Sabato, 24 Marzo 2018 00:00

Afrin ci interroga (1 di 3)

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Afrin ci interroga (1 di 3)

Die Toten mahnen uns, i morti ci interrogano, recita la stele che a Berlino sovrasta la tomba di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht assassinati da soldati nazionalisti al servizio di un governo di destra socialdemocratica che aveva posto su di essi una taglia, “rei” di aver appoggiato un’insorgenza operaia.

Molto altro inoltre nel corso del Novecento e di questo primo scorcio di Duemila ci ha direttamente interrogato. In questo momento a interrogarci sono soprattutto i curdi, vittime storiche speciali della Turchia. Sono essi a sconvolgere le nostre coscienze, a contestarvi incertezze e opportunismi. Non solo i curdi, beninteso: ci interrogano e sconvolgono da gran tempo i palestinesi, abbandonati a un colonialismo israeliano che sta completando la conquista del loro territorio e della loro acqua, come ci sconvolgono i milioni di profughi mediorientali e di povera gente che fugge dall’Africa o dall’Afghanistan, o la persecuzione e massacri a danno di rohingya, mapuche e tante altre popolazioni in tutto il mondo.

Non è facile capire cosa fare di più adeguato, ma occorre inventarlo anche attraverso approssimazioni. Bisogna riuscire urgentemente a colpire, non solo a manifestare e a scrivere articoli. Ho letto l’appello al boicottaggio economico della Turchia, è una buona idea, si presta anche a iniziative popolari sul piano del turismo, dell’uso della compagnia di bandiera, dell’import di beni di consumo, di tessile, ecc. Bisogna denunciare pubblicamente i gruppi economici che investono (in altre parole, delocalizzano) in Turchia, commerciano con essa, ecc. Soprattutto occorre denunciare la vendita di armi a questo paese, cui prende parte anche l’Italia.

 

Quella in corso è solo l’ultima tragedia mediorientale di matrice turca

La “turchizzazione” linguistica e religiosa dell’Anatolia da parte di qualche centinaio di migliaia di nomadi turcomanni di fede islamica poté essere realizzata solo mediante stragi periodiche di armeni, greci, georgiani, assiro-caldei-siriaci, altre etnie e fedi che opponevano resistenza. È seguita, o, meglio, è stata continuamente rafforzata da questo dato della storia anatolica un’antropologia turca feroce, ossessiva, paranoica, stando alla quale il territorio anatolico sarebbe una sorta di proprietà assediata da preventivamente difendere contro i portatori di altre lingue, religioni, culture. Un proverbio turco recita che “solo il turco è amico del turco”. Guardando al Novecento, il periodo a cavallo della prima guerra mondiale ha registrato nell’Impero Ottomano e poi in Turchia lo sterminio totale di armeni (1 milione e mezzo di esseri umani) e assiro-caldei (300 mila), di fede cristiana, ma anche lo sterminio di quelle tribù curde (500 mila?), largamente di fede mussulmana, che rivendicavano la creazione di un proprio stato (ciò gli fu pure concesso dal Trattato di Sèvres, 1920: ma poi esso verrà spartito tra la Turchia e un neonato Iraq sotto occupazione britannica).

C’è dunque qualcosa di profondo e di mai elaborato e autocriticato nell’immaginario della popolazione turca, tra le cui manifestazioni è una coazione sistematica all’aggressione e alla guerra contro quelli che sono fondamentalmente fantasmi, oppure realtà che tentano solo di difendersi. Sono per questa popolazione aggressori tutti quanti tentino di difendersi dalla Turchia, sono tutti, nel suo lessico di oggi, “terroristi”. È questo “profondo” a scatenare periodicamente i governanti turchi in attacchi e repressioni di una ferocia estrema a danno di altre popolazioni e fedi religiose; siano essi, cioè, i capi kemalisti e laici delle forze armate oppure i partiti di estrazione kemalista (il Partito Repubblicano del Popolo) oppure il Partito del Movimento Nazionalista, apertamente razzista (è il partito dei Lupi Grigi), da sempre alleato dei militari, oppure il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP: fondamentalista, filiazione dei Fratelli Mussulmani) di Recep Tayyip Erdoğan.

