«Ogni Stato è una dittatura, e ogni dittatura presuppone non solo il potere di una classe, ma un sistema di alleanze e di mediazioni, attraverso le quali si giunge al dominio di tutto il corpo sociale e del mondo stesso della cultura, così come ogni Stato è anche un organismo educativo della società, negli obiettivi delle classi che dominano»
Palmiro Togliatti, Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci, Convegno di studi gramsciani a Roma, 11-13 gennaio 1958
L'altra Europa con Tsipras ha preso il 4.03% dei voti alle europee ottenendo 3 parlamentari. Che bello, no anzi: che brutto... A vedere cosa è successo dal giorno dopo le elezioni e da cosa sta succedendo in questi giorni con il caso Spinelli viene da dire che brutto...
Dirò in modo semplice e chiaro come la penso per poi andare avanti. Penso che se la grande forza dei garanti e di chi ha messo in piedi il progetto della lista sia stato un accorto equilibrio tra lavorio dietro le quinte e dibattito pubblico (magistrale quel “SEL da sola sarebbe un forma di omicidio suicidio della sinistra” rivolto a Vendola), in questo caso l'errore sia stato quello di non far arrivare all'esterno le difficoltà e i problemi, nel non rendere pubblico un passaggio, ma di renderne note le conclusioni e di dover poi stare a spiegare l'accaduto. Se in base al risultato elettorale complessivo si riteneva che quell'impegno a non accettare il seggio dovesse essere da ripensare in base a considerazioni politiche (la Spinelli di certo non è una tronista) allora quel ripensamento doveva essere frutto, oltre che di una preventiva riflessione personale, di un dibattito pubblico, il ripensamento di un'intera comunità che avrebbe avuto in questo modo un ulteriore modo di crescere e formarsi come tale.
Leggo di un deputato di SEL che entra nel PD e che lo fa perché si tratta del PD di Renzi. Il fatto è significativo dei problemi che attraversano la sinistra italiana, per molti aspetti cronici e per altri enfatizzati e modificati dalla nuova onda sussultoria a dominanza populista e infastidita dalla democrazia rappresentativa, che investe un sistema politico complessivo tutt'altro che stabilizzato. Quella cosiddetta II Repubblica, stando allo stile urlato e superficiale dei nostri mass-media, che aveva dinanzi a sé l'eternità in quanto “compiuta democrazia dell'alternanza”, si è rivelata essere un episodio a cui ne sta seguendo un altro, appena nato e le cui possibilità di sviluppo sono in molte direzioni, essendo contemporaneamente in campo le variabili della crisi economica, della crisi sociale e della crisi della costruzione europea.
Ho sollevato in un precedente articolo il tema di che cosa si debba intendere per “populismo”; o, meglio, poiché “populismo” è una parola che ha subito in questi anni tutte le torsioni di significato possibili e immaginabili, quali siano i significati che rendono oggi utile questa parola, e la portino a nozione con un contenuto non troppo elastico. Poniamo che con il termine “populista” sia stato utile in passato definire una formazione politica orientata ad accorciare la distanza tra sé e il popolo o un suo segmento, ovvero orientata a “saltare” la mediazione tra sé e questo popolo o segmento di popolo fornita da “corpi intermedi”, di natura sociale (come per esempio i sindacati) o istituzionale (come per esempio assemblee parlamentari o governi locali); inoltre orientata a togliere potere, o addirittura ad annullare, tali corpi intermedi o una loro parte; infine a sostituire nell'immaginario sociale, ai ruoli delle istituzioni centrali
Qui la traduzione di un articolo - intervista ad Alan Sked, fondatore dell'Ukip uscito su The Guardian. Oltre ai contenuti, è molto interessante notare i toni ed il linguaggio usati dal fondatore del partito euroscettico che ha spopolato nel Regno Unito.
