Mercoledì, 05 Dicembre 2018 23:52

Le due lezioni alle sinistre dopo le elezioni in Andalusia

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Il risultato delle recenti elezioni regionali in Andalusia ha destato scalpore per due preoccupanti novità manifestatesi per la prima volta dai tempi del franchismo: l’interruzione del dominio politico delle sinistre nella regione, l’ingresso dell’estrema destra in un Consiglio regionale spagnolo.

Il partito fascista Vox, che starebbe per “vox populi” (giusto per chiarire ancora una volta la reale natura nero-bruna dei “populisti”), ottiene l’11% a scapito dei principali partiti e della lista a trazione podemista, mentre anche Ciudadanos raddoppia i propri consensi.

Vi sono numerosi fattori contingenti che probabilmente hanno concorso al successo dell’estrema destra, a partire dall’ondata di sbarchi di migranti sulle coste andaluse nell’estate appena trascorsa. Ma anche gli scontri interni tra la Presidente della regione Susana Díaz e il Primo ministro Sánchez possono aver determinato una minore affluenza dell’elettorato del Psoe (di cui l’Andalusia è il principale serbatoio di voti). Nell’autunno 2016 la Díaz fu tra le principali artefici della sostanziale sfiducia a Sánchez che, da segretario del partito, si opponeva a consentire l’insediamento di un nuovo esecutivo Rajoy tramite l’astensione dei deputati socialisti. Scenario che invece si concretizzò dopo le dimissioni di Sánchez.

Ma, al di là di quali siano o meno i motivi più influenti nel successo di Vox, esso consegna ad entrambi gli schieramenti qualche lezione da imparare.

Anzitutto, il primo importante risultato di un partito fascista dopo il franchismo arriva sotto un inedito governo Psoe-Podemos – una coalizione che potrebbe essere chiamata social-populista, ma che qui chiameremo social-podemista.[1] Per giunta, l’evento si verifica nella regione storicamente più schierata a sinistra.

Non solo.

Dopo il ritiro di Rajoy dalla politica il Partito popolare, sotto la guida del giovane Pablo Casado, ha assunto un orientamento in tutto e per tutto neo-franchista, fondato sull’integralismo cattolico, su un nazionalismo aggressivo, sulla mitologia della passata dittatura, e si è di fatto schierato a fianco di Orbán e Salvini.

Quali sono, dunque, queste lezioni?

Per la sinistra: per dirla con Enrico Berlinguer, non si governa col 51%. Una coalizione governativa ristretta alla sinistra (socialista e podemista) non è stata in grado di impedire il sorgere di una forza fascista in una regione di sinistra: figurarsi se potrà con successo combattere il fascismo là dove già prospera.

Per la destra: per dirla con Winston Churchill, “ciascuno spera che, se nutrirà a sufficienza il coccodrillo, sarà divorato per ultimo”. Nutrire il coccodrillo, però, ottiene l’effetto di aumentarne le forze e la violenza: così fece Giolitti con Mussolini, così von Papen (e poi Chamberlain) con Hitler, così Berlusconi con Salvini. Così vuol provare oggi Weber con Orbán e Salvini.[2] La destra democratica si illude se pensa che, spostandosi su posizioni estremiste, potrà scongiurare la crescita del fascismo.

Trascorsi dieci anni dall’inizio della Grande recessione, è possibile avere ormai un quadro sufficientemente nitido per analizzare non solo tale decennio ma, anche, i precedenti vent’anni fino alla caduta del Muro di Berlino.

Nel periodo 1989-2008 le tradizionali famiglie politiche occidentali dettero l’impressione di reggere l’onda d’urto epocale della fine del sistema di Jalta. Anche laddove il sistema politico fu radicalmente ristrutturato (Italia) gli orizzonti mentali e le contrapposizioni ideologiche restarono sostanzialmente immutate. Frattanto, nei Paesi dell’Est si faceva più o meno stentatamente strada il tentativo di instaurare democrazie liberali sul modello occidentale, con partiti di orientamento prevalentemente liberale o socialdemocratico.

In realtà il 1989 portò a profonde mutazioni nelle intenzioni programmatiche e nelle azioni governative dei partiti – se non altro di quelli di sinistra – le cui conseguenze, accumulatesi nel corso degli anni, sono state poi fatte detonare dalla crisi economica.

La conseguenza più evidente è stata l’adesione dei partiti socialdemocratici al discorso neo-liberale. Con ciò non si intende sostenere che fossero scomparse le differenze tra i due campi, bensì che si fosse saldamente affermata un’egemonia culturale fondata sulla libertà del commercio, la privatizzazione di patrimoni pubblici e sociali, l’estensione di parametri di produttività profittuale anche ad enti non votati al profitto, l’organizzazione nominalmente liberaldemocratica dei rapporti politici ed anche una crescente tolleranza verso la diversità culturale.

