Il voto dell’antistato
Questo risultato è molto strano perché negli ultimi anni tutti gli indicatori economici dell’Italia sono sensibilmente migliorati. Ciò, di per sé, non è indice di una situazione soddisfacente sul piano sociale: la crescita aggregata può infatti mascherare, come spesso avviene in Occidente, una tagliente sperequazione. Ma, appunto, le scelte dei Governi Renzi e Gentiloni – liberi, a differenza dell’esecutivo Letta, dell’ipoteca berlusconiana sulla maggioranza – sono andate nella direzione di smorzare le ineguaglianze sociali e risanare le profonde ferite che la crisi economica ha inferto alla distribuzione della ricchezza.
Gli 80 euro, la quattordicesima alle pensioni minime, il recupero dell’evasione (totale nel caso del canone Rai con suo conseguente abbassamento), l’abolizione della tassa sulla prima casa, il Reddito di inclusione, l’abolizione dei co.co.pro., i 500 euro per consumi culturali di docenti e diciottenni, l’estensione della maternità per la Gestione separata, la legge sul “Dopo di noi” per l’assistenza a disabili senza supporto familiare, hanno segnato decisivi passi avanti per la giustizia sociale e un aiuto concreto a famiglie in difficoltà.
Come è dunque possibile che il PD abbia dimezzato i voti delle europee 2014 – che venivano quando il Governo Renzi era in carica da tre mesi e quindi basati sulla fiducia – e che di questa metà perduta ben un terzo vadano al M5S?
La situazione è strana solo se non ci si ferma a considerare le radici storiche di un voto che, come ogni voto, ritrae fedelmente la condizione del popolo che lo esprime. (Quand’anche venisse dato superficialmente e senza riflettere, infatti, sarebbe comunque lo specchio di una popolazione superficiale e non riflessiva.)
In realtà, se ci si astiene dall’assumere come punto di partenza i nostri preconcetti e non i dati di fatto, siamo costretti a considerare che, in tutta evidenza, il prevalere delle forze antisistema, o dichiaratamente eversive, è avvenuto non a dispetto bensì in diretta conseguenza dell’ondata riformatrice di questi anni.
Ad imporsi, infatti, è stata un’antica costante che percorre tutta la storia moderna dell’Italia e che, dall’Unità nazionale in poi, ha costituito il principale motivo di contrasto tra Paese legale e Paese reale: la separazione radicale tra i cittadini e lo Stato. Quest’ultimo visto come un salassatore oppressivo e opaco da una schiera di persone che, in realtà, proprio per questo non si sentono cittadini e vivono secondo il criterio dell’egoismo.
Ovviamente non tutti i cittadini si sentono separati dallo Stato. Una buona fetta del Paese vi si è integrata con un certo successo. Una parte maggioritaria, però – quella che ha fondato il consenso a tutti i regimi di massa succedutisi dopo l’introduzione del suffragio universale – mantiene con lo Stato rapporti di diffidenza se non di aperta ostilità (dall’odio politico all’evasione fiscale alla criminalità organizzata). In questa parte maggioritaria vi è un nucleo centrale costituito da quanti ignorano, addirittura, il funzionamento dello Stato. Nel sistema bipolare della “Seconda Repubblica” questi elettori si concentravano principalmente nei lidi di Forza Italia e della Lega.
Il nucleo centrale ha a propria volta uno zoccolo duro che conta circa un 5% dei votanti ed è costituito da quella quota – stabile appunto attorno al 5% – che regolarmente rifiuta di rispondere il vero nelle indagini demoscopiche. Il confronto tra sondaggi pre-voto e risultati elettorali consente abbastanza facilmente di capire l’orientamento di quest’area: Forza Italia nel sistema bipolare, il Movimento 5 Stelle in quello “tripolare” (sebbene il tripolarismo oggi sia tale solo quanto ad alleanze; la spaccatura resta bipolare, tra i gruppi estremisti e quelli democratici).
Il Partito Democratico se ne è avvantaggiato in un’unica occasione: le europee 2014, la sola elezione in cui si sia mostrato con una facciata mimeticamente populista. (Tale operazione fu tentata in parte anche nel referendum costituzionale del 2016, ma vi erano già un anno e mezzo di riforme a smentirla nei fatti.)
