Il 1787 è una data da non dimenticare per chi riflette sul futuro dell’Europa. In quell’anno gli Stati Uniti nascevano ufficialmente come entità politica, come stato federale, in forza dell’approvazione alla convenzione di Philadelphia della Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Evento non da poco, considerato interessante più che importante dagli Europei che in casa loro avrebbero vissuto a breve l’epopea rivoluzionaria francese. In sostanza passò in secondo piano – perché certamente non se ne potevano ancora immaginare le prospettive – la fondazione di un nuovo Stato fuori dal Vecchio Continente, con di fronte uno splendente avvenire.
Facciamo alcune precisazioni: gli Stati Uniti non si fecero in un giorno, avevano una popolazione affatto omogena – seppure a maggioranza inglese –, una miriade di orientamenti religiosi, barriere doganali interne, un sistema produttivo completamente differente tra stati del nord e del sud. Non dimentichiamo che gli Stati Uniti vissero una guerra civile prima di trovare – o imporre – una comunione di intenti nella politica interna ed internazionale. Banalità che è sempre bene ricordare, perché ci aiuta a riflettere su cosa si fece in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’Europa del principio nazionale, dell’autodeterminazione dei popoli, dei fascismi, dei lager e dei gulag, della violenza quotidiana onorata o disonorata che fosse dai principi di razza, libertà, uguaglianza: questo quanto ci fu prima del ’45. Pochi anni dopo cambia tutto; troppo male era stato fatto, troppo sangue versato. Gli europei compresero – un po’ per volontà, un po’ per l’imposizione esterna di un nuovo equilibrio internazionale dove questi non erano più le potenze di un tempo – che ci si doveva unire per non perire, per non ripetere i mali del passato, per continuare a contare qualcosa nella politica internazionale. Anche questa storia la conosciamo.
Oggi però, in questi duri anni di crisi economica e sociale, rileggiamo questo passato – la storia del processo di integrazione europea – quasi come un male, come una perdita di sovranità, come l’accettazione di regole fatte da estranei capaci di tarpare le ali ad una libertà nazionale ancora possibile. Non prendiamoci in giro; questa è l’epoca della globalizzazione, del mercato mondiale senza barriere, della comunicazione istantanea. Chi conta sono i grandi paesi continentali, quelli che hanno le dimensioni, i fondamentali economici, le risorse, le capacità per recitare la propria parte sul palcoscenico di un mondo sempre più multipolare.
Che c’entra dunque Philadelphia? Gli Stati Uniti, un po’ come quelli europei, hanno vissuto il loro processo di integrazione; un passo alla volta lungo il XIX secolo hanno messo in piedi tutti gli strumenti di un mercato unico, un unico esercito e una politica estera, hanno distribuito i poteri tra stati federati e stato federale, hanno costruito la prima grande federazione del pianeta un pezzo alla volta, partendo però da un punto saldo, dal faro che ha illuminato – nel bene e nel male, comunque si intenda la storia degli USA – tutto il cammino degli statunitensi: l’unità politica. Gli americani a Philadelphia inaugurarono la loro lunga epopea a partire dal principio della democrazia rappresentativa, dall’idea che scegliere sia un diritto dei cittadini, da esercitare attraverso un Parlamento ed un Governo.
Vi sarà più chiaro adesso che cosa intendo: gli europei dopo la Seconda Guerra Mondiale “si misero intorno ad un tavolo” e immaginarono davvero, come aveva scritto Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene, di fare gli Stati Uniti d’Europa. Quale prospettiva migliore per un Continente sventrato dalla guerra e diviso tra le due superpotenze dell’epoca. Non andò così; non ci fu la costituzione, le parole di Robert Schuman del 9 maggio 1950 che invocavano uno sforzo creativo, che incitavano gli europei a fare la Federazione europea non furono fino in fondo ascoltate. L’Europa prese la strada dell’unità, ma non fece lo Stato, non realizzò la comunità politica.
Da tempo ormai si parla della possibilità dell’uscita dall’euro e dall’Unione fatta di banche e poteri finanziari disfacitori dello stato sociale nei Paesi europei. L’Europa dei popoli, non quella della banche! Basta con le imposizioni della Troika! Niente pareggio di bilancio, no al Fiscal Compact!
Cominciamo prima di tutto nel non cadere nell’errore della retorica della Germania e dell’Unione cattiva, contro i poveri stati del sud. Le scelte economiche fatte negli ultime cinque anni, in nome di una “salutare austerity” come soluzione ad ogni male, sono scelte fatte al di fuori degli strumenti comunitari, secondo il metodo intergovernativo dove, è chiaro, vige la legge del più forte. Questo è il primo punto: si è abbandonata la via della soluzione dei problemi all’interno delle regole e degli strumenti forniti dall’Unione Europea; in questa situazione la Germania, circondata da tanti deboli malati, ha fatto la parte del leone, in nome dei propri interessi nazionali. Nessuno ha fatto gli interessi dei cittadini europei.