Il fondatore dell'UKIP sta cercando di provarmi che quando era lui in carica alla guida del partito, questo non era razzista. Sta anche cercando di di dimostrare che non avrebbe avuto questo grugno per i rimborsi del Parlamento europeo, a differenze della sua “incarnazione” del 2014. “Ne ho avuto uno qui non tanto tempo fa”, dice Alan Sked, professore di Storia Internazionale alla London School of Economics, nel momento in cui, evidentemente, cerca modulo di iscrizione.
Il risultato ottenuto dalla Lista Tsipras il 25 maggio sembrava ai più poco probabile: eppure è successo. Un risultato importante quel 4,03%, un puntello ad una casa che aveva ancora poche pietre sollevate.
Un risultato ottenuto nonostante tutto: in primis i pochi soldi a disposizione per la campagna elettorale, i pochi nomi noti in lista, ma anche la scarsa attenzione dei media (anche se più che di volontà censoria bisognerebbe realizzare che se conti poco, ti fanno vedere poco). Rimane oggi sul tappeto il cosa fare adesso.
Ho aspettato un mese intero prima di scrivere queste parole. Una riflessione che mi sono portata dietro durante una campagna elettorale intensa e che probabilmente farà salire su tutte le furie coloro che hanno fatto degli studi elettorali il loro mestiere.
A Firenze abbiamo visto candidarsi dieci diversi aspiranti sindaci. Dieci, sostenuti da ventisette liste. Ventisette per un totale di oltre 800 candidati (meglio non mettersi a fare i conti per i quartieri). E questi numeri sono sintomo chiaro del personalismo della politica da cui oramai non riusciamo più a scappare.
Ogni cinque anni in occasione delle elezioni europee si ripete l’avvilente ritornello “più Italia in Europa”. Anche a motivo della scarsa prossimità tra eletti all’europarlamento ed elettori italiani questi ultimi tendono a privilegiare i temi politici nazionali, spingendo i partiti in lizza a una competizione per misurare il proprio peso. Incidentalmente, anche per questo ritengo che lo sbarramento sia una norma positiva: riduce la proliferazione delle liste (26 nel 1999 e 25 nel 2004 prima dell’introduzione dello sbarramento; 16 nel 2009 e 12 quest’anno dopo lo sbarramento), la frammentazione politica e quindi il rischio Weimar.
Il ceto politico professionale delle grandi formazioni politiche e di buona parte di quelle minori da gran tempo nelle campagne elettorali proclama sciocchezze demagogiche, dichiara la propria inevitabile vittoria e attacca ferocemente gli avversari. Formazioni come il PD e Forza Italia, che hanno concorso per tre decenni alla definizione delle politiche europee più disastrose e ferocemente antisociali oggi sparano intenzioni di loro rettifica profonda. Il PD tuttavia tranquillamente le prosegue in Italia (si vedano le recenti norme sul lavoro giovanile, che ne incrementano il precariato), con l'appoggio parlamentare indispensabile di Forza Italia. Senza rincorrere il pollaio in questione e produrre percentuali di votanti per questa o quella formazione provo a scrivere quale è il senso generale di queste elezioni; ed, essendo esse elezioni europee, il loro senso guardando al versante politico e istituzionale europeo.
Intervista a Argiris Panagopoulos: giornalista greco, corrispondente da Atene per il Manifesto e dirigente di Syriza
1) Ormai la Grecia è diventata un simbolo. Forti di una cultura mediterranea comune, i fautori delle politiche di austerity hanno usato il suo paese per indicare la fine che sarebbe spettata in caso di “ribellione” al governo tecnico. D'altra parte, la Grecia rincuora anche chi, nella spezzettata ed esangue sinistra italiana, spera che l'unità sia possibile: non a caso, la candidatura alla presidenza della Commissione Europea di Alexis Tsipras ha trovato tra gli italiani i suoi più entusiasti sostenitori. Come ha ribadito più volte nel corso delle interviste che le sono state fatte, dobbiamo entrare nell'ottica che solo un'azione comune, organizzata e capillare, può cambiare l'Europa.
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