Il Partito della Nazione
Ed è proprio il confronto tra il 41% del 2014 e il 19% del 2016 la migliore testimonianza dell’esito dello scontro, fortissimo in questi anni, tra riforme e odio. L’assetto politico italiano è alle corde da molti anni: i primi scricchiolii erano avvertibili già durante l’ultimo Governo Prodi – fu in quel periodo, del resto, che Giuseppe Grillo organizzò la prima manifestazione di massa di odio contro il sistema politico democratico. Non vi è certo una sola causa, ma l’agente principale è probabilmente l’interazione tra la diminuzione degli standard di vita per le giovani generazioni e l’impotenza dello Stato nazione nei confronti del grande capitale transnazionale.
Dato che la seconda cosa è concausa della prima, è evidente che la soluzione del problema sociale e politico non può che risiedere nella compiuta unificazione europea e costruzione di uno Stato politico continentale, del quale l’Italia dovrebbe fare parte integrante. Nell’attesa di raggiungere questo risultato, soluzioni temporanee e parziali possono venire dalle leve a cui lo Stato nazione ancora può ricorrere per creare occupazione: incentivi economici e contrattuali.
Questa via è stata quella battuta dal Partito Democratico sotto la guida di Renzi.
Da un lato, inserendosi nel solco del programma delineato sotto la direzione di Palmiro Togliatti, Renzi ha rivendicato al PD il ruolo di “Partito della Nazione”: il moderno Principe evocato da Gramsci nei «Quaderni dal carcere», al quale sarebbe spettato il compito di assumere su di sé il moto di sviluppo dell’Italia che i ceti dirigenti, conservatori e refrattari a qualsiasi innovazione, si rivelano incapaci di compiere. Industriali profittatori e redditieri latifondisti formavano nell’Italia studiata Gramsci un blocco reazionario che prosperava grazie ai suoi commis intellettuali di orientamento legittimista. A questo blocco si rivelava necessario opporre un’alleanza unitaria tra tutti i lavoratori: della fabbrica, della terra, della mente.
Ma, da un altro lato, Renzi ha bruciato le tappe e premuto sull’acceleratore dell’aggressione riformatrice al blocco reazionario italiano. In questo egli è tornato a sinistra rispetto a Togliatti, richiamandosi semmai all’afflato immediatamente rivoluzionario, seppure non avventurista, di un uomo come Terracini – del resto più volte richiamato esplicitamente dallo stesso Renzi. Dietro il 41% del 2014 Renzi aveva forse intravisto (come chi scrive) la nascita di un nuovo sistema politico che per almeno una generazione sarebbe stato imperniato sulla centralità del PD. Egli ha dato così per acquisito un consenso aggregato che poneva insieme la sinistra parlamentare e i moderati di centro e di destra favorevoli a una linea politica antifascista e frontista (si ricordi che nel 2014 Scelta Europea fu prosciugata dal PD e lo stesso Nuovo Centrodestra rischiò di non superare lo sbarramento del 4%).
Su questo 41% Renzi ha quindi iniziato, fin dall’autunno 2014, l’avvio della poderosa ondata riformatrice di cui solo alcuni punti sono stati richiamati all’inizio di questo articolo. Così facendo si è però creata una situazione in cui, in nome della presunta autosufficienza del PD, sono stati rotti i ponti con altri partiti (in primis Forza Italia) proprio mentre ci si apprestava a sferrare al blocco reazionario il più massiccio colpo d’ariete dai tempi dell’autunno caldo.
La risposta del blocco reazionario all’autunno caldo fu la strategia della tensione, il golpismo e, poi, il piduismo. All’epoca però il mantenimento della democrazia in Italia era di fatto garantito dal confronto internazionale della guerra fredda, con entrambe le grandi potenze interessate ad evitare la guerra civile in Italia e, in generale, scossoni in Europa. Oggi questa garanzia non esiste più.
Il piano riformatore delineato da Renzi era il maggiore messo in campi dai tempi del programma di austerità proposto da Berlinguer nel 1977.
