Qualche seggio non ha ancora un vincitore dichiarato, poiché le operazioni di spoglio sono ancora in corso (inoltre in alcuni casi sono stati annunciati riconteggi o è richiesto un ballottaggio), ma, se li assegniamo virtualmente al candidato in testa nello scrutinio, il plenum vede una maggioranza di 230-205 alla Camera per i democratici e di 53-47 al Senato per i repubblicani.
La differenza tra le due Camere è ancora più evidente nella differenza netta rispetto allo status quo: alla Camera i democratici maturano un guadagno di 36 seggi, mentre al Senato sono i repubblicani ad aumentare la propria maggioranza di 2 seggi.
In tempi recenti, il Congresso era già stato diviso negli anni centrali della Presidenza Obama (2011-2014): al tempo, però, i colori erano invertiti: la Camera ai repubblicani, il Senato ai democratici.
La spiegazione di questi fenomeni fa capo ad un unico filo, ossia la crescente polarizzazione tra città e campagna. Questo dato era già molto forte negli Stati Uniti e, negli ultimi anni, ha iniziato a diffondersi prepotentemente anche in Europa (dove, salvo alcune zone della Gran Bretagna, le differenze principali erano tradizionalmente tra regione e regione). La crescente diminuzione del voto rurale ai democratici1, e di converso il loro aumento dei consensi nelle realtà suburbane, hanno prodotto qualche esito che ha sovvertito le previsioni della vigilia.
I collegi della Camera sono ripartiti, all’interno dei singoli stati, in misura proporzionale alla popolazione; per questa ragione gli opposti spostamenti politici di campagne e sobborghi hanno alterato di pochissimo, rispetto a quanto si presumeva, il totale numerico dei seggi vinti dai due partiti. Discorso molto diverso al Senato, in cui ogni stato è rappresentato da due senatori a prescindere dalla sua popolazione – meccanismo che consente una forte sovrarappresentanza degli stati meno popolosi. Nei venticinque stati con minore popolazione è urbanizzato, in media, il 68% degli abitanti, contro il 79% degli altri venticinque.
Nei centri urbani le conquiste dei democratici non si limitano alle zone più ricche degli stati democratici, come Los Angeles o New York City, ma si estendono anche a città e sobborghi di stati molto repubblicani come la Georgia (Trump-Clinton 51-46%), la South Carolina (55-41), lo Utah (46-27), il Kansas (57-36) e l’Oklahoma (65-29). In tutti gli Stati Uniti, i democratici aumentano ancora di più rispetto al 2016 il proprio consenso tra i bianchi istruiti e relativamente benestanti che, almeno in alcune regioni (il Sud e il bacino del Mississippi), avevano costituito un pilastro elettorale del partito repubblicano.
Nelle campagne, invece, si manifesta al Senato lo stesso fenomeno già osservato nel 2016: una forte sottostima, da parte dei sondaggi, dei candidati repubblicani. Democratici favoriti alla vigilia ma poi usciti sconfitti dalle urne si ebbero due anni fa in Pennsylvania e Wisconsin; quest’anno, in Indiana, Missouri e (forse) Florida. Pure candidati democratici sui generis, ossia ex governatori conservatori molto popolari in stati di destra, si scoprono più deboli nelle urne: il senatore Manchin è rieletto in West Virginia (Trump-Clinton 68-26% nel 2016) con un vantaggio di 3 punti invece dei 7 previsti2, mentre Phil Bredesen perde in Tennessee (61-35) con un distacco di 11 punti invece di 53.
Anche nelle elezioni dei governatori – di livello statale, ma non collegate al Congresso – i democratici perdono, restando sotto le aspettative in stati importanti come la Florida (-5 punti rispetto ai sondaggi) o l’Ohio (-7).
Cosa hanno in comune questi stati? In tutti questi la popolarità di Trump, al 44% a livello nazionale, supera il 50%: 51 in Florida, 52 in Ohio, 53 in Missouri, 55 in Indiana, 59 in Tennessee, 63 in West Virginia.
Il Presidente è stato, più che in altre elezioni recenti, un fattore di mobilitazione. Esso non ha mobilitato solo l’opposizione, che pure ha quasi monopolizzato il voto di chi disapprova l’operato di Trump, ma anche i sostenitori della maggioranza, che all’inizio di questo ciclo elettorale sembravano invece più rassegnati. Il punto di svolta, in particolare, è stato il processo di audizione e conferma da parte del Senato di Brett Kavanaugh – accusato di violenze sessuali – come giudice a vita della Corte Suprema. In quei giorni, a cavallo tra settembre e ottobre, i democratici registrarono a livello nazionale una flessione di intenzioni di voto poi presto riassorbita; le perdite di consenso subite dai loro senatori, invece, si sono dimostrate irrimediabili, segno di una mobilitazione degli elettori conservatori delle campagne da parte di Trump.
