8 aprile 2000. L'artista e fotografo 38enne Mark Hogancamp (la storia la trovate qui) venne aggredito da 5 uomini all'uscita di un bar dopo una sbronza. La motivazione di questo gesto è che Mark ha sempre avuto un debole (feticista) per le calzature femminili. Dopo 9 giorni di coma, non ricordava più nulla della sua vita. Il pestaggio gli aveva provocato grossi danni ad alcune parti del cervello.
Per motivi economici scelse di non seguire la terapia, l'assicurazione sanitaria era scaduta. Così usò l'arte e piano piano Mark raccattò i cocci della sua esistenza e li ricompose (come Denzel Washington in "Flight" dopo l'incidente aereo e l'uscita da tutte le varie dipendenze). Ricostruì un modellino, in scala 1:6 di una città belga immaginaria (Marwencol) durante la Seconda Guerra Mondiale con personaggi veri (stile Small Soldiers di Joe Dante): se stesso, amici, parenti e quant'altro (gli "allied" ovvero gli Alleati). L'ambientazione non era un caso: nella realtà gli uomini che lo avevano aggredito erano nazisti (portavano la svastica sui loro indumenti) come quelli che avevano invaso l'immaginaria Marwencol. Il fotografo David Naugie rimase toccato da questo lavoro. La sua ricostruzione, a sua volta, diventò un documentario: "Marwencol" (2010) diretto da Jeff Malmberg. Il nome è ottenuto dalla fusione dei nomi Mark (Hogancamp naturalmente) , Wendy e Nicol (due cotte di Mark, che verranno svelate nel film strada facendo).
La narrazione comincia da un semplice espediente narrativo: la popolazione della città, costituita di sole donne, salva un pilota americano di caccia, abbattuto dalla contraerea nemica. Hogancamp (interpretato nel film da Steve Carell) fotografa tutti gli sviluppi degli intrecci che si vengono a creare e le foto, scattate con una vecchia Pentax, finiscono tra le mani del magazine Esopus e quindi in un’esposizione in una galleria d’arte di Manhattan. È un successo clamoroso. Per lui comincia una nuova vita, fatta di quella serenità che gli permette di immergersi ancor più nelle atmosfere retrò di Marwencol e, soprattutto, di interpretare Captain Hogie, il suo alter ego di plastica, la cui cicatrice sul viso ricorda per sempre le ferite subite dal vecchio Hogancamp. Nel 2013 il geniale Robert Zemeckis si interessa alla vicenda e decide di farci un film. Con la sceneggiatrice Caroline Thompson (Edward mani di forbice e Nighmare before Christmas di Tim Burton) scrive il copione fondendo realtà e un mondo ricreato con la computer grafica. Un esperimento non nuovo visto che Zemeckis ha firmato pellicole come Roger Rabbit, Polar Express, A Christmas Carol che fondevano motion capture con attori in carne e ossa e la computer grafica stessa. C'è un filo che lega quasi tutte le opere del regista. Non mancano i temi tipici che hanno fatto la fortuna del creatore di "Ritorno al futuro" (citato nel finale): l'arte usata come potere terapeutico, l'uso della fantasia, il potere della creazione che la nuova Hollywood non permette più di tanto ai suoi autori. E poi naturalmente c'è la critica alla società e all'isolamento che fa breccia nell'individuo.
È un film dominato da parole chiave che iniziano con la lettera A: Arte, Avventura, Azione, Antifascismo, Amicizia e Amore. Questi sono gli ingredienti cardine. In America è stato chiaramente un flop (prevista una perdita complessiva di 60 milioni di dollari), ma questo film, pur non essendo esente da imperfezioni soprattutto nella parte centrale, è di questi tempi originale e importante. Per Zemeckis è il terzo fallimento commerciale consecutivo (anche The Walk e Allied non sono andati benissimo al botteghino). "Un miracolo produttivo" lo ha definito il regista. Zemeckis però è troppo intelligente per la maggioranza dei critici e degli spettatori americani medi. La pellicola deve essere metabolizzata prima di arrivare al cuore di chi la guarda. E oggi è tutto così veloce perché non diamo più il giusto valore alle cose. Forse a livello di tecnica sarebbe stato interessante l'uso della stop motion, tecnica utilizzata ripetutamente (con successo) da Wes Anderson. La pellicola a tratti è un po' sbrigativa e forzata, calcando troppo la mano sulla morale piuttosto facilona. È risaputo che spesso i più grandi "nazisti" (nel senso di cattiveria) siamo proprio noi stessi. Come, in fondo, accadeva per i due amanti Pitt e Cotillard nell'ottimo "Allied". Non è il suo film migliore, ma tuttavia si vede la mano e la coerenza tipica del cinema di Zemeckis: qui dentro ci si diverte a pescare citazioni dai suoi film più famosi (da Forrest Gump a Cast Away, da Ritorno al futuro a Flight, da Roger Rabbit a Polar Express). Nel complesso l'operazione è un grido di dolore contro la violenza, le ingiustizie e il male che ogni giorno viviamo, senza volerlo. Ma è soprattutto sempre in bilico tra reale e fantastico, tra passato e futuro: ovvero l'uso di due diversi piani temporali, cosa comune a tutti i film di Zemeckis. Una geniale riflessione sull’elaborazione del dolore, su ciò che ne può conseguire, ma anche un inno alla femminilità. Sono le donne a risollevare Mark sia nella realtà sia nell'immaginaria Marwen: dapprima lo salvano dagli antidolorifici e dagli oppiacei, poi lo rendono una persona coraggiosa che affronta i propri demoni interiori. Non è un caso che sia ancora una volta la chiave di volta della storia sia una rossa, di nome Nicol (Leslie Mann) e non Jessica Rabbit. Anche se gran parte del merito della riuscita della pellicola si deve attribuire al "novello Forrest Gump" (ovviamente c'è anche la panchina) Steve Carell, un interprete incredibile che sta vivendo un periodo d'oro. Dopo essersi fatto conoscere con ruoli comici demenziali, piano piano sta diventando un attore di primissimo piano anche nel cinema d'autore. Foxcatcher, Little miss sunshine, La grande scommessa, Vice, La battaglia dei sessi sono alcuni esempi autorevoli in tal senso. Nel complesso non è il miglior film di Zemeckis, la pellicola è zuccherosa, ma è un cinema fatto con tanto cuore, seppur imperfetto come le nostre esistenze.