Sconfitto il Partito della Nazione, ciò che resta è la vittoria del «Partito dell’altra nazione» evocato da Cerasa; o, per meglio dire, del Partito dell’antinazione: quel blocco di massa sanfedista e qualunquista ricordato in precedenza, animato dall’odio verso le istituzioni democratiche.
Chi ha pianto per il Partito della nazione gramsciano sarà costretto a sorridere all’Antipartito mussoliniano.
Il vicolo cieco a sinistra
Enormi sono, in tutto questo, le responsabilità della sinistra settaria. Sotto tale definizione ricadono quasi esclusivamente i dirigenti nazionali, visto che il consenso elettorale si è rivelato striminzito. Simili dirigenti, che già avevano fallito alla guida del centrosinistra, hanno fallito ancora una volta, essendosi rifiutati di vedere due possenti travi nei propri occhi.
In primo luogo, l’egemonia dell’estrema destra sul No al referendum costituzionale. Non è da stupirsi che se i due principali partiti che guidano il No sono il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord la vittoria del No rafforzi il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, ossia l’estrema destra. Bersani dichiarò che votava No perché non voleva lasciare alla destra la rappresentanza del disagio. Auguri: durante il regime fascista Bombacci fu emarginato e visse in povertà, ma il 28 aprile 1945 fu fucilato lo stesso come tutti gli altri. Anzi sul documento di fucilazione venne qualificato esplicitamente come “Supertraditore”.
In secondo luogo, un’altra storica costante della storia italiana: l’assenza di qualsiasi spazio significativo a sinistra del più forte partito della sinistra e dei lavoratori. È stato così per il Partito Comunista Internazionalista nel 1945-46; per il Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista) negli anni Sessanta; per il manifesto nel 1972; per il Partito di Unità Proletaria e Democrazia Proletaria negli anni Settanta e Ottanta; per la Sinistra-l’Arcobaleno nel 2008; per Rivoluzione Civile nel 2013. Solo Rifondazione ha avuto negli anni un qualche successo.
Ma il lavoro della sinistra settaria non è stato vano. Parafrasando la citazione marxiana dell’Amleto si potrebbe dire “ben rosicato, vecchio ratto!”. Agitando istericamente lo spauracchio di Berlusconi e Verdini e al contempo legittimando i violenti del Movimento 5 Stelle come interlocutori politici moderati, Liberi e Uguali – soprattutto per mano di Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista – hanno persistito in un antico errore e ne hanno evocato uno nuovo. L’anti-berlusconismo di un decennio fa fu purtroppo sempre più piegato a un antiberluscon-ismo, un modo estremamente berlusconiano di opporsi a Berlusconi, che veniva rifiutato in quanto tale e non per via del contenuto classista e antidemocratico della sua politica. Politica che infatti è stata resa ancora più antidemocratica e ancora più classista dalla degenerazione del berlusconismo, ossia il grillismo. (Sull’antidemocrazia non vi è bisogno di ricordare i molteplici assalti contro le istituzioni democratiche e costituzionali; sul classismo vedremo.) Proseguendo ciecamente sulla via dell’antiberluscon-ismo, già foriera di degrado politico e per di più con un Berlusconi ridotto nell’angolo da Casaleggio e Salvini, si è dato vita a un secondo gravissimo errore: quello di illuminare il M5S come l’unica via di opposizione a Berlusconi e quindi come un partito compiutamente di centrosinistra.
Chi ne ha raccolto i frutti – tenetevi: è una vera sorpresa – non è stato LeU bensì il M5S.
Programma economico del M5S
In questa campagna elettorale la principale carota sospesa a pochi centimetri dal muso degli asini è stato il reddito di cittadinanza proposto dal M5S. La metafora per dir la verità non è corretta, perché le carote spingono gli asini a marciare e faticare, mentre in questo caso la promessa del Bengodi spinge a poltrire e parassitare. Ma sarebbe un errore vedere nella promessa di un reddito assistenziale per tutti soltanto un verme appeso all’amo del consenso elettorale. In realtà dietro questa proposta, così come dietro l’intera operazione politica denominata Movimento 5 Stelle, vi è un disegno ampio e terrificante.
