Lunedì, 26 Marzo 2018 00:00

Afrin ci interroga (3 di 3)

Afrin ci interroga (3 di 3)

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Cronaca della macelleria anticurda novecentesca

È stata solo la grande dimensione del popolo curdo (40-45 milioni di esseri umani, tanti quanto i polacchi o gli spagnoli) a impedirne la riduzione a infima minoranza o addirittura l’estinzione – a opera prima di tutto turca, ma anche irachena, iraniana, siriana.

Un complesso di tribù di contadini e di pastori sottoposti a gerarchie ereditarie (ma anche protagonista da secoli di rivolte per l’indipendenza di questa o quella sua realtà) sarà dunque obbligata, a cavallo della prima guerra mondiale, dopo essere stata arruolata nell’esercito ottomano e usata da esso nello sterminio di armeni e assiro-caldei, a un grande balzo verso la Modernità; collateralmente, a creare grandi figure di dirigenti.

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Curdi carne da cannone. Sono i nostri compagni eroici, difendiamoli

Quelle milizie curde e quei loro alleati appartenenti alle varie etnie e religioni della Siria (arabi, siriaci, turcomanni, yazidi, alauiti, ecc.) che hanno per primi sconfitto gli stragisti di Daesh armati e pagati da Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar sono da due giorni sotto attacco, nel loro cantone di Afrin, il più occidentale, da parte dell’aviazione e dell’artiglieria della Turchia. La Turchia inoltre ha dichiarato di voler procedere con l’invasione di terra con suoi carri armati e sue truppe. Inoltre ha dichiarato che suo ulteriore bersaglio è la città di Manbij, liberata a suo tempo dai curdi e da milizie arabe e turcomanne loro alleate e governata da un consiglio democraticamente eletto dalla sua popolazione. Nel frattempo sono già in movimento verso Afrin le milizie delle cosiddette Forze Democratiche Siriane, ostili al governo siriano e alla Russia, composte da tagliagole provenienti dal riciclaggio turco dei vari gruppi islamisti radicali in campo in questi anni, da Daesh ad al-Qaeda ad altri minori. Ad essi viene affidato il compito di rompere la tenuta delle milizie curde e di massacrare la popolazione curda.

La Turchia rivendica la sua azione a nome di un suo diritto a difendersi da minacce lungo le sue frontiere: minacce che non sono mai esistite. In realtà la Turchia occupa un tratto di territorio siriano, spezzando così la continuità del territorio in mano curda. In questo tratto c’è la città di Jarabulus, l’antica Hyerapolis: nella quale ha immediatamente operato a cacciare i curdi, ha portato turchi e turcomanni a essa legati, ha imposto l’insegnamento del turco nelle scuole, la legislazione turca, ecc. Attraverso quest’occupazione le truppe turche risultano collegate al complesso delle formazioni islamiste radicali che occupano l’area della città di Idlib, forniscono a queste sistematicamente armi e mezzi di sostentamento, possono trasportarne i feriti in Turchia ecc. Più in generale, la Turchia guarda alla conquista di Aleppo: la cui realizzabilità dipende dal fatto che la situazione siriana anziché evolvere verso la fine delle sue molteplici guerre ne veda il rilancio massimo possibile. Giova rammentare come il governo turco abbia recentemente dichiarato il ripudio di quel Trattato di Losanna (1923) che ne definì gli attuali confini e come essa ora rivendichi aree in mano greca (alcune isole dell’Egeo, la Tracia greca), in mano siriana (l’area di Aleppo), in mano irachena (l’area di Mosul), nella quale anzi ha recentemente spostato truppe in quattro località.