Come diceva Forrest Gump? La vita è come una scatola di cioccolatini.
Regia ***1/2 Montaggio ***1/2 Interpretazioni ***1/2 Fotografia ***1/2 Sceneggiatura *** Film ***1/2
Fare un film sull'arte e sulla vita dei pittori non è affatto semplice. Il biopic tradizionale in questi casi spesso fallisce. Sono state realizzate oltre 30 opere tra film e documentari e quasi tutte non hanno avuto esiti soddisfacenti. I colori dell'anima, Pontormo, La ragazza con l'orecchino di perla, Frida, Pollock, Surviving Picasso, Mr Turner, I colori della passione, Caravaggio e il Rublev di Tarkovskij sono alcuni esempi autorevoli. Le opere riuscite si contano sulle dita di una mano. Secondo il mio punto di vista i migliori sono stati "Il mio piede sinistro" con un Daniel Day Lewis da Oscar e "L'ultimo inquisitore" di Milos Forman che parlava (anche) del pittore spagnolo Francisco Goya ai tempi dell'Inquisizione.
Julian Schnabel in ogni caso ha fatto bene ad insistere perché Vincent Van Gogh è uno degli artisti più noti al mondo, oggetto di accurati studi nell'ambito della storia dell'arte. A tal proposito vi consiglio il film "Loving Vincent" (2016), il primo interamente dipinto su tela, rielaborando oltre mille quadri per un totale di più di 65 000 fotogrammi realizzati da 125 artisti diversi. Prima di Schnabel avevano tentato di raccontare il pittore olandese Altman, Minnelli e Pialat, ma il regista de "Lo scafandro e la farfalla" sceglie la strada non convenzionale: non racconta la vita di Van Gogh, ma il suo rapporto con il mondo e naturalmente con l'arte. Perché Schnabel è stato sia pittore sia regista e quindi sa cosa significa riempire una tela (ma anche un grande schermo). Questo biopic anticonvenzionale è scandito da varie fasi: la Casa gialla, Gauguin, l’orecchio, i manicomi, Auvers-sur-Oise, la morte misteriosa.
Vincent è nato in Olanda nel 1853 ed è deceduto giovane nel 1890 (a soli 37 anni) per un colpo di pistola. Le circostanze sono ancora misteriose: c'è chi dice che sia morto suicida (probabile), c'è invece chi sostiene la tesi che sia morto per un colpo accidentale sparato da dei giovani in un campo che giocavano con una rivoltella. Vincent naturalmente si trovava lì a dipingere. Schnabel sceglie abilmente di tenere vive entrambe le ipotesi. Il modo in cui lo fa è veramente elegante: prima mostra la scena dell'omicidio, ma poi fa credere allo spettatore che sia il frutto della fantasia della mente "ballerina" del pittore. Perché per la maggioranza della gente era pazzo, ieratico, isolato, incomprensibile. La follia spesso nell'arte funziona. Van Gogh parlava un linguaggio abbastanza difficile ai quei tempi (temo che anche oggi avrebbe avuto difficoltà). Il pittore (un somigliante e mimetico Willem Dafoe che ha perfino imparato a dipingere per calarsi nella parte) viene ritratto nella parte finale della sua vita. Siamo ai tempi dei dubbi che precedono la "fioritura" dei girasoli. Grazie al fratello Theo (professione mercante d'arte) che lo sostiene economicamente, riesce nel suo intento artistico trovando pace nella campagna provenzale di Arles (in Francia). Poi c'è il rapporto di amicizia fallimentare e incostante con il collega Gauguin (Oscar Isaac di "A proposito di Davis" dei Coen) che gli dice di dipingere “quello che vede il tuo cervello". Quando se le loro strade si divideranno, Vincent si taglierà l'orecchio che, nella sua testa delirante, sarebbe un regalo per l'amico. Ma Van Gogh è attratto dai panorami, dagli spazi estesi, dalla natura, dal fico alla luce del sole che fa capolino dai rami (in un certo senso, alla Terrence Malick). E soprattutto dipinge per non pensare, per evitare i tormenti della mente.