Per stessa ammissione di Giuseppe Grillo (intervista al Corriere della Sera del 3 febbraio 2016), il reddito di cittadinanza è il primo passo verso l’abolizione completa del lavoro salariato e una potente tassazione (al 50%!) sui consumi. È evidente che una misura fiscale di questo tipo è pesantemente regressiva, tartassando spudoratamente le classi a basso reddito. Addirittura, l’esempio addotto da Grillo riguardava il bisogno più immediato, quello alimentare: «Chi deve pagare le tasse? Chi fa il pane di notte e o chi lo compra al mattino? Deve pagare chi compra il pane».
La domanda a questo punto è: chi mai si stancherebbe a infornare il pane di notte, quando potrebbe contare su un reddito svincolato da qualsiasi opera? È evidente che la manodopera potrebbe essere reperita solo tramite lavoro coatto.
Tant’è vero che, a parole, Grillo si premurò di prospettare il reddito di cittadinanza sotto una luce del tutto contraria, quello della completa liberazione dal lavoro: «Io ho un reddito, decido io se lavorare, quanto lavorare, come lavorare. Magari non faccio niente, chi lo sa? Magari sono un creativo».
Il riferimento ai “creativi” non era casuale. Richiama infatti la teoria di Richard Florida sulla “classe creativa” che in Occidente si sarebbe sostituita alla classe operaia quale motore dello sviluppo. Nel 2017 Florida ha dato alle stampe «The New Urban Crisis», nel quale, in quella che è stata letta come una sorta di autocritica intellettuale, il professore americano evidenzia la crescente gentrificazione dei centri urbani e l’aumento delle diseguaglianze tra questi e le periferie e la campagna. In realtà il Florida del 2002 e quello del 2017 non sono in contraddizione. A far crescere la diseguaglianza infatti è stato il rafforzamento della sola élite dei creativi: architetti, ingegneri, musicisti di alto rango, designers, finanzieri, eccetera. Ma questi sono ben lungi dall’esaurire il perimetro della classe creativa. Questa ricomprende, ad esempio, gli educatori dell’infanzia, i lavoratori delle assicurazioni e del credito, gli infermieri, i programmatori: ossia chiunque svolga un lavoro non manuale grazie alle proprie competenze intellettuali. La maggior parte di questi individui sono lavoratori che prestano la propria opera tramite processori informatici e che vivono in un ambiente di lavoro precario in quanto sottoposto a crescenti minacce di delocalizzazioni (ad esempio, in India).
Personalmente ritengo che la distinzione fondamentale tra borghesi – che possiedono i mezzi di produzione – e proletari, che non possiedono altro che se stessi e debbono vendersi sul mercato per vivere, resti attuale. Il declino della classe operaia non ha intaccato l’esistenza del proletariato, ma ne ha molto modificato i contorni. È facilmente comprensibile come chi lavora alla catena di montaggio dell’industria di massa sia spinto a organizzarsi in forme politiche strutturate e di massa mentre chi lavora davanti a un computer sia spinto a organizzarsi in forme politiche liquide e disintermediate. Nella deindustrializzazione dell’Occidente e nel passaggio a uno stile di vita sempre più fondato sul consumo, l’effetto combinato è stato quello di potenziare i bisogni fittizi e rendere molto attrattiva la proposta di Grillo.
Molti commentatori hanno visto nel reddito di cittadinanza una riedizione del keynesismo. In parte è così; ma si tratta di una perversione di quella politica, perché in questo caso lo Stato finanzierebbe non la produzione (demandata semmai ai robot) bensì il consumo. Da un punto di vista marxista, la fine del lavoro – ossia dell’attività che fonda la specie umana e che ne costituisce il cammino di autoemancipazione – significa la fine dell’essere umano. Ha dello sconvolgente vedere come ex dirigenti falliti del centrosinistra seguano imperterriti questa strada: primo fra tutti l’impenitente Bersani, che, prima di elogiare retrospettivamente la globalizzazione degli anni Novanta come «marea che faceva venir su tutte le barche» (la stessa retorica reganiana della trickle-down economy e della flat tax), aveva condotto la propria azione industriale assumendo l’ottica non del lavoratore bensì del consumatore.