La Russia dopo l’abbattimento da parte turca di un suo aereo militare aveva collocato suoi soldati nel cantone di Afrin e precisamente sul suo confine turco, ciò che significava l’impossibilità per la Turchia di invaderlo, quindi solo la possibilità (continuamente effettuata) di bombardarlo, soprattutto con l’artiglieria. Appena iniziati i recenti bombardamenti aerei la Russia ha ritirato le sue truppe. Il rapporto con la Turchia, l’intenzione di non riconsegnarla agli Stati Uniti sono evidentemente le cose che per la Russia contano, non già i diritti di una popolazione che ha combattuto anche per conto della stessa Russia. Quanto agli Stati Uniti, una settimana fa avevano formalmente dichiarato ai responsabili curdi di non sentirsi impegnati contro un eventuale attacco turco al cantone di Afrin. Evidentemente la logica statunitense risulta simmetrica a quella russa. La Russia ha dichiarato di considerare gli Stati Uniti responsabili di un disagio della Turchia dinnanzi all’armamento pesante da essi consegnato alle milizie curde, e che ha consentito a queste ultime, ripulita la Siria orientale da Daesh, di costruire un’entità fortemente autonoma nella Siria orientale. Ma la Russia non aveva dichiarato di sentirsi impegnata dalla prospettiva di una Siria confederale, dove ogni etnia o religione fosse in grado di esercitare i suoi diritti, cosa questa che in Medio Oriente necessariamente significa essere armati?

Gli Stati Uniti a loro volta hanno ieri chiesto a Turchia e a milizie curde di “fermarsi” e di “trattare” guardando solo al residuo di lotta a Daesh e compagnia. Sarà dura, dopo aver concesso alla Turchia di avviare l’attacco al cantone di Afrin.
Il Regno Unito ha dichiarato ieri di condividere pienamente l’azione di una Turchia minacciata sui suoi confini da un’entità aggressiva. Evidentemente è in ballo una trattativa commerciale tra Regno Unito e Turchia, oppure è in ballo qualche grossa fornitura d’armi. Come dice il proverbio, pecunia non olet. Giova solo rammentare come il traffico di armi sia il secondo grande business planetario, quindi un fattore di guerra addirittura indipendente dalla politica.

Il silenzio dal lato dell’Unione Europea è semplicemente assordante. La RAI ne parla per circa cinque secondi, in attesa di ordini di governo. Insomma l’attuale canagliaio mondiale grande e piccolo ha mostrato per l’ennesima volta di essere, non la soluzione del disastro mediorientale, ma uno dei suoi fondamentali attori. Agiamo come ci è possibile a difesa dei nostri compagni curdi, sono un faro di civiltà e di umanità in un pianeta che sta sprofondando. Se verranno soppressi il pianeta intero ci andrà di mezzo: tutti stanno riarmando, tutto sta marciando verso l’allargamento e la sinergia tra i conflitti in atto, e le armi usate, continuando così, saranno anche quelle atomiche. Già gli Stati Uniti lo dichiarano.

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L’intervista è ripresa dal sito www.arciempolesevaldelsa.it e fa parte della campagna del Comitato Arci Empolese Valdelsa “Kurdi! Una Roccia è forte al suo posto”

Luigi D’Alife è il regista di Binxet – Sotto il confine, un documentario totalmente autoprodotto che racconta, attraverso testimonianze e spiegazioni schematiche ma approfondite, la situazione del popolo curdo sulla linea del confine che separa la Siria dalla Turchia. La striscia di terra che si trova sotto il confine si chiama appunto Binxet. Le persone incontrate qui sono persone comuni con alle spalle storie di lotta, di dolore, di resistenza e di amore toccante. Al documentario, frutto di cinque viaggi fatti dal regista in territorio curdo, ha prestato gratuitamente la propria voce Elio Germano. Abbiamo avuto modo di incontrare D’Alife domenica 16 luglio alla festa di Settembre Rosso -associazione affiliata Arci- in occasione della proiezione del suo documentario.

 

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In memoria di Orhan Doğan - Libertà al popolo curdo

Il 29 giugno sono stati dieci anni dall’improvvisa scomparsa di Orhan Doğan: un compagno curdo che conoscemmo bene, mia moglie Silvana Barbieri e io, al processo a carico suo e di Leyla Zana, Hatip Dicle, Selim Sadak che si tenne ad Ankara dal marzo del 2003 all’aprile del 2004, quattordici udienze consecutive a un mese di distanza l’una dall’altra.