Di contro venivano perduti, rispetto al consenso postbellico, l’impegno a garantire lo stato sociale e la pregiudiziale antifascista (seppur solo formale).

In parte questo riorientamento culturale rispondeva ad effettivi innegabili movimenti storici: la globalizzazione del mercato veniva resa possibile dalla dissoluzione del blocco socialista, che da un lato apriva sterminati territori a basso costo e dall’altro eliminava gli esempi alternativi di società, indicando quindi nel capitalismo il sistema economico definitivamente premiato dalla storia. Inoltre, il deciso rallentamento della crescita, in atto già dalla crisi petrolifera del 1973, aveva intrappolato gli stati in una crisi fiscale che rendeva sempre meno sostenibile la spesa sociale. Ciò non aveva significato, però, un eguale crisi per tutte le imprese: il mondo imprenditoriale, anzi, poté giovarsi di ingenti guadagni di Borsa visto che già dagli anni Ottanta l’attività finanziaria riprese un ritmo movimentato abbandonando quella sostanziale calma seguita al Grande crollo del 1929. Tali guadagni furono naturalmente accelerati da generose riforme fiscali a beneficio dei grandi redditi, spacciate secondo il principio che più biada si dà da mangiare al cavallo più briciole cadranno a terra per nutrire anche i topolini.

In questo scenario la più evidente differenza tra le forze politiche riguardò la modulazione del neo-liberalismo: shock secondo il centrodestra, graduale secondo il centrosinistra.[3]

La continuità apparente con i sistemi politici dei tempi dell’equilibrio bipolare fu dovuta a una convergenza di fattori. Anzitutto la fedeltà elettorale delle coorti d’età più mature; in secondo luogo il fatto che gli effetti sociali e generazionali di certe riforme si manifestano negli anni, con l’avvicendamento di classi di età nel mercato del lavoro; infine, la mancanza di un forte reagente che portasse al precipitare di condizioni critiche.

Questi tre fattori di stabilità dei sistemi politici sono tutti venuti meno negli ultimi dieci anni.

La dura legge della biologia ha portato a un forte rinnovamento della platea elettorale; le varie riforme del mercato del lavoro (Treu e Biagi in Italia, Hartz in Germania, ecc.) hanno dispiegato a sufficienza i propri effetti; la crisi economica ha dato il colpo di grazia a molte realtà aziendali – in due battute di «Wall Street – Il denaro non dorme mai»: “Affonderemo?”, “La domanda è: chi non lo farà?”. 

Tuttavia il colpo per i partiti politici tradizionali non si è manifestato, in questi dieci anni, nelle stesse modalità. Anzi è possibile suddividere il periodo in due diverse fasi. 

Nella prima fase (2009-2012) ad essere puniti erano soprattutto i partiti socialdemocratici e laburisti, mentre venivano premiate il più delle volte forze ambientaliste oppure social-liberali: ad esempio gli ecologisti in Francia; i verdi, i pirati e i liberali in Germania; la UPyD in Spagna; i verdi in Svezia; i liberaldemocratici e i verdi nel Regno Unito; i radicali in Danimarca; gli anticlericali in Polonia; i liberali e i democratici nei Paesi Bassi. L’estrema destra avanzava solo in alcuni Paesi specifici e in percentuali relativamente contenute (ad esempio Svezia 2010 e Finlandia 2011).

Rispetto ai socialdemocratici queste forze ecologiste o liberali mostravano alcune rilevanti differenze: anzitutto una diversa natura ideologica; un minor commitmental mondo del lavoro dipendente; un più forte impegno verso l’integrazione europea; una maggiore attenzione ai diritti civili che a quelli sociali. Insomma, oggi si direbbe che tali forze rappresentassero prevalentemente i garantiti.

Era davvero così?

Sembrerebbe di no: a votare per loro erano prevalentemente i giovani e gli indecisi.

Nella seconda fase, cioè a partire dal 2013, perdono consensi non soltanto i socialdemocratici bensì tutti i partiti tradizionali, compresi quelli di centrodestra. Le forze che si affermano, viceversa, sono esterne al sistema politico: il più delle volte sono populisti di destra o di estrema destra (Austria, Cechia e Italia nel 2013; Austria, Danimarca, Francia, Germania e Svezia nel 2014; Danimarca, Polonia e Regno Unito nel 2015; Slovacchia nel 2016; Austria, Cechia, Francia e Germania nel 2017; Italia e Svezia nel 2018). In alcuni casi minori sono partiti populisti non collegati alla destra estrema (caso più evidente la Spagna nel 2014 e 2015); ma anche quando si tratta di partiti liberali si tratta spesso di formazioni del tutto nuove, come Ciudadanos in Spagna e En Marche! in Francia.