In tal senso è perfetta (e fedele al racconto) la fotografia di Benoit Delhomme che usa una pailette cromatica molto ampia, pur non rinunciando a un uso massiccio del giallo (il colore preferito del pittore olandese). Poi ci sono anche gli scambi esistenziali con il prete (Mads Mikkelsen), gli incontri con il dottor Gachet (Mathieu Almaric) in cui si sente un po' compreso. E poi c'è soprattutto il rapporto tra arte, pittore e il Creatore ("la bellezza è l'essenza di Dio" - dice al prete). Questi due momenti sono i più riusciti dell'intera pellicola, riempiti da intensi e vibranti primi piani. Schnabel mostra la fragilità e il senso di inadeguatezza dell'artista di fronte a cose più grandi di lui, attraverso il continuo rimbombare delle voci nella testa del pittore. La scelta di Willem Dafoe, 64 anni, è assolutamente perfetta perché nel passato dell'attore ci sono stati film come il (non riuscitissimo) Pasolini di Abel Ferrara, l'Antichrist di Lars Von Trier e soprattutto L'ultima tentazione di Cristo firmata Scorsese. Ruoli importanti e sofferenti su cui Dafoe ha costruito parte della sua carriera. Van Gogh viene ritratto come un bambinone sofferente, tremante, pieno di dolore, ma rivoluzionario come il Cristo di Scorsese. Un uomo cresciuto nell'epoca sbagliata, come Gesù (splendida in tal senso la scena in cui Van Gogh paragona il prete a Pilato e se stesso a Cristo). La sua interpretazione è la parte migliore del film e mette lo spettatore nel cuore del racconto. Dafoe riesce nell'impresa di non far vedere la differenza netta di età tra lui e Van Gogh: l'attore ha 64 anni, il pittore ne aveva poco più della metà.
Schnabel nel complesso riscrive le regole del biopic sugli artisti eliminando il già visto e puntando sulle emozioni (l'immagine finale dà l'idea), sull'umanità delle vicende, sulle grandi domande esistenziali, sui fallimenti terreni. Costellato da una fotografia magistrale e una regia dominata da pianisequenza di spessore, questo film ha un ritmo lento, ma ha uno stile volutamente frettoloso (come voleva Van Gogh, "il dipinto va realizzato nell'immediato") e un po' sconnesso perché gli artisti vanno lasciati liberi da vincoli. Da un punto di vista tecnico, è grande cinema. La camera a mano segue Van Gogh. Quando Schnabel usa quella fissa, si diverte a farla ondeggiare continuamente, a riprendere i personaggi in maniera sghemba e "sgrammaticata". Inoltre a tratti, l'immagine è perfino sfocata. A molti spettatori questa cosa non è andata giù, ma è essenziale nel rivelare il male di vivere di Van Gogh. La macchina da presa si fa pennellata d'autore. Tutto è personale, soggettivo. L'unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte. E alla fine ha ragione il regista/pittore, giustamente applaudito alla 75a Mostra del Cinema di Venezia.
Regia ***1/2 Montaggio ***1/2 Intepretazioni **** Fotografia ****1/2 Sceneggiatura ***1/2 Film ***1/2
BENVENUTI A MARWEN ***1/2
titolo originale: Welcome to Marwen
Genere: Drammatico / Biografico
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Caroline Thompson e Robert Zemeckis
Cast: Steve Carell, Diane Kruger, Leslie Mann
Fotografia: C. Kim Miles
Durata: 1h e 56 minuti
Distribuzione: Universal Pictures
Uscita: 10 Gennaio 2019
Trailer qui
Interviste a Zemeckis e Carell qui
La frase cult: Ho creato un mondo dove posso guarire
VAN GOGH: SULLA SOGLIA DELL'ETERNITA' ***1/2
titolo originale: At Eternity's gate
Nazione: Gran Bretagna / USA / Francia
Genere: Drammatico / Biografico
Regia: Julian Schnabel
Sceneggiatura: Jean Claude Carriere, Julian Schnabel
Cast: Willem Dafoe, Oscar Isaac, Mads Mikkelsen, Mathieu Almaric, Emmanuelle Seigner
Fotografia: Benoit Delhomme
Durata: 1h e 50 minuti
Distribuzione: Lucky Red
Uscita: 3 Gennaio 2019
Trailer qui
La frase cult: Molti dicono che sono pazzo, però la follia è una benedizione per l'arte
Coppa Volpi per Miglior Interpretazione Maschile a Willem Dafoe a Venezia 75