Domenica, 09 Febbraio 2014 00:00

UE: una realtà malata (che potrebbe funzionare)

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Diciamocelo francamente: così com’è, l’Europa non funziona. E non si tratta a mio avviso di un giudizio estremistico o totalmente senza senso: perché, di fronte a una crisi economica che sta attraversando il continente intero, come si fa a dire che nell’UE va tutto bene? I media cercano di propinarci la solita storiella che le “grandi decisioni”, quelle che aiuteranno l’Italia a venir fuori da questo tunnel senza fine, vengono prese a Bruxelles e non a Roma. Il motivo lo conosciamo: i politici italiani non sono affidabili. E quindi l’unico organismo che può darci una mano è la somma, suprema e imbattibile Unione Europea: se gli daremo ascolto, tutto filerà liscio. E infatti siamo ancora qui, dopo quasi oramai sei anni dall’inizio della crisi, con più problemi di prima e con meno speranza che mai. Come mai siamo arrivati a questo punto? 

L’Unione Europea, fondata ufficialmente con il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, fu il risultato di una spinta proveniente da quelle politiche economiche che, partendo dagli USA di Reagan e dalla Gran Bretagna della Thatcher, arrivarono ad inglobare gli Stati del vecchio continente all’interno di un mercato libero marchiato WTO, caratterizzato dall’eliminazione delle barriere doganali (già in atto da diversi anni), da una politica finanziaria e monetaria comune (che portò a un’ulteriore deregulation nel mondo della finanza) così come da un’eguale politica economica. Ma ne è valsa la pena?

Personalmente credo che nell’Unione Europea ci siano degli elementi positivi che non si possono tralasciare: fare parte di un’unione di Stati permette al singolo di far conoscere agli altri componenti della comunità la propria cultura, i propri prodotti e le proprie potenzialità, in maniera veloce, più semplice e sicuramente più efficiente. Il problema non è l’idea di per sé, quanto come si organizza e si fa funzionare.

La complicazione sta nel fatto che, volendo eliminare le differenze, il rischio è proprio quello di abolire come soggetti economici paesi interi, per assoggettarli a una linea comune. Fin qui il principio, se il sistema economico fosse sano e funzionante, potrebbe anche essere accettabile in linea di massima. Ma cosa succede se questa linea comune fallisce per l’ennesima volta? Si è discusso tanto delle cause della crisi economica. Prima le borse, le banche e gli istituti finanziari crollano, poi si chiede alla gente di comprare, poi non ci sono i soldi, poi ci sono i datori di lavoro che licenziano, poi i ristoranti vuoti, poi si produce tanto oppure troppo poco. Tante cause diverse, tanti annunci e alla fine la gente ci capisce meno di prima. E allora, di nuovo: perché c’è stato il crollo?

La risposta è molto semplice: il crollo c’è stato perché abbiamo lasciato (Unione Europea inclusa) mano libera alle banche, agli azionisti e alle grandi corporations. Abbiamo lasciato che si sostituisse al termine “economia” non quello che si tocca ma cifre illusorie e senza senso: il valore degli attivi finanziari globali (formati da azioni, obbligazioni pubbliche e private e attivi delle banche) nel 2007 superava il PIL (indicatore fondamentale dell'economia reale) di 4,4 volte. Abbiamo lasciato avvelenare noi e i paesi del Terzo Mondo, mentre qua e là i nostri governi fanno finta di essere portatori di assistenza umanitaria: nel 2008 l'impronta ecologica nel pianeta toccava il livello di 1,3. Ciò significa che la Terra, oltre alle proprie, sta consumando un terzo delle risorse di un altro pianeta: eppure perché allora c'è il Terzo mondo?

Questa linea comune chiamata capitalismo e neoliberismo non distribuisce equamente le risorse terrestri: e così la parte del mondo sostenuta dalle grandi corporations (la nostra) mangia, si fa la doccia, si compra i giocattolini e va dal McDonald’s, mentre quella sfornita di capitale, finanza e veleni vari va a fondo, per sostenere noi e i nostri vizi consumistici. 

A questo punto le soluzioni sono due: o allarghiamo la nostra economia anche a loro senza tenerli in una posizione subordinata, utilizzando allo stesso tempo però anche più risorse terrestri (che è quello che sostanzialmente sta succedendo da diversi anni e che ci porterà ad una catastrofe globale) o semplicemente cambiamo sistema: lasciamo che chi ha il petrolio se lo gestisca (senza imporsi con la forza militare come hanno fatto gli USA in medio-oriente); lasciamo che le piccole e medie imprese abbiano la possibilità di fare concorrenza tra di loro, senza doversi ridurre ad una posizione insignificante di fronte ai colossi dell'economia (e questo parte dalle nostre azioni quotidiane: invece di comprare il latte Parmalat che è in mano ai francesi, uno va dal pastore o dalla prima cooperativa che vende latte dietro casa); facciamo sviluppare le economie a partire dal locale e dal nazionale, senza andare tuttavia a distruggere un’organizzazione che si possa, allo stesso tempo, far garante non più degli interessi di banche, istituti finanziari e big business ma di quelli dei singoli cittadini.

L’Unione Europea, così come è adesso, non ci da altra via d’uscita che pagare un debito colossale a chi la crisi l’ha causata e continuare, dunque, a finanziare questo sistema economico malato e pericoloso. Un esempio dal quale ripartire potrebbe essere la piccola Islanda, che si è auto diminuita il debito imponendosi come Stato. Ha dell’incredibile il premier Sigmundur David Gunnlaugsson (di centrodestra!) che, nel corso di un’intervista al canale televisivo americano Cnbc, nella quale ha spiegato i motivi della scelta di non entrare in Europa, afferma: “L'eurozona non ha imparato niente dalla bancarotta della banche islandesi del 2008. Le banche della zona euro stanno ancora funzionando con le stesse regole che hanno portato le banche islandesi al collasso. Per questo non siamo più interessati ad entrare nell'Unione e neanche nell'euro”. Eh si, proprio degli estremisti questi islandesi.

Ultima modifica il Sabato, 08 Febbraio 2014 23:35
Andrea Vignali

Ho 20 anni, sono nato a Massa Marittima (GR) e attualmente vivo e studio storia moderna e contemporanea a Pisa. Suono la batteria, faccio politica e scrivo piccoli romanzi. Quella de il Becco è la mia prima esperienza giornalistica.

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