Mercoledì, 03 Aprile 2013 00:00

Sciopero etnico e di classe scuote il Nord Italia

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Venerdì 22 marzo la pianura padana ha cambiato volto drasticamente: Milano, Piacenza, Bologna, Torino, Genova, Padova, Verona, Treviso, tutti i più grandi centri logistici del Nord Italia vengono bloccati da uno sciopero dei facchini dal forte carattere etnico (più del 50% sono immigrati) oltre che di classe. Uno shock per i pochi leghisti rimasti – attualmente con uno scarsissimo 4% sono aggrappati al potere in Lombardia e attraversano fortissime difficoltà anche in Piemonte. 

Delle zone interessate dal ridimensionamento del sogno federalista di Bossi, ossia la macro-regione maroniana, si salverebbe solo il Veneto di Zaia, se non fosse tra le regioni più interessate dallo shock. 

Nel descrivere la giornata di sciopero degli immigrati nella pianura padana non potevo esimermi dal marcare lo strappo con la narrazione politica leghista. Una narrazione che ha passato l'ultimo ventennio politico a raccontarci la bellezza di un territorio immerso nel quieto vivere, in cui l'unico problema rilevante era l'esterno: l'immigrato delinquente o il meridione palla al piede del “progresso”. 

Ad oggi la situazione è decisamente ribaltata e il discorso politico leghista, pur avendo tentato un aggiustamento, pare essere definitivamente imploso sotto i colpi della crisi economica

P. Secchia dalle colonne di Rinascita (n.8-9,1950) affermava: «Il capitalismo in putrefazione ha bisogno per reggersi di mentire continuamente. La realtà lo accusa: dunque deve essere falsificata. La fabbrica della menzogna è diventata arte, tecnica, norma di vita». Questa arte della menzogna di certo non si è arrestata e i saggi di Chomsky ci provano come, invece, si sia notevolmente affinata. Tuttavia, dalle cronache dello scorso venerdì emerge uno scossone che va ben più in profondità dell'epidermide leghista da cui sono partito: la realtà non riesce ad essere falsificata e rischia di sovvertire la menzogna capitalista. Infatti, sono i nuclei della grande distribuzione e le grandi multinazionali (l’Ikea, la Coca Cola, la TNT, l’SDA, la DHL, la GLS, la Bartolini, l’ Esselunga, la COOP) ad essere stati interessati da uno sciopero che presenta i connotati tipici della lotta di classe. Quest'ultima, lungi dall'essere scomparsa e nonostante i retori del post-89, sta ritornando al centro della scena mondiale riproponendo anche sul nostro territorio interessantissimi fenomeni dall'eco profondo in tutta la società. Raccontare, studiare e discutere questi fenomeni per far ripartire un pensiero di sinistra demolito dalle ultime elezioni dovrebbe essere una prerogativa irrinunciabile. 

Dunque, partiamo dalla consapevolezza di una società in cui il multiculturalismo è messo a dura prova dalla retorica razzista e fatica ad attuarsi in un quadro di arretramento complessivo del welfare, con chiusure verso i soggetti da integrare che vengono emarginati in spazi sempre più ristretti ai limiti della sopravvivenza fisica.

Questa giornata di sciopero sembra aver gettato un importante ponte di dialogo tra le etnie proprio attraverso la lotta di classe attuata prescindendo dal colore della pelle, dalla lingua o dalla religione. Un meraviglioso esempio di collaborazione e di solidarietà reciproca, come non se ne vedevano da tempo in questa società abituata all'egoismo e intrisa d'individualismo.