Vecchio centrosinistra e PD di Renzi
Viste le fortissime sintonie che sempre di più emergono tra LeU (specie A1-MDP) e il M5S, viene da pensare che tra i primi molti abbiano sostenuto il No alla riforma costituzionale non «sebbene antifascisti» ma proprio «perché fascisti».
Ma, a dire il vero, vi è un punto sul quale il M5S è stato efficacemente in grado di inchiodare il vecchio centrosinistra e i nostalgici ulivisti alle loro responsabilità. Nel giugno scorso Alfonso Bonafede, tentando di spiegare il reddito minimo garantito (evidentemente per il reddito di cittadinanza vale il detto “per i bischeri non c’è paradiso”), disse che si dovevano potenziare gli uffici di collocamento, ad oggi non funzionanti per la concorrenza delle agenzie interinali. Difficile sottovalutare il potere che questo appello può aver avuto sui lavoratori in somministrazione. Giova ricordare che il lavoro interinale è stato introdotto in Italia nel 1997 dal pacchetto Treu, sotto il governo dell’Ulivo appoggiato da Rifondazione e con Bersani al Ministero dell’industria. Dopo che nel 2003 la legge 30 ebbe esteso la precarizzazione del lavoro i Ds e la Margherita si opposero strenuamente alla sua abrogazione.
Oggi Tiziano Treu fa il Presidente del CNEL, mentre Bersani dice che servono le “protezioni” che fa Trump (quali?). Nel frattempo, la prima e unica inversione di rotta rispetto al ventennale movimento verso la precarizzazione è stata compiuta dal Governo Renzi con l’abolizione dei contratti di collaborazione a progetto.
Ma non è questa la principale differenza con il vecchio centrosinistra. Ve n’è un’altra, che segna una cesura ancor maggiore tra moderatismo e radicalità: la rottura dell’alleanza con gli specialisti borghesi e con gli alti professionisti. A partire dal 1994, e più ancora dal 2001, il centrosinistra percorse una via simile a quella tentata dalla Concentrazione antifascista del 1927: un’alleanza con settori potenti della società italiana, politicamente molto moderati, ancorati a rendite di posizione; alleanza nella quale il ruolo della sinistra, esercitato peraltro da posizioni subalterne rispetto alla classe dirigente, si sarebbe limitato a recidere la fedeltà politica di questa classe al fascismo (al berlusconismo) senza però aggredire né le istituzioni conservatrici né, tantomeno, le strutture classiste. Ai tempi della lotta contro il berlusconismo i principali destinatari di questa strana alleanza furono i giornalisti, la magistratura, parte dei gruppi finanziari e industriali, i baroni universitari. Questo fronte, denunciando in Berlusconi un moderno «sultano» (Sartori), ne temeva il potere di compressione degli spiriti egoisti della società civile in nome del prevalere di un potere monopolistico. Su queste basi, il centrosinistra non poteva avere la capacità di sostituire al governo del sultano un governo repubblicano della virtù, perché agli occhi dei suoi potenti azionisti questo avrebbe replicato ciò che si contestava al Cavaliere: la repressione, appunto, dei comportamenti viziosi e corporativi presenti nella società civile.
Il 4 maggio 2015, parlando alla Borsa di Milano, Renzi invece attaccò frontalmente il «capitalismo di relazione, che ha prodotto alcuni effetti anche decisamente negativi. È arrivato il momento di mettere la parola fine a un sistema basato più sulle relazioni che non sulla trasparenza e sul rapporto con il mondo che sta fuori, che cresce, che cambia e che chiede all’Italia più trasparenza, più dinamismo, più innovazione e più curiosità». Replicando (senza citarlo) a De Bortoli, che aveva lasciato la direzione del Corriere della Sera pochi giorni prima definendolo “Caudillo” e “maleducato di talento”, Renzi ricordò una citazione di Chesterton: «La democrazia è il governo dei maleducati, l’aristocrazia è il governo degli educati male».