La rielezione di Obama nel 2012 sembrò segnare l’affermazione di quella che fu chiamata la “Obama coalition”, ma che avrebbe potuto essere definita la “Dukakis coalition” che sostenne il candidato democratico, Michael Dukakis appunto, alle presidenziali del 1988. In entrambi i casi, i democratici ottennero il 40% del voto bianco, il 90% di quello nero e il 70% di quello ispanico. Tuttavia la crescita demografica della popolazione ispanica e il declino di quella bianca hanno trasformato l’aggregato minoritario del 1988 (46% del voto popolare, 10 stati) nella base della vittoria del 2012 (51%, 26 stati) e – era opinione comune – degli anni seguenti. Commentatori di ogni genere, anche interni al partito, rilevarono nel 2012 che per tornare competitivi i repubblicani avrebbero dovuto aprirsi alle minoranze etniche, la cui crescita metteva a rischio la tenuta di storiche roccaforti conservatrici nel Sud e nell’Ovest.
La ricetta Trump prevede esattamente l’opposto: aumentare il proprio consenso non tra la popolazione di colore, ma tra un certo tipo di bianchi, ossia quelli meno istruiti. Questo aumento è bilanciato dalle perdite tra i bianchi laureati, per cui l’equilibrio politico complessivo tra i gruppi etnici non cambia; tuttavia i bianchi non laureati – ovvero gli agricoltori e gli operai – hanno consentito a Trump di sfondare la muraglia democratica del Midwest pur risultando ancora minoritario nel voto popolare (come tutti i candidati repubblicani dal 1992, con l’eccezione di George W. Bush nel 2004). Ed è questo il motivo per cui, rispetto al 2010, le maggioranze alle Camere sono invertite.
In un sistema partitico in cui per decenni al centro dello spettro politico vi è stata una diffusa intersezione tra democratici e repubblicani la crescente diversificazione dei due partiti e la loro polarizzazione è un tema affrontato e commentato da molti anni. Non entrambi i partiti, però, hanno subito questa trasformazione negli stessi tempi. Il partito repubblicano ha iniziato lo sbilanciamento a destra con la vittoria di Reagan alle primarie (e poi alle presidenziali) del 1980, scorrendo poi su un piano inclinato di conservatorismo fiscale, conservatorismo religioso, populismo e infine estrema destra. Anche per questo motivo, se gli elettori che si autodefiniscono “liberali” o “conservatori” hanno continuato ad aderire strettamente ai rispettivi partiti, i “moderati” (ovvero i centristi) si sono spostati dal dividersi equamente fra le due forze al premiare in misura dei due terzi il partito democratico.
Questa dinamica ha consentito di mantenere l’asinello su uno spettro politico più esteso rispetto ai loro rivali, almeno fino al 2010, quando i democratici conservatori sono stati spazzati via alle prime mid-term di Obama che riconsegnarono la Camera ai repubblicani. Questa ecatombe politica, che lasciò senza adeguata rappresentanza una fetta rilevante del baricentro sociale degli Stati Uniti, pose le basi per la deviazione demagogica e protezionista del partito repubblicano alle presidenziali 20164. Ma ha avuto anche una conseguenza più duratura: la crescente impopolarità presso la base della costante ricerca del compromesso parlamentare tra i due partiti, che lo stesso Obama vedeva come la via per rafforzare l’unità morale del popolo americano («a more perfect Union», un’espressione che è tra le prime parole del Preambolo della Costituzione, è il titolo di uno dei più celebri discorsi di Obama durante le primarie 2008).
Nel 2016 non si è manifestato soltanto, con Trump, un nuovo estremismo di destra, ma anche un nuovo movimento di sinistra nel partito democratico, in precedenza confinato a esperienze limitate (MoveOn) o di fatto esterne al partito (Occupy Wall Street). Che la grande massa elettorale di questo movimento non fosse affatto socialista5 ha poca importanza, poiché genuinamente di sinistra radicale era la sua minoranza militante.
In un quadro di tale polarizzazione, gli Stati Uniti appaiono destinati ad essere spaccati in due6, il che a breve termine significa per le presidenziali 2020 un combattimento quasi in ogni stato e principalmente in quelli in cui più equilibrati sono i rapporti di forza tra città e campagne (il Texas, la Florida e gli stati del Midwest). Per ottenere un vantaggio competitivo, il partito democratico dovrà cercare di recuperare la connessione con gli elettori rurali e di tornare a fornire una rappresentanza ad una parte dei conservatori.
È inoltre utile ricordare che le elezioni di mid-term non costituiscono una previsione delle successive presidenziali: Reagan nel 1982, Clinton nel 1994 e Obama nel 2010 ottennero brucianti sconfitte a metà del primo mandato, ma furono rieletti due anni più tardi.
1 Si veda ad esempio http://graphics.wsj.com/clintonobama/ per un confronto tra le contee vinte da Bill Clinton nel 1996 e da Barack Obama nel 2012. La differenza è di 832 contee perdute, pari a oltre il 25% delle 3007 contee degli Stati Uniti.
2 https://projects.fivethirtyeight.com/2018-midterm-election-forecast/senate/west-virginia/#deluxe
3 https://projects.fivethirtyeight.com/2018-midterm-election-forecast/senate/tennessee/#deluxe
4 Due anni fa ne parlai qui: https://www.ilbecco.it/politica/internazionale/item/3361-trump-su-chi-ha-costruito-la-vittoria.html
5 https://www.ilbecco.it/politica/internazionale/item/3262-verso-le-elezioni-presidenziali-statunitensi.html
6 R. Brownstein, The two Americas just lurched further apart, CNN, 8 novembre 2018 https://edition.cnn.com/2018/11/08/politics/election-2018-two-americas-brownstein/index.html