La ricorrenza del 1° maggio imporrebbe a tutti, prima di invischiarsi nella battaglia politica, una seria e profonda riflessione sul lavoro e sul senso del lavoro nella nostra società e nel mondo globalizzato.
Purtroppo, e qui faccio anche autocritica, spesso si parla sull'onda dell'emotività e non si riesce ad avere un punto di vista quanto meno rispettoso. L'esempio negativo in questo senso arriva ancora una volta da Grillo che, non so quanto intenzionalmente, si fa prendere dalla verve polemica e confonde la storia gloriosa del 1°maggio con la polemica politica e sindacale.
Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.
Così Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti corsari (1975) fotografava l'italiano intorpidito dalla cultura massmediatica.
La prima impressione dopo la rielezione di Napolitano è semplice e drammatica allo stesso tempo: paura.
Infatti, ci troviamo a dover analizzare una situazione politica senza precedenti nella storia repubblicana e provare a ragionare a mente fredda è semplicemente impossibile. Penso sia stato scritto un pezzo di storia che probabilmente risulterà solo il proseguimento di ciò che è avvenuto un anno e mezzo fa con l'incarico a Monti.
Il discorso sulle condizioni lavorative nel settore agricolo del nostro paese va inserito all'interno del contesto economico globale. Infatti, per comprendere la portata e l'intensità dell'attacco alle condizioni lavorative in corso, dobbiamo aver chiaro il processo di riorganizzazione del Capitale. La fine dei vincoli alla mobilità finanziaria avvenuta con l'adozione del dollar standard ha provocato una decisa modificazione del processo di accumulazione del capitale con effetti a cascata anche sulla struttura del sistema economico.
In Italia l'inchiesta più famosa sullo sfruttamento della manodopera migrante parte dal lavoro di Fabrizio Gatti, nell'ormai lontano 2006, quando il giornalista si infiltrò per una settimana nei luridi tuguri in cui venivano detenuti immigrati africani e dell'est europeo. Gatti descrisse lo sfruttamento e la violenza che quotidianamente si esercitavano nella progressista Regione Puglia di Nichi Vendola, avvolta in un clima da “Mississipi Burning”. Certamente Giuseppe Di Vittorio non sembrava essere mai passato per quelle terre.
Buenos Aires, Belfast, Glasgow, Liverpool trent'anni dopo non dimenticano e non possono dimenticare. Quei popoli hanno vissuto direttamente sulla propria pelle la ferocia reazionaria dei suoi governi e non hanno nessuna intenzione di tacere la propria rabbia. I figli dei minatori la scorsa notte a Brixton sono scesi in piazza e ancora una volta hanno trovato il duro nerbo del manganello come unico interlocutore.
Venerdì 22 marzo la pianura padana ha cambiato volto drasticamente: Milano, Piacenza, Bologna, Torino, Genova, Padova, Verona, Treviso, tutti i più grandi centri logistici del Nord Italia vengono bloccati da uno sciopero dei facchini dal forte carattere etnico (più del 50% sono immigrati) oltre che di classe. Uno shock per i pochi leghisti rimasti – attualmente con uno scarsissimo 4% sono aggrappati al potere in Lombardia e attraversano fortissime difficoltà anche in Piemonte.
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