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Leggi qui la prima parte

Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il

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Una guerra, in Medio Oriente, che non si chiude anzi si allarga

Considero per primi i passaggi subiti dai conflitti armati mediorientali in corso che precedono il cambiamento di presidenza negli Stati Uniti; poi ricapitolerò quelli successivi. Da quando ci ho provato l’ultima volta i cambiamenti di prospettiva di buona parte degli attori in campo sono stati enormi, sino a delineare un quadro generale molto diverso, quello precedente essendo determinato dalla centralità di Daesh – dal suo uso turco, dal contrasto portatogli da regime siriano, Russia, Stati Uniti e loro alleati, Iran e forze a esso legate – mentre Daesh ormai sta per essere sconfitto sia in Iraq che in Siria.

Ricapitolando fino a “prima” rispetto al quadro attuale

Esso era venuto assumendo la forma di un’instabile o ridotta, a seconda dei momenti, alleanza tra Russia e Stati Uniti, unita dall’obiettivo di far fuori Daesh. L’intervento russo aveva consentito di sbloccare un conflitto che durava da cinque anni e che stava portando al totale disfacimento della Siria, al consolidamento della forma semistatale assunta da Daesh, all’espansione parallela di al-Nusra (l’al-Qaeda siriana), a quella della coalizione Ahrar al-Sham nonché di una miriade di altri gruppi islamisti minori, a volte solo sigle di copertura delle due realtà maggiori, a volte loro alleati, a volte in conflitto con uno di essi o con tutt’e due, a volte su base etnica (soprattutto turcomanna), ecc. La Giordania, incaricata dall’ONU del censimento di queste forze, ne conterà 65.

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Il quadro mediorientale ha preso da qualche settimana a cambiare tutta la sUa parametratura; al tempo stesso le sue prospettive continuano ad apparire indeterminate. L'evoluzione di tale quadro ha il suo evento decisivo nella vittoria di Aleppo da parte del regime siriano, della Russia, dell’Iran e dei loro alleati minori.

A essa ha corrisposto una serie di fatti politici di grande portata, su iniziativa della Russia. la capacità di iniziativa degli stati Uniti, di converso, dato anche il risultato delle lezioni presidenziali, che già era debolissima e incoerente è precipitata a zero, essi sono stati addirittura esclusi da parte russa, finché sarà presidente Obama, dalla discussione in avvio sulle sorti politiche e istituzionali della Siria.

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Mercoledì, 06 Luglio 2016 00:00

Erdoĝan annaspa

L’attentato all’aeroporto di Istanbul, stando alla stampa italiana, sarebbe senz’altro attribuibile a Daesh. Le caratteristiche anche tecniche di quest’attentato richiamano effettivamente quelle degli attentati di Daesh in territorio siriano, iracheno, europeo, asiatico. Tuttavia Daesh ha sempre rivendicato i suoi attentati, e nessuno di quelli sofferti dalla Turchia sono stati rivendicati da Daesh. O meglio esso ha rivendicato in passato alcune operazioni effettuate in Turchia contro singole persone, come curdi legati alla militanza PYD del Rojava e operanti a ridosso del confine siriano. Inoltre sono senz’altro imputabili a Daesh (in collaborazione con i servizi di intelligence del MİT, la polizia e il governo AKP del pazzo criminale Erdoĝan) le stragi di Diyarbakır e Suruç del luglio del 2015, che colpirono rispettivamente un comizio elettorale del partito curdo legale HDP e una manifestazione di solidarietà di organizzazioni giovanili di sinistra con i combattenti curdi di Kobanê (Suruç è sul confine siriano), e la strage ad Ankara dell’ottobre successivo, che colpì un comizio elettorale sempre dell’HDP (ricordo che nel 2015 ci furono due momenti elettorali in Turchia).

