggi che ruotano attorno alla prigione, non solo delle detenute, ma anche delle guardie carcerarie e del personale politico e amministrativo. Si intrecciano così i diversi vissuti e puntata dopo puntata si scoprono i passati e i retroscena di tutti i protagonisti.
L'ambiente carcerario diventa l'escamotage ideale per affrontate diversi temi, molti dei quali legati a questioni femminili e femministe (come quando alcune detenute si rendono conto di non aver mai visto la loro vagina) e al mondo LGBTQI (oltre a Piper, che ha avuto storie sia con donne che con uomini, vi sono personaggi transessuali, butch, lesbiche lipstick, gay non dichiarati ecc.). Chi conosce Weeds, l'altra serie creata da Jenji Kohan, potrà riscontrare in OITNB lo stesso stile graffiante: i protagonisti sono degli "anti-eroi", tutt'altro che politically correct; inoltre, proprio come in Weeds, la sessualità nelle sue molteplici e non convenzionali sfaccettature viene raccontata in maniera esplicita e mai banale, tanto da diventare una delle tematiche principali della serie. Rispetto al precedente lavoro della Kohan però, OITNB ha il pregio di esaltare in maniera più realistica le differenze nel modo di vivere il proprio corpo e la propria sfera emotiva e sessuale. Nella serie sono presenti anche personaggi con corpi non normati, mostrati anche in scene di nudo, che fuoriescono dalla perfezione dei canoni di bellezza televisivi.
Non si parla però solo di corpi e sessualità: in OITNB il carcere è microcosmo di socialità e di rapporti sociali. Emergono così altri temi, come la cecità del sistema burocratico, l'arbitrarietà dell'apparato giudiziario, il conflitto fra religione istituzionalizzata e pratiche spirituali spontanee, oltre alle differenze etniche e di classe.
In particolare è interessante notare la maestria con cui OITNB mette in luce come i sistemi e le relazioni di potere esistenti sia all'interno del carcere che nei rapporti tra esterno ed interno della struttura penitenziaria siano fortemente corrotti. Vengono così narrati episodi di frodi e abusi di potere come i soprusi delle guardie (come i favori in cambio di prestazioni sessuali, l'utilizzo dell'isolamento per punire detenute indesiderate ecc.), la corruzione e cattiva gestione da parte dei "piani alti" del carcere, l'utilizzo di fondi destinati alla struttura penitenziaria per finanziare la carriere politiche.
In questo modo OITNB mette in discussione l'intera gestione sociale, economica e politica del carcere, finendo per criticare non solo il sistema a carcerario in sé ma anche la società attuale nella sua interezza. Ciò emerge in particolare nella terza serie, dove la critica al capitalismo diventa più esplicita, e la privatizzazione del carcere diviene lo sfondo entro cui si consuma la definitiva sconfitta dello stato sociale e del sindacato sulle logiche neoliberiste.
Con amaro sarcasmo si mostra il trionfo ideologico di un sistema talmente pervasivo da essere interiorizzato dalle stesse detenute (quando Piper organizza una "attività produttiva" illegale dentro la prigione,"licenzia" la detenuta che prova a chiedere un "aumento salariale"), spesso divise in bande etnico/sociali disposte a tutto pur di accaparrarsi i lavori carcerari meno logoranti o per il controllo delle risorse (miele, merendine, cioccolato, verdure fresche, cellulari entrati clandestinamente). Emerge allora un potere foucaultianamente diffuso di autodisciplinamento che convive con i tentativi delle detenute di mettere in atto quelle strategie di difesa delle propria identità, descritte dal sociologo Erwin Goffman in Asylum, in cui si attivano canali di comunicazione alternativi a quelli ufficiali, ci si adopera in pratiche nascoste e a forme organizzative originali tramite le quali si prova a resistere all'annullamento identitario che l'istituzione totale spesso provoca.
OITNB è questo e tanto altro ancora: arriva a parlarci delle contraddizioni della società contemporanea con intelligenza e profondità, ma senza vuoti intellettualismi e con la dovuta attenzione all'intrattenimento puro.
Non ci resta che vedere cosa vi sia in serbo per la prossima stagione, la cui uscita è prevista per questa estate.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).