Per l’esattezza c’è stata un’eccezione in questa storia: il decennio di guida politica della Turchia (1983-1993) da parte del Partito della Madrepatria capeggiato da Turgut Özal, di origine in parte curda. Morto nel corso della sua Presidenza della repubblica, la sua famiglia ritenne che fosse stato avvelenato dal MİT (l’intelligence turca).

Inoltre va aggiunto che i maggiori contesti urbani della Turchia sono stati impegnati in questi ultimi quindici anni da movimenti democratici di giovani, donne, sindacati del pubblico impiego. Ciò ha rotto la compattezza antropologica della popolazione. Il giornalismo e un pezzetto di magistratura, di insegnanti, di accademici, di scrittori hanno funto da espressione e da tutori di questi movimenti, sfidando la repressione. Ma i poteri politici reazionari sono riusciti anche stavolta a prevalere, ricorrendo ai soliti mezzi. Le manifestazioni celebranti il 1° maggio sono state sempre disperse dalla polizia a bastonate; quelle celebranti l’8 marzo sono state sempre attaccate dalla polizia con i cani lupo; gran numero di manifestanti è sempre finito in carcere, e lì bastonato e torturato; sempre le donne sono state violentate. D’altra parte la Turchia profonda, quella degli altopiani anatolici, quella in mano ai mullah, quella maggioritaria, rimane il dato sociale e culturale soverchiante della realtà turca e l’elemento sociale che dà forza ai poteri reazionari islamisti o militari.

Il fallimento del minicolpo di stato del luglio del 2016 sarà perciò facilmente usato da Erdoğan centralizzare massimamente il potere nelle sue mani, ovvero per disfarsi di ogni antagonista moderato in campo islamico, a partire dalla rete fatta di imprese, scuole, servizi in mano a Fethullah Gülen, poi per colpire, licenziare, incarcerare giornalisti, insegnanti, accademici, ecc., parimenti per colpire gran numero di quadri delle forze armate solo perché considerati politicamente inaffidabili (che Gülen sia stato tra i protagonisti del colpo di stato è solo una delle tragiche buffonate che infiocchettano la propaganda turca).

Questa micidiale realtà è la seconda potenza militare della NATO.

Ecco perché i due fondamentali poteri turchi attuali, quello dell’AKP e di Erdoğan e quello militare, rappresentano una minaccia di aggressione armata onnidirezionale da non sottovalutare, come invece continua ad avvenire da parte occidentale e da parte russa. 

La Turchia è da tempo una gravissima minaccia alla pace mondiale

Perché una tale minaccia? Primo, perché, inizialmente in solido all’Arabia Saudita, ai satelliti di quest’ultima e al Qatar, la Turchia ha trasformato in conflitto regionale quella che era stata inizialmente in Siria una crisi politica tutta di matrice interna animata da manifestazioni di giovani, donne, lavoratori contro il potere corrotto e criminale del partito Baath e poi era rapidamente evoluta, data la repressione, in una scissione delle forze armate e in guerra civile. Come questa trasformazione da parte della Turchia? Creando, attivando, finanziando, armando, ospitando e istruendo milizie fondamentaliste, dapprima al-Qaeda e altre minori, già attive in Iraq, poi Daesh (lo Stato Islamico), scissione di al-Qaeda. In diretta conseguenza, la guerra civile in Siria oltre a risultare irrisolta comincerà a essere parte di un conflitto più generale, agganciandosi alla crisi irachena e avendo cominciato a giocarvi sempre più pesantemente Stati Uniti, Russia, Iran, anche Israele (la cui destra è interessata alla continua destabilizzazione del Medio Oriente, ciò consentendole di poter continuare la propria colonizzazione della Palestina in mano araba).