Nelle cause dello sciopero troviamo tutti i mali più profondi di cui la società italiana ha sofferto nell'ultimo ventennio, mali trascurati, quando non apertamente alimentati dalla classe dirigente di questo paese. La maggioranza degli scioperanti sono immigrati sottoposti alla Bossi-Fini, una legge che ha ulteriormente peggiorato la precedente Turco-Napolitano e che si inserisce comunque nel complessivo quadro di chiusura delle frontiere e di riduzione dei flussi di migratori avviati con la legge Martelli. Ma, affrontare il problema di classe in questo paese vuol soprattutto dire partire dal clamoroso fallimento delle politiche migratorie e delle politiche sull'integrazione. Chiunque metta il naso fuori di casa può accorgersi di come i ghetti siano un aspetto costante delle nostre città. Questo fallimento, duole ammetterlo, parte dalla sinistra ed è il fallimento di una politica integrazionista che è stata solamente formale, perché inserita in una logica economica di destra. Così, sono stati sanciti importanti principi come la parità di accesso ai diritti sociali, ma poi non si sono mai trovate le risorse, perché intrappolati in una politica di tagli al welfare. Il Fondo nazionale per le politiche migratorie, creato nel '98 proprio dalla Turco-Napolitano, nel 2001 è confluito nel Fondo nazionale per le politiche sociali e con la finanziaria del 2003 è stato definitivamente scorporato. Successivamente, la Bossi-Fini, ha inasprito l'atteggiamento restrittivo sul welfare riducendo notevolmente gli spazi di coesistenza e incrementando le divisioni sociali. 

Tuttavia, la fine dello stato sociale è un dramma che investe non solo gli immigrati e così si creano spazi di coesistenza nuovi fuori dallo Stato e dentro la società. Una forma di coesistenza viene riscoperta partendo proprio dalla solidarietà di classe, una solidarietà che si esprime in varie forme e che viene costantemente repressa proprio perché insidia pericolosamente lo status quo. La solidarietà di classe che sul finire del XIX secolo creò le prime associazioni di mutuo soccorso e sorresse l'avvio delle lotte per la conquista degli spazi democratici di cui abbiamo usufruito, si ripropone anche oggi. Quando un infermiere di Massa Carrara capisce che l'arretramento complessivo della sanità pubblica lo interessa in prima persona, quindi paga il ticket per le analisi della figlia di una donna indigente tagliata fuori dall'art. 32 della Costituzione Repubblicana, si ricrea una collettività che lo Stato classista esclude. 

Allo stesso modo venerdì scorso, la massa enorme di immigrati ed italiani abbracciati in uno sciopero unitario riaffermava basilari diritti del lavoro come la malattia, oltre che avanzare le debite richieste salariali. Inoltre, si può notare come gli evidenti problemi d'integrazione non si siano riversati in una serie di riot sul modello delle banlieu parigine o di Londra 2011, ma viceversa, abbiano saputo trovare una forma molto democratica di espressione nello sciopero civile e non violento. 

Come si può facilmente intuire, siamo all'interno di un contesto di feroce attacco alle basi democratiche del paese, ricostruirle con un'azione solidale tra italiani esclusi e immigrati mai inclusi è il tentativo portato avanti da chi ha organizzato quello sciopero e continua ad organizzare un'azione di classe sul territorio nazionale. È questa l'interessante ricomposizione della società civile che esce dagli anni di plastica del berlusconismo. Certo, c'è il fenomeno M5S lì a incanalare la richiesta di cambiamento, ma come ha ripetutamente fatto capire il suo leader: non intende usare l'arma della solidarietà per ricostruire lo Stato, come non intende neppure parlare di destra e sinistra, dunque di classi. Insomma, siamo di fronte ad un fenomeno politico che tenta di incanalare il dissenso dentro la politica degli anni precedenti, ma in un contesto complessivo in cui quelle politiche hanno già dimostrato il loro fallimento, una sorta di raggiro delle masse popolari frustrate. Molto dipenderà dalla reale volontà di cambiare della nazione, dall'educazione politica e dalla resistenza alle divisioni. Tuttavia, i segnali che arrivano dalla base sociale paiono incoraggianti.

Infatti, lo sciopero della logistica rivela l'esatto opposto della reazionaria favola grillina sull'inutilità dei sindacati. C'è un'aperta contestazione dei sindacati confederali accusati di agire in “assoluta clandestinità”, di “essere andati al tavolo della trattativa nazionale senza legittimità nascondendo ai lavoratori l’ulteriore svendita dei diritti”. D'altra parte non potrebbe essere diversamente, se pensiamo che gran parte di questi lavoratori hanno pagato sulla propria pelle il prezzo di una certa auto-referenzialità del sindacato e della sinistra. Dagli scioperi il ruolo del sindacato ne esce rafforzato più che mai, poiché sarebbe stato impossibile senza un'organizzazione sindacale bloccare l'intero trasporto merci in tutto il Nord. L'unità sindacale stessa viene rivendicata fuori dalle strutture confederali, definite “anti-operaie”, nonché “funzionali all’annullamento di ogni tipo di rivendicazione dei lavoratori”. Una polemica che all'interno della CGIL ha echi importanti nel sindacato FIOM, troppe volte abbandonato e lasciato solo dalla propria organizzazione di riferimento.  