A rendere dubbia, inoltre, tutta quanta la ricostruzione da parte turca dell’attentato all’aeroporto di Istanbul c’è che a una decina di giorni prima il MİT (o meglio un suo pezzo) aveva dichiarato al governo di ritenere prossimo un attentato in questa città, che il medesimo preavviso era stato dato dai servizi statunitensi, e che l’aeroporto di Istanbul era stato segnalato come uno dei possibili bersagli. Ancora, a rendere più che dubbia la ricostruzione del governo ci sta il fatto che la sorveglianza di polizia e militare dell’aeroporto non era stata rafforzata. Alimentare la “strategia della tensione” a suon di bombardamenti e massacri è stato da due anni a questa parte uno strumento fondamentale della politica interna di Erdoĝan, sia per conto della tenuta del consenso di cui dispone nella popolazione turca che a giustificazione, in una situazione di crescente isolamento internazionale, della sua guerra alla popolazione curda del sud-est.

Non si può tuttavia escludere in radice l’ipotesi che l’attentato all’aeroporto di Istanbul sia stato davvero effettuato da Daesh, sulla scia del deterioramento in corso dei rapporti Erdoĝan-Daesh. Adottiamo per un momento quest’ipotesi. Come i summenzionati attentati a Diyarbakır, Suruç e Ankara era inopportuno che fossero rivendicati da Daesh, perché avrebbero messo in chiaro il legame cooperativo Erdoĝan-Daesh e avrebbero danneggiato le campagne elettorali del partito di governo AKP, così una mancata rivendicazione da parte di Daesh dell’attentato all’aeroporto di Istanbul potrebbe significare che esso non dia per scontata una rottura politica definitiva con la Turchia, e che sarebbe appunto per impedirla che abbia realizzato quest’attentato. Esso cioè rappresenterebbe questo messaggio al potere turco: “o continui ad appoggiarci o noi continueremo a colpirti con stragi disastrose”.

Il deterioramento dei rapporti Erdoĝan-Daesh è in ogni caso reale. Questi rapporti erano parte, dal lato di Erdoĝan, di più ragionamenti. Il primo, la fungibilità di Daesh, e delle altre organizzazioni armate sunnite, all’obiettivo, attraverso la devastazione della Siria, di portarla o di portarne una parte sotto controllo politico turco, nel quadro dell’obiettivo megalomane della ricostituzione del califfato ottomano. Il secondo, il fatto che Daesh appariva un partner importante, come altre organizzazioni armate sunnite, prima di tutte al-Qaeda, dello schieramento di stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, appunto Turchia) che tira alla guerra generale (già cominciata in Yemen) contro gli stati sciiti, cioè contro l’Iran e lo stesso Iraq attuale (tra gli obiettivi turchi c’è anche il controllo del Curdistan iracheno e possibilmente dell’area di Mosul). Non solo. Daesh vendeva alla Turchia (o meglio al clan familiare di Erdoĝan e ai suoi sodali stretti dentro all’AKP) il petrolio estratto nei territori siriani sotto suo controllo, ricevendone in cambio la piena libertà di movimento e di transito, la protezione, la cura ospedaliera dei feriti, il rifornimento di armi, informazioni militari ecc. in territorio turco per i suoi assassini, grazie al fatto che Daesh controllava un tratto del confine turco-siriano. Infine Daesh risultava essere un prezioso alleato nella guerra di Erdoĝan ai curdi siriani, partecipi di un movimento politico vicino al PKK curdo-turco. Ma poi le cose sono cambiate, e abbastanza velocemente.

Daesh è precipitato in grandi difficoltà militari: la Russia è intervenuta in termini efficaci a sostegno del regime di Assad, ciò ha obbligato gli Stati Uniti a incrementare il loro intervento, ad armare i curdi siriani, a smetterla, retorica politica a parte, con la tesi sballata della doppia guerra a Daesh e a questo regime, ecc. In Iraq le cose si sono mosse nel medesimo senso. I curdi siriani sono diventati i migliori alleati degli Stati Uniti, per la loro capacità militare. Sempre sotto traccia gli Stati Uniti hanno smesso di considerare alleati effettivi Arabia Saudita, Israele, altre petromonarchie sunnite, e hanno deciso di considerare come loro vero alleato fedele nella regione l’Iran. Il tratto di confine tra Siria e Turchia non ancora sotto controllo curdo, infine, è stato chiuso: i bombardamenti russi vi hanno demolito ogni realtà armata ostile al potere siriano, poi è stato largamente occupato da truppe non solo siriane ma anche russe, sicché la Turchia non può intervenire militarmente a riaprirlo. In breve, tutte le condizioni del progetto di Erdoĝan sono venute meno. L’isolamento internazionale non era più, perciò, il prezzo che valeva la pena di pagare, ma era diventato un danno grave all’economia e alle condizioni popolari di vita in Turchia.