A quale scopo, con quale obiettivo fondamentale, da parte della Turchia? La sua espansione territoriale diretta e indiretta, usando sempre più e meglio l’antagonismo tra Stati Uniti e Russia e dunque la loro gara a tenerla dalla propria parte, tastando sempre più arrogantemente il terreno, constatando così “quanto” e “come” l’espansione territoriale gli sia, in concreto, consentita. Oggi si è dinnanzi all’attacco del cantone curdo di Afrin e all’occupazione dell’intero suo versante settentrionale città di Afrin compresa: un grande passo avanti per la Turchia. Ma “testato” da essa attraverso passi avanti minori: quella a danno di Afrin non è infatti la prima manifestazione dell’espansione territoriale turca. La novità è solo nella dimensione e nella qualità attuali dell’operazione militare e nella dichiarazione ufficiale di governo dell’intenzione di espandersi territorialmente e, per di più, in una molteplicità di direzioni.

Non la prima manifestazione. La Turchia occupa, avendoglielo consentito a suo tempo Russia e Stati Uniti, e avendo così spezzato in due il territorio siriano a maggioranza curda, la città di Jarabulus e il suo territorio. La popolazione curda di questa città è stata obbligata alla fuga dall’esercito turco e da milizie arabe e turcomanne fondamentaliste collegate, ed è stata sostituita da arabi, turcomanni, anche turchi. La legislazione operante a Jarabulus è oggi quella turca, la bandiera sugli edifici pubblici è quella turca, le scuole praticano e insegnano il turco, ecc. Ancora, la Turchia ha moltiplicato (portato a quattro) i suoi insediamenti militari nel nord dell’Iraq, e se ne infischia delle reiterate richieste del governo iracheno di sgombero, anzi minaccia una larga invasione.

Rammento, ancora, come la Turchia occupi militarmente dal 1974 oltre un terzo del territorio cipriota, abbia cacciato da questo terzo circa un terzo della sua popolazione, perché di lingua greca, abbia favorito l’immigrazione in esso di decine di migliaia di turchi anatolici.

Allargamento territoriale e pulizia etnica sono complementari da gran tempo, come si vede, da parte turca.

Né, inoltre, si tratta, tornando alle operazioni attuali della Turchia, di fatti occasionali, dettati esclusivamente da circostanze per così dire favorevoli. La Turchia ha di recente denunciato quel Trattato di Losanna (1923) che ne fissò i confini e dichiarato formalmente di rivendicare il possesso delle ex province ottomane di Aleppo (effettuabile solo se si spianano i curdi di Afrin e si rilancia la crisi siriana) e di Mosul e di Kirkuk (effettuabile solo con la distruzione del semi-stato curdo nel nord dell’Iraq). Essa opera in termini illegali e minacciosi nelle acque greche dell’Egeo e minaccia l’occupazione di alcune loro isole; rivendica la Tracia greca, un’area molto grande, metà di quel tratto settentrionale della Grecia confinante con la parte europea della Turchia e con la Bulgaria; oltre a tenere occupata la parte settentrionale di Cipro ha recentemente impedito con minacce militari prospezioni (orientale al rilevamento di giacimenti di idrocarburi) da parte italo-francese nelle acque territoriali contigue alla Cipro greca, argomentando con l’intenzione di impedire qualsivoglia presenza del genere da parte europea in tutto il Mediterraneo orientale (anzi, dichiarato due giorni fa, anche da parte statunitense); interviene pesantemente nella situazione interna della Bulgaria, agendo sulle sue minoranze islamiche tra cui una, consistente, di lingua turca; opera analogamente, agendo su minoranze turche e tartare, nella Dobrugia romena.

Ancora, la Turchia ricatta l’Unione Europea con la minaccia di riaprire il flusso dei fuggiaschi dal Medio Oriente, nonostante sia lautamente pagata per non farlo.

