Lunedì, 26 Marzo 2018 00:00

Afrin ci interroga (3 di 3)

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Afrin ci interroga (3 di 3)

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Cronaca della macelleria anticurda novecentesca

È stata solo la grande dimensione del popolo curdo (40-45 milioni di esseri umani, tanti quanto i polacchi o gli spagnoli) a impedirne la riduzione a infima minoranza o addirittura l’estinzione – a opera prima di tutto turca, ma anche irachena, iraniana, siriana.

Un complesso di tribù di contadini e di pastori sottoposti a gerarchie ereditarie (ma anche protagonista da secoli di rivolte per l’indipendenza di questa o quella sua realtà) sarà dunque obbligata, a cavallo della prima guerra mondiale, dopo essere stata arruolata nell’esercito ottomano e usata da esso nello sterminio di armeni e assiro-caldei, a un grande balzo verso la Modernità; collateralmente, a creare grandi figure di dirigenti.

A partire dal 1924 la Turchia visse una serie di insurrezioni curde: la rivoluzione kemalista, nazionalista, modernizzante e autoritaria, aveva abolito sia il califfato che le scuole, le associazioni e le pubblicazioni curde. La repressione turca costò ai curdi qualcosa come 300 o 400 o forse 500 mila morti. A partire dal 1930 le insurrezioni cominciano anche in Iraq: dove si afferma come leader la grande figura di Mustafa Barzani. Nel 1941 si forma nel Curdistan iraniano una repubblica curda, protetta dall’occupazione del nord dell’Iran da parte dell’Armata Rossa sovietica, conseguente alla svolta filonazista del paese; qui Barzani e i suoi peshmerga trovano rifugio. Nel 1946 avviene in questa repubblica la fondazione da parte di Barzani del Partito Democratico del Curdistan (PDK): un partito laico, democratico-socialista, che vuole la separazione tra stato e istituzioni religiose. L’Armata Rossa nel 1946 deve ritirarsi, l’esercito iraniano può quindi distruggere la repubblica curda e impiccarne i capi (e distruggere la repubblica azera iraniana, che aveva avuto la medesima origine e il medesimo sviluppo). Barzani prende parte nel Curdistan iraniano alla guerriglia dei suoi curdi; essa viene meno nel 1951. Segue fino al 1956 la guerriglia di Barzani in Iraq, contro gli eserciti di Iraq, Turchia e Iran. Nel 1958 il generale iracheno Abd al-Qasim, autore di un colpo di stato antimonarchico, riconosce i curdi come parte della nazione irachena e invita Barzani a tornare in Iraq; ma nel 1961 i rapporti tra al-Qasim e PDK si deteriorano, per via di un tentativo di arabizzazione organica della nuova realtà irachena, e i curdi reintraprendono la guerriglia. Nel 1963 il partito arabista Baath, parte del governo di Qasim, effettua un colpo di stato; la repressione anticurda si fa feroce, ricorre a massacri di massa anche usando i gas. Gli sviluppi successivi sono cronaca politica. Rammento che i curdi realizzeranno la loro attuale realtà semi-indipendente nel nord dell’Iraq a seguito della “prima guerra del golfo”, cioè della guerra mossa nel 1990 all’Iraq da Stati Uniti e loro alleati.