Gli elettorati di queste forze non sono sovrapponibili, anzi, talvolta sono mutualmente esclusivi (il caso limite è naturalmente il ballottaggio Macron-Le Pen alle presidenziali francesi).

In genere vota per l’estrema destra quello che si potrebbe chiamare “il popolo di mezzo”: le persone fra i 30 e i 60 anni, non troppo povere né ricche, abitanti nelle zone periferiche o rurali, non ferme alla scuola dell’obbligo ma neppure arrivate all’università. Si tratta di coloro per cui le prospettive lavorative e reddituali sono state più decisamente ridotte dalla globalizzazione. Votano per l’estrema destra, anche, gli apolitici e coloro che esprimono distanza dall’asse destra/sinistra.

Per i liberali, i podemisti e, dove in ascesa (es. Germania), i verdi, votano, invece, in prevalenza i giovani, gli abitanti dei centri urbani, i laureati. È difficile dire, come fa spesso la stampa, che queste fasce siano “garantite”. Gli unici “garantiti” in Occidente sono coloro che hanno già una inattaccabile posizione reddituale e questi sono, fatte salve le estreme fasce apicali della società, soltanto i pensionati e i lavoratori in procinto di diventarlo. I giovani, per quanto laureati e istruiti, si trovano in un mercato del lavoro continuamente instabile e strutturalmente precario. Si tratta però di coloro che, nell’oceano in tempesta, hanno maggiori capacità di nuotare.

Esistono naturalmente varianti specifiche secondo le diverse realtà nazionali; ad esempio, in Italia i giovani votano più facilmente per i partiti estremisti.[4] 

Richard Florida sembrerebbe dunque aver avuto ragione due volte: una prima volta, indicando che la classe creativa si sarebbe sostituita alla classe operaia, dando luogo alla trasformazione della sinistra in senso post-socialista; una seconda volta, facendo autocritica e rilevando la principale linea di divisione nel sempre maggiore divario città/campagna.[5]

Tuttavia c’è un punto di contatto tra le due fasi, quella eco-liberale e quella fascio-populista. In entrambi i casi sono premiati partiti a lungo distanti dal potere, minoritari, e che scelgono spesso di posizionarsi al centro dello schieramento politico anche se hanno posizioni estremiste (ad esempio il M5S in Italia e i “Democratici” in Svezia). È stato in effetti notato come elettori che si posizionino al centro vogliano in realtà esprimere una distanza dal mondo politico e che questo posizionamento preluda sovente a un effettivo spostamento a destra.[6] (Nel mio piccolo, ho avanzato questa ipotesi per spiegare la vittoria di Trump nelle primarie 2016.)[7] 

I sistemi politici sono tuttora in corso di ristrutturazione. Nessuna delle nuove formazioni politiche – fascisti, podemisti, euro-liberali – può dire di aver fondato strutturalmente un duraturo consenso, salvo particolari casi limite come quello ungherese. Le continue scosse di questo sciame sismico, ancora lungi dall’assestarsi, e che anzi con l’Andalusia estende l’artiglio fascista a territori finora immuni, interrogano profondamente le forze politiche democratiche (tutte) sulle loro capacità di fare fronte comune, di coltivare l’unità popolare invece della divisione, dell’astio e del rancore (in cui sono maestri ineguagliabili proprio i fascisti) e di imparare, in ultimo, le due “lezioni andaluse” ricordate in apertura.


[1] Cfr. https://www.ilbecco.it/politica/societ%C3%A0/item/4176-podomismo-come-quarta-rivoluzione.html

[2] Ne ho parlato più diffusamente qui: https://www.ilbecco.it/politica/sinistre/item/4598-verso-le-primarie-del-pd-i-candidati-e-la-sfida-antipopulista.html

[3] Cinque anni fa ne parlavo qui: https://www.ilbecco.it/politica/sinistre/item/925-la-neutro-sinistra.html

[4] Cfr. il Dieci mani del 20 novembre 2018: https://www.ilbecco.it/diecimani/item/4646-i-giovani-italiani-sono-davvero-meno-di-sinistra-dei-coetanei-europei.html

[5] Vi ho accennato qui: https://www.ilbecco.it/politica/societ%C3%A0/item/4276-il-risultato-elettorale-ha-vinto-l-altra-nazione.html

[6] https://cise.luiss.it/cise/2017/03/14/young-peoples-voting-behavior-in-europe/

[7] https://www.ilbecco.it/politica/internazionale/item/2995-sanders-e-trump-due-outsider-agli-antipodi.html


Immagine liberamente ripresa da theconversation.com

Ultima modifica il Giovedì, 06 Dicembre 2018 00:05
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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