Ancora, la Turchia dichiara apertamente che, dopo avere distrutto il cantone di Afrin, intende operare analogamente contro Manbij (città alleata ai curdi abitata soprattutto da arabi, turcomanni, siriaci e protetta da truppe statunitensi) nonché contro il pezzo di Siria orientale liberato dai curdi; e dichiara che intende operare analogamente contro quei curdi yazidi rifugiati sui Monti Sinjar, nel nord dell’Iraq, che vi hanno costruito una loro realtà autonoma aiutati dal PKK curdo-turco e dal PYD curdo-siriano ad armarsi e a respingere il tentativo di Daesh, apertamente appoggiato dalla Turchia, di sterminarli.

Non è un caso, in ultimo, né è un fatto secondario che la Turchia usi largamente nelle sue aggressioni milizie ex al-Qaeda, ex Daesh, ecc., oggi ribattezzate Esercito Siriano Libero, né è un caso che siano esse a operare militarmente sul terreno, che siano solo carri armati, elicotteri, aerei, logistica a essere gestiti dall’esercito turco. In questo modo, fingendo di non avere mire territoriali ma solo la “protezione” dei propri confini, in realtà avviene da subito l’insediamento stabile nei territori occupati di arabi, turcomanni, ecc., ovvero avviene l’annessione di fatto alla Turchia.

Allarme rosso, perciò, altro che esitare dal lato statunitense, borbottare scemenze e continuare a dare soldi dal lato europeo, consentire e trafficare dal lato russo. Più dal lato turco si constaterà di avere a che fare con governi imbelli o incerti più si riterrà di potersi liberamente allargare.

Giova aggiungere come, in ogni caso, gli Stati Uniti abbiano abbandonato la base aerea turca di İncirlik, sostituita con piste create in territorio curdo-siriano o con basi aeree giordane, con ogni probabilità si siano ripresi gli ordigni nucleari dislocati in questa base (forse una cinquantina): insomma è chiaro che al di là di incertezze e frasi di convenienza non si fidino per nulla. Ciò vale anche dal lato russo. Parimenti qualcosa di più si sta da qualche giorno muovendo dal lato sia statunitense che europeo e fors’anche dal lato russo. Gli Stati Uniti hanno dichiarato ufficialmente la loro preoccupazione per il fatto che lo spostamento verso il cantone di Afrin delle milizie del PYD dislocate nella parte orientale della Siria sta consentendo a Daesh di recuperare territorio nella sua parte sud-orientale e in tratti contigui dell’Iraq, e che intendono mantenere (ma durerà?) la loro presenza militare a Manbij. Francia, Danimarca, Belgio, Svezia dichiarano l’inaccettabilità delle attività militari in corso della Turchia. La Danimarca dichiara Erdoğan “criminale di guerra”. La Russia ha appena consentito al regime siriano di alzare la voce contro l’intervento militare turco nel cantone di Afrin e di pretendere che a quest’intervento venga immediatamente posto termine. È tuttavia, oggettivamente, robetta, al massimo usabile in trattative al ribasso. A meno che Stati Uniti e Russia definiscano un proprio accordo. Ciò che all’orizzonte non si vede. Né è detto che a un certo momento si vedrà.

Se gli Stati Uniti, contraddicendosi, effettueranno concessioni alla Turchia, anche solo parziali, riguardanti Manbij, si farà quasi certezza l’attacco turco ai cantoni curdi orientali, alle città di Kobanê, Qamişlo, Hêsiҫe.

Tali concessioni, non illudiamoci, sono nell’ordine delle buone probabilità.


La seconda parte uscirà domenica 25 marzo, la terza lunedì 26 marzo. Stiamo lavorando a un PDF riepilogativo di tutte e tre le parti.


Immagine liberamente ripresa da www.pexels.com

Ultima modifica il Martedì, 27 Marzo 2018 00:11
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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