La partita viene riavviata da parte del Partito dei Lavoratori del Curdistan (PKK), fondato nel 1978 ad Ankara a opera di studenti curdi di orientamento marxista-leninista (tra questi è Abdullah Öcalan, che si affermerà come loro leader). Il loro programma prevede la costituzione di uno stato pancurdo indipendente. Nel 1980 un colpo di stato militare di estrema destra porta l’esercito turco ad attaccare frontalmente il Curdistan; l’obiettivo, reprimendo l’uso stesso del curdo e terrorizzando la popolazione, è l’estinzione della realtà etnica curda. Ogni resistenza viene repressa con decine di migliaia di incarcerazioni e di migliaia di sospensioni e arresti di sindaci, con il coprifuoco nelle città e in interi territori, con la distruzione di 4 mila villaggi, con le stragi di manifestanti nelle città curde e nel corso delle stesse feste del Newroz (il capodanno curdo). Nel 1984 il PKK opera il passaggio alla lotta armata. I governi turchi continuano a oggi a dichiarare il PKK responsabile della morte di circa 40 mila persone: ma si tratta quasi solo di contadini, pastori, donne, bambini, anziani incapaci di fuggire nel corso di rastrellamenti e di distruzioni di villaggi da parte dell'esercito turco. Decine di migliaia di donne e ragazzine curde sono violentate. 5-6 milioni di curdi si rifugiano nelle grandi città.

Da poco prima l’arresto e l’isolamento carcerario, avvenuti nel 1999, Öcalan indica al PKK una svolta teorica e politica di grande portata. Il marxismo-leninismo è accantonato e sostituito da una posizione eco-socialista e libertaria. L’obiettivo è la conquista nell’intero Curdistan dei diritti linguistici curdi e di forme di autogoverno democratico di popolo (i curdi chiamano ciò “confederalismo democratico”), ma senza alterare i confini statali che lo dividono. La liberazione per via politica delle donne dai gravami oppressivi barbarici delle società mediorientali viene sostituita dal protagonismo organizzato delle donne in tutte le sfere della vita sociale e politica; date le condizioni mediorientali, anche nella forma del loro armamento e di reparti e comandi femminili. Ciò che abbiamo visto di recente nel contesto della resistenza a Daesh (lo Stato Islamico) da parte dei curdi di Kobanê, guidati dal PYD, è quanto il PKK pratica dal 1984 nel sud-est turco.

Giova solo aggiungere come anche da parte iraniana si sia continuamente proceduto alla repressione di ogni movimento curdo quando orientato all’autonomia territoriale e linguistica, a botte di carcerazioni e di impiccagioni.

In Turchia opera da tempo un partito curdo legale. L’attuale suo nome è Partito Democratico del Popolo (HDP). Esso riconosce in Öcalan, come quasi tutte le altre formazioni curde mediorientali, il leader naturale dei curdi. L’HDP ha molte decine di sindache, ha molte donne parlamentari, alla testa di tutte le sue organizzazioni ci sono un uomo e una donna. Migliaia di quadri e di militanti, centinaia di sindaci, decine di parlamentari curdi operanti nella legalità ma anche centinaia di giornalisti indipendenti e di attivisti delle associazioni per i diritti umani hanno subito incarcerazioni in più fasi della storia turca – ivi compresa l’attuale, la più estesa e segnata da continue stragi – ad opera non solo di polizia e forze armate ma anche degli insediamenti in Turchia, guidati dall’AKP e dal MİT, di militanti di al-Qaeda e poi di Daesh.

Ciò è avvenuto in sintonia con la rottura da parte di Erdoğan delle trattative con il PKK, avviate nel dicembre del 2012: avendo ottenuto nelle precedenti elezioni di giugno un risultato insufficiente alla trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale passibile di trasformazione in qualcosa di molto simile a un califfato, Erdoğan ritenne che solo una ripresa della guerra civile avrebbe potuto consentire alle elezioni anticipate di novembre di raccogliere sul suo partito AKP il grosso del voto nazionalista turco, impedire all’HDP di superare lo sbarramento del 10%, conquistare così quella maggioranza in parlamento superiore ai due terzi dei seggi che avrebbe consentito a lui e all’AKP di marciare verso il califfato.

