Mercoledì, 17 Ottobre 2018 00:00

Ereditarietà e intelligenza: da (neo)positivismo a (neo) darwinismo sociale?

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Una delle eredità meno piacevoli del positivismo ottocentesco, che ha avuto un revival nelle impostazioni riduzionistiche conseguenti allo sviluppo novecentesco della biologia molecolare, e ancora oggi sperimenta periodici e più o meno transitori ritorni di fiamma, è rappresentata dall’applicazione acritica di modelli evolutivi biologici al comportamento e alla cultura umana. Se non è stato difficile confutare, a livello intellettuale ma soprattutto politico, la prima, piuttosto rozza versione di questa proposta intellettuale, rappresentata dal Darwinismo sociale, le numerose ipotesi relative all’idea che lo sviluppo culturale e la posizione sociale siano, almeno parzialmente, determinate da fattori innati risultano in qualche modo più subdole e seducenti.

Il caso più celebre è rappresentato dal test di scolarizzazione sviluppato da Alfred Binet nel 1905, che viene rapidamente trasformato in un test del quoziente intellettivo, volto a misurare in qualche modo l’intelligenza innata, e incidentalmente a limitare l’immigrazione negli Stati Uniti d’America di europei dell’est ed italiani, la cui scarsa scolarizzazione viene interpretata come indice di scarsa intelligenza. Quel che segue si distacca poco, a livello ideologico, da queste prime letture deterministe della cultura e dell’intelligenza umana, nonostante il riconoscimento sempre più ampio di un’influenza ambientale nell’espressione dei geni a livello del fenotipo. Nonostante la complessità intrinseca nell’analizzare le culture umane a livello antropologico, in qualche modo l’idea di poter ricondurre elementi culturali a determinanti genetici rimane attraente, e nonostante la limitatezza di questa prospettiva, nuovi studi vengono portati avanti e contribuiscono allo sviluppo di un vivace dibattito.

Le ultime novità sul fronte dello studio della genetica dell’intelligenza sono relative a pochi mesi fa. Con il suo controverso libro Blueprint – How DNA makes us who we are lo psicologo statunitense Robert Plomin ripropone l’idea che la psicologia di una persona – compresi i suoi aspetti intellettuali – dipenda in larga parte da determinanti genetici e in parte ridotta, possibilmente minima, da fattori ambientali come il contesto sociale in cui si sviluppa l’individuo. Una conseguenza che lo stesso Plomin ricava da questa lettura è che la classica interpretazione dello squilibrio educativo come conseguenza di una disparità socio-economica è errata: in realtà la disparità socio-economica sarebbe la conseguenza di uno squilibrio intellettivo. Oltre ad essere totalmente svincolata da qualsiasi tipo di analisi sociologica, la teoria di Plomin risulta essere, in ultima analisi, l’ennesima espressione di un paradigma panglossiano di giustizia intrinseca dell’immobilità sociale.

Si oppone a questa lettura l’articolo degli economisti Nicholas W. Papageorge e Kevin Thom che basandosi su uno screening genomico su numerose varianti molecolari identificate come predittori di successo intellettuale, sottolineano come il successo intellettuale – ossia il livello di istruzione raggiunto – è più elevato in persone i cui genitori hanno una alti introiti con un profilo genetico non ottimale per i marcatori selezionati, che non in persone con un profilo genetico ottimale, ma i cui genitori hanno bassi introiti. Il successo intellettuale reale, quindi, secondo Papageorge e Thom dipenderebbe molto più da elementi sociali (e quindi ambientali) che da elementi innati, nonostante secondo questi autori sia possibile individuare dei predittori genetici di tale successo. Nonostante le conseguenze tratte da questi due studi siano diametralmente opposte, in realtà essi si pongono nella medesima prospettiva culturale e sono, in un certo senso, due declinazioni marginalmente differenti della medesima scuola.

Il primo elemento comune è rappresentato dall’assunzione che esistano determinanti genetici associati con il successo intellettuale, a prescindere dall’influenza di fattori sociali sull’effettiva realizzazione di tale successo. Ciò deriva da un presupposto scarsamente condivisibile, e cioè che vi sia la possibilità di ottenere una misura universale di sviluppo intellettuale che sia indipendente dalla specificità culturale. In altre parole, questa prospettiva è viziata da un atteggiamento eurocentrico (in senso lato) che considera la cultura occidentale come il massimo punto di sviluppo di qualsiasi civiltà umana, e la prende a punto di paragone per qualsiasi essere umano. Una semplificazione parallela e complementare tipica di questo approccio consiste nel presupporre che le persone cui ci si riferisce siano sempre e necessariamente neurotipiche, tagliando un ulteriore fattore di variazione che può avere una rilevanza quando si va a parlare di successo intellettuale.