Il tentativo di riformare e correggere i vizi del Paese – che si è rivelato insostenibile sulle spalle di un’unica forza politica, il Partito Democratico, contro tutta la vasta accozzaglia avversaria – si era rivolto contro ogni settore sociale: dalla sinecura di un Governatore della Banca d’Italia giudicato intoccabile dal Quirinale e dallo stesso Gentiloni, e che inspiegabilmente non doveva essere chiamato a rispondere della mancata vigilanza sul crack di ben sei banche (Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara, Popolare di Vicenza, Veneto Banca), ai dirigenti della Pubblica Amministrazione divenuti passibili di licenziamento in caso di condotte viziose in corso nelle loro strutture, agli stessi assenteisti della PA (i “furbetti del cartellino”) per i quali sono stati disposti per decreto tempi contingentati per la sospensione e il licenziamento, agli evasori del canone RAI introdotto in bolletta.
Chiaramente, la rottura più significativa è stata quella con il ceto più alto, quello imprenditoriale, che aveva sostenuto l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi nel febbraio 2014 e che se ne è poi distaccato una volta appurato che le riforme andavano nella direzione di un sostegno ai lavoratori più che alle imprese stesse. Il centrosinistra di Renzi non era più dunque la “neutro-sinistra” amministratrice del sistema capitalistico – quella che si proponeva di essere il vecchio Ulivo, quella che ha lasciato campo alla demagogia sociale dell’estrema destra.
Prima e dopo
Nel corso del 2012 il M5S e Grillo sostituirono il PdL e lo screditato Berlusconi nel ruolo di capo-mazziere del grande capitale italiano, secondo il noto schema di conquista del consenso di piccola borghesia e sottoproletariato, repressione dei lavoratori e dei partiti democratici e della sinistra.
Il grillismo non aveva in questa fase altro ruolo che quello di polizia padronale, analogo a quello degli squadristi fino alla marcia su Roma e della Lega fino alle elezioni del 1994. Compito del grillismo era puramente lanciare bombe nel mucchio, seminare l’agitazione e il panico, massacrare le forze di sinistra per impedirne l’arrivo al Governo, incenerire la società per spianare la strada a un esecutivo reazionario di tutela dei grandi interessi finanziari. Una volta che tale strada fosse stata spianata, essa sarebbe stata percorsa non dal grillismo (almeno, non dal grillismo squadrista e movimentista) ma da un altro soggetto sociale ancora non ben definito – proprio come al fascismo movimento seguì il fascismo regime e al ribellismo leghista il berlusconismo. Questo soggetto padronale è stato a lungo latente: colui che ne sembrava il principale alfiere, Montezemolo, scelse (con Marchionne) di sostenere Monti e quello che era, nella realtà, un progetto austeritario che non incontrava il favore del ventre borghese – basti ricordare la gelida accoglienza che gli fu riservata dalla Confcommercio a Cernobbio nel marzo 2012. Ma anche altri esponenti di spicco del capitalismo italiano (Della Valle, Passera, Squinzi) sono apparsi a lungo in difficoltà e un poco all’angolo, benché sbraitassero molto contribuendo a sfibrare ancor più il senso democratico degli italiani.
L’assenza di un secondo momento della reazione era dovuta, come evidente, alla capacità del PD di aggregare consensi anche a destra, di occupare parzialmente il campo del nemico. Questo mantenne il mondo alto-borghese diviso e smarrito, indeciso se fare la guerra a Renzi (ma con chi, dopo le europee 2014?) oppure sostenerlo (ma consapevole che Renzi non era il “loro” cavallo).Inizio modulo
Questi gruppi avevano sostenuto Renzi in principio pensando che la rottamazione fosse rivolta solo contro il PD e che avrebbe avuto come risultato il suo indebolimento. Una volta scoperto che la trasformazione del PD era invece in partito “rivoluzionario” in grado di estendere la rottamazione al vero campo di battaglia – quello socio-economico – anche i grandi proprietari, come tutte le caste e corporazioni del Paese, si sono orientati contro Renzi. La stampa di De Benedetti si occupava di attaccare costantemente il PD e la stampa di Cairo si sperticava nelle lodi del M5S, nel mezzo di una valanga di violenza e di odio culminata infine nel tentato colpo di Stato dell’inchiesta Consip e nell’attentato fascista di Macerata.
Alla fine hanno vinto e oggi il Presidente di Confindustria può bellamente dire che il M5S è «un partito democratico, non fa paura».
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