Le rivendicazioni sorte in questi scioperi raccolgono tutto quello che in questi anni la sinistra ha lasciato sul campo e ha ceduto alle destre, cioè diritti fondamentali del lavoro troppo spesso barattati per qualche posto di lavoro che la recessione ha prontamente riassorbito. La crisi porta a fare i conti anche col proprio bagaglio culturale e con ciò che è stato ceduto all'ideologia liberista e il bilancio appare sempre più fallimentare: le cooperative interessate da questi scioperi ne escono come uno strumento fondamentale del padronato utilizzato in un quadro normativo già ampiamente compromesso dalla legalizzazione della precarietà. Anche qui viene contestata l'applicazione di contratti come l'Unci che schiantano la dignità del lavoratore in un'eterna rincorsa al ribasso salariale e all'erosione dei diritti. Tuttavia, il quadro di precarietà nel mondo del lavoro risulta tanto più drammatico per chi, come l'immigrato, deve sottostare ad un doppio giogo: oltre a quello del Capitale, pure quello della regolarizzazione e dell'assenza dei diritti di cittadinanza. Infatti, la legge Bossi-Fini con i cosiddetti “contratti di soggiorno” ha legato strettamente il permesso di soggiorno al requisito di uno specifico contratto di lavoro; in un quadro di precarizzazione crescente delle condizioni lavorative. Questo ha portato alla riduzione del periodo di presenza legale e all'incremento dell'uscita dei lavoratori dalla legalità e all'incremento del lavoro nero, nonché allo sviluppo di vere forme schiavistiche soprattutto nei campi del Sud Italia. 

Parallelamente, le norme sulla cittadinanza (riforma del '92) si caratterizzano come “a più basso tasso di de-etnicizzazione tra le democrazie liberali”, poiché viene mantenuto il principio dello iure sanguinis a scapito dello iure soli. Con tale legislazione l'acquisizione della cittadinanza, anche per chi è effettivamente nato in Italia, avviene solo su richiesta e con il raggiungimento della maggiore età. Per i cittadini stranieri appartenenti ad uno stato non comunitario, la cittadinanza risulta ottenibile solo dopo ben 10 anni di residenza legale in Italia. Gli stessi diritti politici risentono di un tale squilibrio democratico che vede i titolari di passaporto italiano, discendenti di terza e quarta generazione, iscritti automaticamente nei registri elettorali e gli stranieri residenti e lavoratori in Italia senza nessun diritto di voto.

Si è così creato un ampio settore di manodopera sfruttabile e invisibile, impossibilitato a esprimersi politicamente e che fatica ad essere rappresentato nelle stesse parti sociali che dovrebbero dargli voce. La crisi economica ha portato ad un peggioramento delle condizioni lavorative di questi strati di popolazione, i quali, portati al limite della sopportabilità, si stanno organizzando per far pesare le loro richieste sempre più in sintonia con gli strati impoveriti del ceto medio italiano caduto vittima delle medesime leggi reazionarie di erosione dei diritti. 

Infine, il ripresentarsi del conflitto di classe sulla scena nazionale sembra aver colto di sorpresa buona parte della sinistra, invischiata sulla “terza via” blairiana e incapace di dare risposte concrete alle richieste di cambiamento provenienti dalla base sociale. 

Contributi video sulle giornate dello sciopero

 Interviste ai lavoratori: 

http://www.youtube.com/watch?v=ovQdTfMtG0A&feature=player_embedded# 

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=CUVqka4XjpU 

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=RDedmPbDT10

 Ricostruzione delle lotte nelle cooperative: 

http://www.youtube.com/watch?v=eaqq-f5h7kw&feature=player_embedded#!

Ultima modifica il Mercoledì, 03 Aprile 2013 00:21
Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

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