Il secondo elemento comune è rappresentato da un approccio disinvolto al concetto di correlazione, che viene di fatto troppo precipitosamente interpretata alla stregua di un indizio di causalità, nonostante numerosi studi evidenzino la possibilità di correlazioni indirette e correlazioni spurie. Di fatto, tutte le associazioni evidenziate in questi studi sono esclusivamente correlative, ma in ambedue i casi gli autori fanno un uso eccessivo del verbo “to predict”, “prevedere”, “predire”, un verbo che in un contesto scientifico ha un significato molto pesante, e che esprime una relazione assolutamente causale.

Una prima osservazione, forse banale, è che ambedue gli studi non sono stati effettuati da genetisti: Plomin è uno psicologo (sia pure uno psicologo comportamentale), mentre Papageorge e Thom sono economisti. A monte della discutibile idea di una misura universale di intellettualità, la loro lettura della relazione tra genotipo e fenotipo corrisponde al paradigma deterministico in auge tra i biologi una settantina buona di anni fa, e già all’epoca posto in discussione. Come spiega in un ottimo articolo Guido Barbujani, caratteristiche umane complesse non possono essere spiegate da uno, o pochi geni – detto in altro modo, i nostri geni non rappresentano il nostro destino e non definiscono la nostra identità, ma stabiliscono limiti entro i quali si sviluppano le nostre caratteristiche – e questo è tanto più vero per le caratteristiche psichiche e intellettuali. Il determinismo genetico, al momento, deriva quindi principalmente dal fatto che non si ha un’idea molto chiara del fenomeno di cui si sta parlando.

Una seconda osservazione, forse più interessante, è relativa alle conseguenze convergenti di due ipotesi apparentemente opposte a livello di società ed economia. È abbastanza chiaro che l’approccio di Plomin presenta come conseguenza diretta una società socialmente immobile, in cui il welfare non ha significato se non come pratica umanitaria, perché chi ha “i geni giusti” è già “al posto giusto”. La lettura di Papageorge e Thom è però soltanto apparentemente meno aberrante, dato che la conseguenza che lo stesso Papageorge ne trae è che “il loro potenziale sta essendo sprecato, e questo non è solo male per loro, ma lo è anche per l’economia”; in altre parole, le varianti genetiche umane in questa ottica rappresentano una risorsa naturale, che come tale può essere sfruttata per ottenere rendimento economico.

Se pure per diverse strade, i due studi giungono quindi alla stessa conclusione: ci sono differenze intellettuali innate tra gli esseri umani, ed un approccio economicamente vantaggioso corrisponde nell’investire nelle categorie che sono già naturalmente avvantaggiate; quindi nella differenziazione tra persone di prima categoria, sul cui sviluppo intellettuale conviene investire, e persone di seconda categoria che possono essere abbandonate a se stesse. Non importa se l’idea è di avvantaggiare chi proviene da famiglie abbienti, promuovendo l’immobilità sociale, o al contrario investire sui figli intelligenti di famiglie povere affinché raggiungano il medesimo sviluppo dei loro coetanei abbienti, il punto è che la prospettiva sociale e politica è la costruzione di un sistema discriminatorio sulla base di dati correlativi tra un set di geni e dei comportamenti umani complessi. Ossia esattamente il medesimo errore concettuale che ha condotto al Darwinismo sociale e al razzismo scientifico.

Per quanto la prospettiva di Plomin sia stolidamente conservatrice, mentre quella di Papageorge e Thom sembri a prima vista progressista, è quindi necessario rigettare ambedue. A livello scientifico perché si basano su una lettura superficiale e avventata di dati correlativi, e su una visione ormai anacronistica del rapporto tra genotipo, fenotipo e comportamento umano; a livello politico e sociale perché offrono una prospettiva in cui i diritti delle persone (nella fattispecie, il diritto all’istruzione, ma non solo) dipendono dalla loro utilità economica invece di essere un elemento intrinseco come definito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, e promuovono una società che vede il cittadino non come membro partecipe, ma come oggetto di un investimento economico.

 

Immagine ripresa liberamente da pxhere.com

Ultima modifica il Martedì, 16 Ottobre 2018 21:49
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

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