Il minicolpo di stato del 2016 sarà per Erdoğan come il cacio sui maccheroni: alla repressione antigulenista egli potrà nel Curdistan unire settimane di stato d’assedio, sospensione dell’acqua e dell’elettricità, privazione del cibo, cecchinaggio, bombardamenti con carri armati e artiglieria pesante, mitragliamenti da terra e con elicotteri di intere città (oltre venti) del sud-est e contro il centro storico di Diyarbakır, le cui popolazioni stavano pacificamente tentando di fondare istituzioni democratico-partecipative guidate, anziché da un sindaco, da due – una donna e un uomo; e potrà, per due anni consecutivi, cioè fino a oggi, sospendere o arrestare centinaia di sindaci curdi, commissariarne i comuni, arrestare molti parlamentari dell’HDP, tra cui le figure apicali.

Oggi quelle città e quel centro storico sono in via di ricostruzione: e via via ripopolate, non già dai precedenti abitanti curdi, ma da fuggiaschi dalla Siria arabi e turcomanni.

Migliaia di ragazze e ragazzi curdi del sud-est turco, ma anche curdo-iracheni e curdo-iraniani, si sono quindi uniti a seguito di questi fatti al PKK o al PYD siriano, i due fronti fondamentali oggi della lotta di liberazione curda.

Di questa storia terribile dunque Afrin è solo la più recente puntata e purtroppo, pare, non l’ultima. Ma Afrin è anche molto di più.

A proposito di “confederalismo democratico”

Cioè perché i movimenti combattenti curdi costituiscono oggi un’avanguardia socialista innovativa di grande interesse.

Si tratta dell’esperienza di democrazia comunitaria e partecipativa, molto interessante, e anche istruttiva, per gli straordinari risultati pratici e di civiltà, che il PKK ha tentato di praticare nel 2016, che PKK e PYD hanno costruito nei territori yazidi del nord dell’Iraq, che il PYD ha praticato e pratica nel Rojava ergo sta praticando nei cantoni della parte orientale della Siria e ha praticato nel cantone di Afrin fino all’attacco turco, impegnando inoltre in questa sua pratica e nella sua organizzazione militare anche arabi, turcomanni, siriaci, armeni; sul piano religioso, sunniti, sciiti, cristiani, yazidi, ecc.

Già prima dell’arresto del 1999 Öcalan aveva formulato alcune riserve rispetto al suo originario marxismo-leninismo. Ma sarà nella carcerazione che egli proporrà al PKK una rettifica generale della posizione teorica, politica e sociale: riprendendo parte sostanziale della riflessione di una figura di statunitense, Murray Bookchin, la cui posizione è a metà tra l’anarchismo (quello soprattutto di Proudhon, mi pare, ripulito delle estremizzazioni di tipo individualista) e quella parte del pensiero di Marx in cui egli più compiutamente delinea la sua idea di sistema socialista, che si trova soprattutto nel suo bilancio dell’esperienza della Comune di Parigi ovvero nell’Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori sulla guerra civile in Francia nel 1871.

Spunti della riflessione teorica di Öcalan risultano recuperati anche da Karl Polanyi, Immanuel Wallerstein, Fernand Braudel.

In breve, Öcalan definisce nei suoi scritti (tra parentesi: editi in italiano da Punto Rosso su affidamento da parte curda), dapprima, un progetto di società “democratico-ecologista”, poi, specificando, una “società liberazionista del genere” e “democratico-ecologista”.

È importante aggiungere come nel 2005 Öcalan avesse proposto ai governi di Turchia, Siria, Iraq e Iran una “confederazione libera da confini” tra i relativi territori curdi, che comunque sarebbero dovuti rimanere sotto la sovranità di tali paesi. Nel 2006 egli inoltre chiederà al PKK l’attivazione di un proprio armistizio, il cui obiettivo, tramite trattative con il governo turco, avrebbe dovuto essere una pace durevole in Turchia. L’uso delle armi da parte del PKK, aggiungeva, avrebbe dovuto limitarsi all’autodifesa da eventuali attacchi dell’esercito o della polizia o dei servizi di intelligence di quegli stati.