Per quanto profondamente malata di sciovinismo e di razzismo, la popolazione turca aveva votato per Erdoĝan non tanto perché facesse la guerra ai curdi ma perché migliorasse le condizioni popolari di vita e portasse tranquillità al paese. Di qui allora due atti, repentini, di svolta da parte di Erdoĝan. Il primo, l’abbandono di Daesh al suo destino, considerandone scontata la sconfitta militare e considerando ormai impossibile la realizzazione di un’egemonia turca sulla Siria, in quanto protetta dalla Russia e, sul versante curdo e su quello sunnita, dagli Stati Uniti. Residua una possibilità di egemonia sulla parte settentrionale dell’Iraq, usando l’alleato Barzani cioè il presidente corrotto del Curdistan iracheno: ma per tentarla occorre che Erdoĝan recuperi il rapporto con qualcuno di significativo in più oltre all’Arabia Saudita. In attesa di provarci con la Clinton o con Trump (con Obama la partita è chiusa), Erdoĝan è quindi andato a Canossa, cioè ha concordato con Israele l’indennizzo alle famiglie dei pacifisti turchi uccisi mentre tentavano di portare cibo a Gaza assediata da quest’altro assassino, e ha chiesto scusa a Putin per l’abbattimento dell’aereo militare russo sul confine turco-siriano. Tra parentesi, anche Israele ha in questo momento il problema del proprio isolamento internazionale. Attraverso il recupero di rapporti con Israele Erdoĝan si è dunque assicurato importanti rifornimenti energetici e aiuti tecnologici. Attraverso quello con la Russia, rifornimenti energetici non a rischio, la fine di sanzioni russe economicamente molto pesanti (blocco del turismo russo, blocco dell’importazione di frutta e verdura dalla Turchia, ecc.). Anche i rapporti della Turchia con l’Egitto sono destinati a migliorare (erano diventati pessimi a seguito della condanna da parte turca del golpe militare egiziano, che aveva colpito un presidente membro dei Fratelli Mussulmani, la medesima confraternita politico-religiosa cui appartiene Erdoĝan).

Tutto questo gioca evidentemente a favore dell’ipotesi di un’effettiva rottura tra Erdoĝan e Daesh. In ogni caso non occorrerà molto tempo per capire meglio le cose.
Ma se esse stanno così saranno guai grossissimi per la Turchia; la sua popolazione e la sua economia pagheranno un prezzo drammatico alla follia di Erdoĝan. La Turchia è stata in questi anni la retrovia fondamentale di Daesh, e con ciò il luogo nel quale le simpatie per Daesh hanno coinvolto migliaia di persone, solo parte ridotta delle quali è andata a combattere in Siria o in Iraq. Il telaio di supporto in Turchia a Daesh era grosso e articolato, e tale continua a essere. Ci sono quindi in Turchia migliaia di militanti di Daesh, turchi o provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, ben organizzati e in grado di mettere bombe e di sparare sulla gente. Inoltre Daesh ha legami stretti con pezzi di polizia e del MİT. Non va trascurato che sotto il vestito dello stato parlamentare, di diritto, caratterizzato dalla divisione dei poteri, dall’autonomia della magistratura, dalla fedeltà delle forze armate allo stato ecc. con il quale la Turchia di Erdoĝan si camuffa c’è una realtà, tutta rovesciata, che fa di ogni struttura e di ogni apparato dello stato e di ogni potere turchi, compreso quello militare, un coacervo di gruppi e di cosche che operano secondo la loro logica, le loro convenienze e i loro traffici, in genere illegali, hanno intrecci orizzontali tra loro, hanno rapporti con potenze straniere, tra le quali le petromonarchie arabe, grandi finanziatrici del terrorismo sunnita in tutte le sue varianti.

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