Comunque si voglia concepire il senso delle scelte fatte e gli attori in gioco fino ad oggi c’è una via d’uscita a questa situazione, e non è certo tornare indietro. Non farebbe onore alle forze politiche che si chiamano progressiste immaginare di gettare a mare quanto costruito fino ad oggi, quanto fatto per realizzare una comunità, esempio per il pianeta, di convivenza civile fra popoli un tempo nemici. E se dell’onore non ci importa, ci importino i costi sociali ed economici della fine del sogno europeo; quale stato sociale, quale sviluppo per gli europei senza Europa in questo mondo?
L’unica via percorribile che non preveda il declino è quella dell’unità politica; fare quello che si sarebbe dovuto fare subito dopo la Guerra, quando ancora negli occhi dei nostri nonni c’era tutto il pesante portato dell’insensata violenza appena vissuta. Oggi agli europei serve una Costituzione, servono gli strumenti democratici per far sì che possano decidere del loro futuro, per poter chiedere un nuovo modello di sviluppo, per chiedere uno stato sociale all’altezza di una società che si definisce civile e che non si dimentica degli ultimi. Per costruire questa Europa serve decidere, servono un Parlamento ed un Governo che, in quanto espressione dei cittadini che li hanno democraticamente eletti, facciano delle scelte per tutti gli europei. Da questo punto bisogno ripartire, senza rinnegare niente, senza tornare indietro.
Cosa ci porta da Philadelphia a Bruxelles? Nel 1984 il Parlamento europeo – divenuto elettivo pochi anni prima, nel 1979 – approvava “un progetto costituzionale per gli Stati Uniti d’Europa” grazie al lavoro di Altiero Spinelli, eletto al PE come indipendente di sinistra del Partito Comunista Italiano. Quell’anno con una larghissima maggioranza, il Parlamento europeo non si limitava ad approvare una riforma dei trattati ma si faceva Assemblea Costituente e votava chiaramente per l’unità politica, per gli Stati Uniti d’Europa.
Questa storia purtroppo non è quella di un successo, ma ci parla della mancata approvazione da parte dei Governi, nella sede del Consiglio dei Ministri, di una Costituzione per l’Europa.
Il 14 Febbraio si celebrano i 30 anni dall’approvazione del “progetto Spinelli”; in questi duri anni di crisi e di dilagante euroscetticismo è più che mai importante ricordare cosa quel Parlamento, come unico organo democraticamente eletto nelle istituzioni europee, fu in grado di mettere sul piatto del dibattito politico. Il 2014 è anno di nuove elezioni europee; nel rinnovare il PE si gioca molto del nostro futuro. I risultati di queste elezioni ci diranno quale strada prenderà l’Unione: si retrocederà o si giungerà finalmente all’obbiettivo del lungo processo di integrazione europea?
Il futuro dell’Europa dipende da quali saranno i rappresentanti che invieremo al Parlamento europeo. L’occasione che abbiamo di fronte, proprio nell’anno del ricordo del progetto costituzionale di Altiero Spinelli al PE, sta nel rilanciare il ruolo dell’unico organo democraticamente eletto dell’Unione, nell’eleggere legislatori in grado di rendere Bruxelles la sede da cui rilanciare il sogno di un’Europa libera e unita. Questo Parlamento dovrà farsi Assemblea Costituente perché ne ha il diritto, perché il valore del principio democratico va oltre gli interessi dei singoli governi, oltre le regole comunitarie.
Non parliamo di cose campate per aria; il Parlamento europeo lo ha già fatto una volta e può farlo ancora; se nel 1984 i governi rifiutarono di dare una Costituzione all’Europa, stavolta non potranno tirarsi indietro perché gli anni di crisi hanno reso impellente una soluzione strutturale. Serve però la proposta, il piatto su cui giocare la partita dell’Europa politica.
Tutto questo però sarà possibile se le forze politiche progressiste faranno una scelta chiara non verso una vaga volontà di più Europa, ma in direzione di una netta presa d’atto che dalla crisi si esce solo con gli Stati Uniti d’Europa.
La sinistra italiana ed europea ha una grande responsabilità in vista delle prossime elezioni, perché stavolta si gioca sul serio la partita decisiva per il futuro di questo debilitato Vecchio Continente.
Nel Manifesto di Ventotene Altiero Spinelli scriveva: “La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionare lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchio assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale e cioè una federazione europea”. Da che parte le forze che oggi si definiscono progressiste intendono stare?