Guardando all’esperienza più avanzata e organica di “confederalismo democratico”, cioè a quella nel nord-est della Siria, è agevole constatare una “democrazia comunitarista” di popolo orientata all’abolizione delle funzioni separate dello stato, affidate invece alla partecipazione popolare e alle comunità territoriali, attenta alla tutela delle condizioni ambientali, multietnica, multiculturale e multireligiosa, impegnata nella difesa e nella realizzazione delle condizioni necessarie alla liberazione delle donne da ogni vincolo oppressivo (nel contesto concreto, una condizione fondamentale di ciò è l’esistenza di unità femminili armate), orientata infine alla difesa dagli aggressori (il fondamentalismo armato sunnita, lo stato turco) dall’armamento del complesso della popolazione.

Va da sé che l’applicazione di analogo tentativo socialista in paesi caratterizzati da uno sviluppo superiore delle economie richieda adattamenti caratterizzati da una certa complessità delle forme istituzionali. Ciò tuttavia niente toglie, a parer mio, agli insegnamenti di principio che vengono anche alle realtà più sviluppate dal tipo di socialismo realizzato nell’est siriano così come dalla riflessione teorica di Öcalan.

Oggi la città di Afrin muore ma un giorno i curdi la libereranno

Oggi i curdi sono soli, traditi dalla Russia, dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, pur avendo difeso anch’essi l’Occidente dal terrorismo fondamentalista sunnita, pur avendo sostituito i nostri soldati super-armati con i propri miliziani semidisarmati, quelle ragazze e quei ragazzi del PYD per i quali il mondo intero si è per tante ragioni entusiasmato. La fuga da Afrin da parte dei suoi abitanti, largamente curdi, si sta completando, per volontà anche delle milizie del PYD, che vogliono evitarne la strage. Anche questa fuga è bombardata dagli aerei della Turchia. In queste settimane la parte meridionale del cantone di Afrin è stata occupata da milizie dipendenti dal governo siriano, e lì si insedieranno i fuggiaschi. Sarà da vedere se vi sarà agibilità per le milizie del PYD oppure se verranno disarmate, se il PYD disporrà di agibilità, ecc. Ritengo quasi certo il disarmo delle milizie. Una parte, volontaria, dei miliziani curdi continuerà a combattere dentro Afrin, onde infliggere alle milizie tagliagole legate alla Turchia e ai suoi soldati il massimo delle perdite. Una parte sta attivando la guerriglia nelle campagne. Una parte sta rientrando nei cantoni curdi orientali, nelle loro città, nei loro villaggi, minacciati di invasione e di stragi anch’essi dalla Turchia, abitate da curdi ma anche da arabi, siriaci, turcomanni, armeni.

Era impossibile resistere a un esercito dotato di carri armati, artiglieria pesante, elicotteri e appoggiato dall’aviazione, disponendo solamente di armamento leggero. Il PYD, cioè il protagonista fondamentale in Siria della sconfitta di Daesh, non è mai stato dotato di armamento pesante da chi gli chiedeva, Stati Uniti, Russia, Unione Europea, di mandare i propri soldati a combattere anche in luogo dei soldati occidentali, benché Daesh avesse operato a più riprese nei loro paesi con atti terroristici. C’è sempre stato un rapporto di classe tra tali paesi e la realtà curda, semplicemente perché non occidentale, dunque perché “inferiore”. Nel DNA antropologico occidentale è almeno da 500 anni ben radicato, e anche ben mimetizzato, in genere, il razzismo.

Oggi questa popolazione e questi miliziani curdi subiscono perdite pesantissime, oggi centinaia di migliaia di curdi sono in fuga, per via dell’attacco proditorio di una delle fogne più retrograde e criminali del pianeta, il regime ladro, folle, fondamentalista turco a guida di un nuovo Hitler, il criminale stragista Erdoğan.

Afrin davvero ci interroga.


Stiamo lavorando a un PDF riepilogativo delle tre parti.


 Immagine liberamente ripresa da wikimedia.org

Ultima modifica il Domenica, 25 Marzo 2018 12:44
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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